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    deadly blades have no mercy or compassion for their enemies,
    and their fury is to their own detriment
    Quando Shiloh era tornata a casa dal suo breve soggiorno a Montrose, l’aveva accolta con un sospiro. Non di sollievo – perché mai avrebbe dovuto sentirsi rincuorato: la prima domanda che il Gallagher le aveva rivolto, quando senza nemmeno chiedergli il permesso si era introdotta in casa sua come fosse la propria, era stato un recapito del resort in cui aveva alloggiato fino ad allora così che potesse avvertirli si fossero persi una persona; qualcuno era riuscito a togliere dall’equazione della sua esistenza uno dei monomi più rumorosi e fastidiosi che avesse mai conosciuto, poteva andare meglio solo e soltanto se anche Yale si fosse preso quella settimana e mezzo di vacanza senza dare tracce di sé al mondo intero –, ma pesante e grave, il capo biondo chino sul pavimento in chiaro segno di sconfitta.
    Quando aveva iniziato a blaterare storie prive di senso su gente che l’aveva drogata, rapita, fatta vestire in maniera assurda e rinchiusa con una bambina in una sorta di appuntamento al buio, e su un hotel che spariva nel nulla come se non fosse mai esistito, trascinando con sé decine di persone, le aveva aperto un portale sotto i piedi per spedirla il quanto più lontano possibile dal suo appartamento.
    La Abbott non aveva bisogno che Daveth si unisse al coro di voci che la definivano pazza: lo sapeva bene che lo pensasse da anni, ribadirlo era diventato superfluo e anche abbastanza noioso. Non era però per quel motivo che l’aveva catapultata via. E non del tutto per il fatto che aveva osato turbare quella tanto agognata quiete che era riuscito a conquistare grazie all’intervento divino che l’aveva fatta sparire per dieci, meravigliosi giorni.
    Era felice che stesse bene? Relativamente: lo confortava il fatto che fosse viva per più di un fattore – primo tra tutti, non sapeva se sarebbe stato in grado di sopportare gli autodistruttivi meccanismi di coping dell’Hilton: già non era certo di cosa aspettarsi come reazione al mancato ritorno di Nahla, ci mancava solo che tra la gente riuscita a fuggire da ovunque fossero finiti non ci fosse anche la sua migliore amica –, ma aveva sperato che si portasse dietro qualche trauma, anche uno piccolino, che le facesse considerare di entrare in una fase di terapeutico silenzio, se non direttamente in un monastero tibetano; di certo non abbastanza contento da reggerla per più di un minuto, ed era stato anche paziente.
    Se aveva voluto rimanere da solo, era (per tutti questi motivi, e) perché avesse detto davvero tante cose, e l’ombrocineta aveva bisogno di pace per assimilarle, comprenderle, capirne i risvolti e le implicazioni.
    Di base non gliene sarebbe fregato niente, e sebbene gli dispiacesse per Nahla, per Barbie, Dave era abituato all’abbandono, a veder le persone vicine scomparire dalla sua vita senza salutare né mai più fare ritorno. Che anche dei ribelli fossero stati coinvolti in quell’evento, non l’aveva turbato così tanto: era pragmatico, ben cosciente del fatto che il rischio fosse un punto rilevante della firma che avevano messo sulla pergamena incantata, e che le perdite fossero calcolate e contemplate nel grande disegno della Resistenza.
    Gli interessava però il ruolo che aveva deciso di ricoprire, l’impegno preso. Non poteva ragionare sul da farsi nel prossimo futuro con una zanzara a ronzargli nelle orecchie.

    «te lo dico io, davey,» tutte belle parole e pensieri sensati, quelli dell’ex soldato, ma quanto gli rodeva il culo. In generale, sì, ma in quel momento un po’ di più. «gliela farò pagare per quello che mi hanno fatto.» lasciò cadere le buste a terra, andandosi a sedere sulla poltrona di fronte al divano su cui Shiloh aveva deciso di fare il suo sermone da psicopatica. «è una minaccia e una promessa. mi sentiranno oh cielo. «mh-mh.» mugugnò soltanto, perché una delle grandi lezioni di vita che aveva appreso in ventinove anni era che i matti andavano sempre assecondati. «ti ho preso un regalo.» un vero gentiluomo; si piegò in avanti, prendendo una scatola dalla borsa della spesa e lanciandola alla ragazza. Una GoPro, perché non vedeva l’ora di non perdersi nemmeno un secondo delle sue avventure: era una persona seria sempre, in particolar modo sul campo di battaglia qualsiasi esso fosse, ma se esisteva l’occasione di farsi due risate sulle disgrazie altrui perché mai avrebbe dovuto privarsene? «ugh che palle ma yale non si poteva fare i cazzi suoi? cos’è, tipo un buon proposito per l’anno nuovo, fare la carità ai poveri? senza offesa, eh.» sollevò appena il capo per sorriderle guardandola negli occhi. «sono mortalmente offeso.» atono e apatico, perché non aveva alcun motivo di prendersela davanti all’ignoranza delle persone – anche quando si trattava di quelle più vicine che, suo malgrado, si fosse ritrovato ad avere. Percepiva una copiosa pensione da veterano di guerra nonostante si fosse congedato, prendeva fior di quattrini dai suoi incarichi da sicario, Piz lo pagava discretamente in palestra, aveva l’eredità di un tenente colonnello ancora del tutto integra e gli Hilton sborsavano più di quanto fosse necessario per non far morire Yale: era ben lontano dalla povertà, ma trovava sempre divertente vedere quanto la gente ricca per natura vivesse con il paraocchi.
    «quando mai hai visto newhaven cedric edward george stephen hilton iv» nome complete necessario. «farsi i cazzi propri?» era sinceramente curioso di saperlo: lo conosceva da indubbiamente più tempo di Daveth, magari era successo almeno una volta nella sua vita. Tornò a guardare nella busta, schioccando la lingua sul palato. «avresti fatto lo stesso, comunque. quindi…» si fermò, prima di dire qualcosa che avrebbe rimpianto per sempre: non giudicarlo.
    Perché credeva davvero che la ragazza potesse consapevolmente scegliere di aderire ad una missione potenzialmente suicida per qualcuno a cui teneva, qualcuno cui aveva promesso di prendersi cura. Lo capiva, e sapeva che lui in primis avrebbe fatto la medesima cosa – se ci fossero stati Zenith o Leaf al posto di Nahla, o Niamh; gli costava molto ammetterlo, ma avrebbe considerato quell’ipotesi anche se la trentenne con il gelato ed il pile davanti a lui non fosse riuscita a fuggire da quella situazione due mesi prima; con ancora più rammarico, era certo che se fosse scomparso Yale avrebbe tentato di recuperarlo.
    Questione di responsabilità.
    «secondo te gli piaceranno?» perché poteva anche [sospiro profondo] capirlo, ma ciò non significava che non dovessero provare a legarlo in casa ed impedirgli di fare qualche stronzata: era pur sempre la sua guardia del corpo. «non mi intendo molto dei suoi gusti estetici riguardo allo shibari» beh: si sarebbe fatto andare bene delle classiche corde, a meno che la scrittrice non avesse deciso di andarne a comperare delle altre.
    daveth
    gallagher

    Another game, another god
    Another day to buy your fate
    rogue lame mortali
    [ 15-20 pa all'avversario, pa/pd dimezzati ]
    special, ombrocinesi
    lvl master
    hitman — 1995s — rebel strategistAnother kill, another drug
    Another night, another war
    Another "What are we fighting for?"
    Another lost to bitter pain
    hail to the victor
    30 seconds to mars
    Mother of Night, darken my step
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    i don't give a...
    missio, zeale
    You don't know what's in my head
    You think you do, but you really don't
    You don't know what's in my head
    I'd like to beat ya up, I guess I won't
    «un ritratto. magari una cazzo di statua.» corrugò le sopracciglia, occupando la bocca con la bottiglia piuttosto che dare fiato ai propri pensieri. Avrebbe avuto parecchie cose da dire, Daveth Gallagher, ma alle volte preferiva rimanere in silenzio, cinico osservatore che sul ciglio della strada si limitava a giudicare i passanti e le loro particolari abitudini, le strane scelte che compivano ad ogni passo. Che fosse divertente – oh, quanto era divertente! – e che avesse un futuro nel mondo della comicità, a suo modesto parere nel settore della clownerie; o che se quello fosse il suo modo di rispondere a qualcuno che, disinteressato e senza alcun obbligo, cercava di aiutarlo, poteva anche andarsene tranquillamente a fanculo.
    Tristemente non aveva alcun motivo per punzecchiarlo, uno dei principali motori che lo spingeva ad interagire con il prossimo ed in particolar modo con lui: lo conosceva abbastanza bene, purtroppo, da sapere non gli avrebbe dato le giuste soddisfazioni in quel momento; ciò che lo disturbava di più, però, era che non avesse davvero voglia di farlo, leggendo in quelle parole e in quella risata forse più di quanto l’Hilton avesse intenzione di esprimere.
    Lo special aveva sempre sentito un po’ troppo, per ragioni a lui sconosciute. Non empatico, perché si era sempre imposto di non mettersi nei panni altrui, ma non riusciva ad essere indifferente alle ondate emotive che provenivano dagli altri esseri umani, per quanto cercasse costantemente, a tratti in maniera disperata, di distaccarsene. Non vi reagiva, non prendeva parte ai drammi altrui lasciando che gli scivolassero addosso come pioggia d’estate, ma c’erano – e talvolta, ignorarle diventava complicato.
    Perciò rimase a guardarlo, occhi zaffiro a cercare quelli più chiari dell’altro. Non cercava di studiarlo, né di decifrarlo: a cosa poteva servirgli, se tanto quella risata l’aveva già sentita più e più volte, non soltanto dallo stesso Yale pochi istanti prima? Sapeva già tutto quello che aveva bisogno di sapere, e quello che non conosceva era irrilevante – e sarebbe cambiato se, e solo se, fosse stato lui a dirgli ciò che celava dietro il suo proverbiale fascino.
    «non lo so.» scontato, eppure deludente. Non si scompose, Dave, perché riteneva ovvio che l’ereditiere non sapesse cosa farsene di un cadavere. Il loro mondo era alla deriva, e un uomo morto sul ciglio della strada in pieno giorno non faceva notizia, né interessava più nessuno, ma c’erano ancora delle mosche bianche in quella società: chi non aveva mai dovuto avere a che fare con quell’esistenza strappata, spesso e volentieri, troppo presto al proprio futuro, e chi invece, dall’alto della propria torre d’avorio, aveva qualcuno che si sporcasse le mani al posto suo. Non voleva sapere di quale delle due categorie di dittero facesse parte Yale, né gliene fregava più di tanto. «più estronzo, che estroso.» considerò citandolo, perché lo sconforto del biondo era tutto lì: dov’era quell’estro creativo che millantava? Dov’era la fantasia? Beh, certo, magari quello non era né il luogo né il momento più propizio per esternarlo – comprensibile, per carità divina; tuttavia…
    Si strinse nelle spalle, tornando brevemente ad osservare il corpo immobile dietro di sé. La mano ancora coperta di un manto scuro, tenebre che gli avevano permesso di non lasciare mai alcuna impronta, mai alcun segno del proprio passaggio su quella terra, rigirò l’arma del delitto tra le dita con le labbra piegate verso il basso. L’attimo seguente, quel pugnale non c’era più, risucchiato in un piccolo buco nero e diretto in posti in cui nessuno l’avrebbe mai trovato. Fidarsi non era mai un bene, e per quanto avesse deciso di credere all’assurda favola raccontatagli poc’anzi non poteva escludere che fosse una bugia – magari involontaria, frutto del trauma e dell’incapacità di accettare qualsiasi cosa fosse successa; magari spontanea, perché Newhaven non faceva altro che mentire e mentirsi da una vita. Non poteva nemmeno escludere fosse la verità, ma che comunque l’avesse stupidamente impugnato. Checché se ne dicesse, Thanatos era di fatto la guardia del corpo di Yale Hilton: il suo lavoro consisteva nel prevenire e gestire le situazioni di effettivo o potenziale pericolo contro la sua persona. Che non fosse tenuto a farlo quella notte, era un problema solo suo.
    Non gli disse che se ne sarebbe occupato lui, così come non gli chiese se lo desiderasse. Lavorava per lui, sì, ma non era il suo domestico, né tantomeno il suo schiavo: solo se glielo avesse domandato, avrebbe ponderato la possibilità di accondiscendere alle sue necessità – e non era detto che l’avrebbe comunque fatto: la propria libertà, Daveth l’aveva strappata dalle mani fredde di tutti quelli che si erano erti a tiranni, credendo di poterlo comandare.
    «se rimane lì, non sarà un problema.» asserì, nascondendo nel capo basso e nello sguardo rivolto all’uomo una smorfia: non era quello che avrebbe fatto lui, ma lì poco contava la sua peculiare morale da sicario. «posso sempre recuperare il pugnale.» il tono di voce più basso, quasi morbido e privo di quel miele venefico che avrebbe potuto celare nel suo calore una minaccia – perché quella, non la era.
    Si trattava di libero arbitrio, e di qualsiasi cosa avesse deciso di fare l’Hilton. Per il momento, gli bastava avesse il culo dorato ben coperto.
    «devo?» sbuffò una risata sul collo della bottiglia, scuotendo appena la testa. Non si era chiaramente aspettato nulla, ma anche in quel momento riuscì a rimanere deluso: non che fosse un amante delle sorprese, ma ogni tanto gli sarebbe piaciuto ricevere qualcosa che lo stupisse – e gli sarebbe piaciuto riceverlo da Yale: per principio, perché non ragionava lucidamente, perché voleva vedere la persona con cui da qualche anno ormai passava la maggior parte del tempo diversamente.
    «puoi volere qualcosa senza doverlo chiedere.» non rispose, perché lo capiva perfettamente – in modo diametralmente opposto, ma lo comprendeva. Al Gallagher, niente era mai stato dovuto, ma quando aveva chiesto, raramente gli era stato dato ciò di cui avesse bisogno; si era imparato che per avere ciò che voleva, doveva prenderselo da solo, con la forza. O non prenderlo affatto, e lasciare che il desiderio alimentasse qualcos’altro – la maggior parte del tempo, rabbia.
    «se vuoi che ti preghi, devi essere più convincente.» non avrebbe saputo dire il momento nel quale si era fatto così vicino a Yale, così tanto che solo la bottiglia alzata di quest’ultimo gli impediva di invaderne gli spazi più intimi. Tantomeno quello in cui aveva premuto la mano sul suo petto, sentendo tra le dita le vibrazioni del suo battito cardiaco ed ignorando il proprio, e leggero lo aveva spinto via – un solo passo, eppure più lontano di quanto potesse rendersene conto: poteva avere altri pensieri, poco coerenti, a frullargli nella testa, ma ad ogni modo non voleva rimanere in prossimità della scena del delitto. «non amo essere pregato,» benché sapesse di essere migliore di molti altri su quel pianeta, mai aveva osato innalzarsi ad una divinità cui rivolgere le proprie suppliche: era solo un soldato. Umettò le labbra, iridi chiare ad ammirare quelle dell’altro prima di sollevarle sul suo viso ed avvicinarsi. «ma mi piace quando qualcuno si inginocchia per me.» un sussurro all’orecchio dell’Hilton, caldo e liberatorio. Era stata una nottata impegnativa già prima di arrivare al Wicked Park, ed aveva bisogno anche lui di trovare sollievo in un respiro di pancia: era umano, d’altronde; quanto contasse che fosse alla quarta birra, era tra lui e Dio.
    «cos’è che vuoi, Yale.»
    sooner or later you're gonna tell me a happy story. i just know you are.
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    CITAZIONE ([ heavy sigh ] @ 28/1/2024, 17:06) 
    non mi scuserò. sapevate che non aprivo photoshop da mesi VOSTRO RISCHIO E PERICOLO.


    AIUTO FMKSKCKDKCKDKKCKRE GRAZIE PIDI 😭😭😭❤️❤️❤️❤️❤️ madonna quanto sei scema BELLISSIMI CHE SONO SSSDNDKDKKCKDKCKFK
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    prey for me
    the weeknd ft. kendrick lamar
    Who gon' pray for me?
    Take my pain for me?
    Save my soul for me?
    'Cause I'm alone, you see
    Quella non era la guerra di Daveth Thanatos Gallagher. Aveva deciso non potesse esserla, per quanto fosse complicato ignorarla del tutto. Era un soldato, faceva parte della sua deformazione professionale leggere i resoconti dei conflitti dietro ogni sguardo schivo e nascosto nel tono basso di ciascun bisbiglio, ma aveva fatto quanto in suo potere per lasciare che fosse un mero ronzio di sottofondo – che lo coinvolgesse il meno possibile, emotivamente ancor prima che fisicamente.
    Non era stato interessato a nessuno dei due schieramenti in ballo fino a quando uno dei due aveva avuto la meglio sull'altro, ed anche a quel punto la sua partecipazione agli affari del mondo e della comunità che lo circondava era dettato dalla convenienza più pura: sapeva come sopravvivere, il biondo, e che per farlo bisognasse saper virare la propria banderuola laddove il vento era maggiormente favorevole; non sempre gli piaceva l’aria che doveva respirare, spesso la trovava soffocante, ma si ripeteva di aver sopportato di peggio – e che ce l’avesse sempre fatta.
    Era andato tutto fin troppo bene. Aveva evitato le chiacchierate monotematiche, i quotidiani, i telegiornali, tutto. Aveva vissuto nella sua bolla, lasciandola esplodere solo la notte – perché lì, era il suo inconscio a decidere da cosa fosse lecito salvaguardarsi, e cosa invece fosse costretto a rivivere. Ma quando la guerra era finita, si era comunque ritrovato in quella casa che sulla targhetta portava ancora il suo nome, e quello del Roydon – seduto a terra tra mucchi di scatoloni che non aveva avuto il coraggio di spostare, a cercare assolutamente niente. Un porto sicuro ormai pieno di demoni da esorcizzare, tra i cui lidi trovava sempre qualcosa di nuovo.
    Un segreto, un ricordo, una traccia.
    Ed una lettera con il suo nome vergato d’inchiostro in un’elegante calligrafia che Dave non aveva mai avuto modo di aprire, e né tantomeno sapeva esistesse.

    Tirò pigramente fuori dall’acqua un braccio per richiamare l’attenzione della Barrow, lasciando l’altro comodamente adagiato sul bordo della piscina. Non conosceva Niamh, ma dire che non l’avesse mai vista era falso: da quando aveva aperto la missiva e visto le foto allegate, aveva fatto tutte le dovute ricerche – dove, per dovute ricerche, si intende spionaggio; era un sicario di professione, aveva molti modi per indagare su una persona e per scovarla da una semplice diapositiva ingiallita dal tempo – per scoprirne abitudini e conoscenze, e valutare se fosse o meno il caso di portare avanti quella stupida indagine nella quale si era andato ad incastrare.
    Un modo come un altro per passare il tempo: lungi da lui credere a ciò che aveva letto, ma non aveva di meglio da fare – senza contare il fatto che aveva assistito a cose molto più assurde di quel racconto fantascientifico.
    «sei in ritardo.» constatò l’ovvio, quando la ragazza lo raggiunse. Certo, lui era lì da mezz’ora prima dell’orario prefissato, ma questi erano dettagli trascurabili: non doveva tener conto a nessuno del proprio tempo passato a rilassarsi alle terme.
    sooner or later you're gonna tell me a happy story. i just know you are.
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    daveth gallagher
    I'm fairly local, I've been around
    I've seen the streets you're walking down


    28 ✧ shadowkinetic ✧ hitman
    I'm evil to the core
    What I shouldn't do I will
    They say I'm emotional
    What I want to save I'll kill
    Is that who I truly am?
    I truly don't have a chance
    Daveth Gallagher non era il tipo di persona incline a pentirsi delle proprie azioni. Lo riteneva un dispendio di energie completamente inutile, nonché uno stupido spreco del suo prezioso tempo – in quello che avrebbe potuto passare a rimuginare su ciò che aveva fatto, si impegnava a portare a termine un altro obiettivo senza guardarsi indietro nemmeno per un secondo.
    Il fatto che anche gli errori fossero millesimati, ed il più delle volte calcolati e presi in considerazione ben prima di pensare di agire, aiutava molto. Non era un incosciente, né tantomeno uno sprovveduto: sapeva di poter sbagliare, di averlo fatto fin troppe volte in tutta la sua vita – perché, purtroppo, altro non era che un banale essere umano che aveva dovuto ricucire tagli fin troppi profondi nella carne, e leccarsi da solo tutte le ferite, imparando da esse giorno dopo giorno dopo giorno –; al contempo, aveva capito come contenere i danni, come prevederli, si era ingegnato per studiare strategie che potessero ridurre al minimo i ripensamenti e a zero le lacrime sul latte versato. I passi falsi potevano essere all’ordine del giorno, complice un fato che sempre l’aveva preso per il culo senza farsi troppi problemi, ma avere bene in mente come rialzarsi in fretta o dove appoggiarsi per non cadere affatto faceva sì che, a fine giornata, tutto quello da fare fosse riflettere soltanto sulle minuzie.
    Senza contare che il sicario avesse una morale discutibile, e che raramente gliene fregasse un cazzo delle conseguenze che un sorriso tagliente o una pallottola nel cranio potessero avere, tanto nella propria vita quanto in quella del prossimo. Succedeva sempre qualcosa di spiacevole da qualche parte del globo, eppure questo continuava a girare: che menefreghista infame di un pianeta, uh? Non gli serviva a nulla il groppo alla gola o il dolore allo stomaco che una scelta potenzialmente sbagliata portava a chi, stupidamente, sosteneva di condurre un’esistenza votata alla rettitudine; d’altronde, la consapevolezza che le sue azioni potessero essere giuste e corrette unicamente dal proprio punto di vista non l’aveva mai scalfito. Ad ogni azione corrispondeva una reazione, e al contempo l’indolenza ripagava con una cascata di rimpianti e maledizioni che il pigro poteva rivolgere solo e soltanto a sé stesso.
    I rammarichi più grandi che avesse, riguardavano tutte le volte che non aveva potuto fare niente.
    Non si pentiva di ogni vita che prendeva sotto lauto pagamento, di tutto il sangue che versava per motivi che non gli interessavano minimamente; non si pentiva del male o della delusione che poteva causare, del fatto di essere una persona riprovevole agli occhi dei più né dell’immagine che dava di sé. Qualcuno avrebbe comunque fatto il lavoro al posto suo, ed avrebbe ferito il prossimo con parole e azioni che sarebbero risultate scomode e dolorose – e lui, l’anima dannata ce l’aveva dal momento in cui aveva messo piede su quella terra ventotto anni addietro: tanto valeva approfittarne, e trarne il meglio possibile dormendo comunque sonni tranquilli e spensierati.
    Non si pentiva di non aver partecipato alla guerra, di essere rimasto in disparte a guardare mentre tutto il loro universo si annullava e ricostruiva in un loop apparentemente infinito: ne era estremamente felice. Lo riguardava, lo interessava, perché inevitabilmente faceva cadere pesi diversi sui piatti della bilancia sulla quale Thane basava la propria lealtà – oltre al fatto che fosse un soldato, e per quanto ci provasse la guerra avrebbe sempre abitato nel suo corpo e nella sua mente, dilaniandoli senza alcun riserbo –, ma qualsiasi fosse stato il risultato del conflitto avrebbe trovato il modo di ricavarne un profitto personale. Aveva aspettato, come il proverbiale cinese sulla riva del fiume che attendeva di veder passare il cadavere del proprio nemico, e ne aveva tratto conclusioni e considerazioni. Spunti. Di certo in quel nuovo mondo ci avrebbe sguazzato, lui che con la magia di un tiranno onnipotente ci era addirittura nato: aveva vinto senza nemmeno scomodarsi, e a quel punto aveva solo da che decidere cosa fare con il montepremi accaparrato.
    Se darlo in beneficenza, o costruirci un impero.
    Considerazioni che aveva messo in un cassetto e chiuso a chiave, e che in quel momento dello spazio-tempo erano lungi dal passargli per il cervello.
    Perché, quel momento, era una di quelle rare volte in cui Daveth Thanatos Gallagher si pentiva delle proprie azioni.
    Invero, si pentiva proprio di tutto – abbastanza da compensare le brutalità di cui non gli interessava assolutamente nulla.
    Si pentiva di aver un debito con uno stupido francese di merda.
    Si pentiva di aver pensato fosse una bella idea accogliere una fuggiasca accusata di omicidio, perlopiù affetta dalla licantropia (perché non aveva abbastanza lupi nella propria vita, doveva fare la collezione), e farla passare per propria sorella agli occhi del mondo.
    Si pentiva di non averla abbandonata da qualche parte, lontano dagli occhi e lontano dal cuore, e di averci passato fin troppo tempo assieme da – ugh, affezionarsi.
    Si pentiva di averle detto che si sarebbe occupato lui di quel deficiente italiano che aveva scoperto chi fosse Pervence, cosa fosse, e andava in giro a minacciarla di spifferare un segreto che lei già faticava a tenere di suo, e che il biondo doveva salvaguardare per amor proprio.
    Si pentiva di averlo pedinato e studiato con la dovuta attenzione che un’operazione del genere richiedeva – perché nessuno al mondo, nessuno, avrebbe mai dovuto seguire un simile idiota: ne era quasi andato della sua sanità mentale.
    E si pentiva, Dio se si pentiva, di averlo infine rapito; avrebbe potuto direttamente ucciderlo, e di sicuro il mondo intero gliene sarebbe stato infinitamente grato. Altro che Abbadon, avrebbero innalzato lui a nuova divinità universale – certamente, se lo meritava.
    Senza pensarci troppo, sollevò la pistola e sparò un proiettile alla gamba del Grifondoro, attento a non colpire alcun punto che potesse risultare di vitale importanza ma che si limitasse a fargli abbastanza male. Parlava un po’ troppo per uno che aveva appena ripreso i sensi dopo una botta in testa, e di suo il Gallagher tollerava ben poco quando gli esseri umani davano fiato ai propri stupidi pensieri. Si sentiva già infinitamente meglio, doveva ammetterlo, e lo dimostrò sorridendogli melenso con la canna della pistola ancora puntata verso il suo corpo inerme.
    «hai la lingua decisamente troppo lunga, per i miei gusti.» un dato di fatto che lasciò scivolare piatto dalle labbra. «e non credo tu sia nella posizione di chiedere favori.» per quanto assurdi questi potevano essere, ma aveva deciso di non farsi domande.
    «volevo soltanto fare una chiacchierata, in privato.» era vero: le sue intenzioni erano le più pure. I metodi un po’ meno, ma faceva parte del fascino dell’ombrocineta. «su qualcosa che potresti aver visto lo scorso autunno. che ne pensi? poi potrai tranquillamente tornare da tua cugina, non preoccuparti.» magari in un sacco della spazzatura, o magari avrebbe dato a Ginevra Linguini – donna che Dave stimava – il materiale per sbarazzarsi del corpo di Romolo.
    I give it all my oxygen,
    so let the flames begin ©
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    «ci sei solo tu, qui. o mi sbaglio?» si lasciò scivolare addosso quella risata di carta vetrata, impassibile al cospetto del suono grezzo e distorto. Una melodia che accostata alla bellezza classica dell’Hilton, all’eleganza di cui si era vestito anche nel buio di un parco dove gli unici spettatori erano un cadavere e la sua guardia del corpo, stonava. Così fragorosa ed insistente, che avrebbe potuto infastidire i timpani di molti – se solo questi avessero avuto l’occasione e la voglia di passare del tempo con l’ereditiere non limitandosi a quello che serviva per scattare una foto e chiedere un autografo, o per far tintinnare tra loro flûtes ricolme di champagne, e fossero stati in grado di soffermarsi sulle sfumature di quelle note piuttosto che fermarsi ad ammirare lo splendido sorriso con il quale incantava.
    Daveth Gallagher non rientrava tra questi: non soltanto perché piuttosto che farsi firmare un’istantanea con Yale si sarebbe ficcato la canna della pistola in bocca ed avrebbe premuto il grilletto senza crearsi troppi problemi, né perché il suo ceto sociale mai gli avrebbe concesso di brindare ad un evento che prevedesse la sua presenza; di certo la quantità di tempo che aveva trascorso in sua compagnia aiutava a frapporre oceani interi tra lui e i fan adoranti, ma non era comunque quello che gli aveva permesso di individuare sin da subito le crepe nell’espressione e nella voce dell’altro. Aiutava, indubbiamente, e magari era anche in virtù del legame che – nolenti o volenti, ma perlopiù nolenti – si era creato se l’americano gli aveva reso più semplice accorgersene.
    Ma l’avrebbe fatto in ogni caso.
    Era un esteta, Dave. Un amante delle cose belle, anche di quelle più inutili – forse perché non le aveva mai potute avere, o perché si era stancato già da bambino di vedere solo il brutto; forse le adorava soltanto e senza un senso da ricercare in un subconscio che avrebbe fatto venire gli incubi a Sigmund Freud in persona –; anche di quelle meno convenzionali. Non il caso di Yale Hilton: la sua bellezza era innegabile, e nemmeno per il fatto che fosse lui avrebbe evitato di pensarlo (dirlo invece, dargli una qualche soddisfazione in merito, era tutt’altro discorso): ogni singolo lineamento sembrava scolpito nel marmo più pregiato dalle mani di un artista rinascimentale, una statua definita alla perfezione e portato in vita soltanto per farsi contemplare e venerare. In un’altra vita, l’ombrocineta avrebbe probabilmente potuto essere uno dei suoi ammiratori – non di quelli folli dai quali l’aveva più di una volta salvato; di quelli accecati quanto bastava da non vedere quanto marciume si nascondesse all’ombra degli occhi chiari, quasi sicuramente sì. Tuttavia, in quell’esistenza non avrebbe permesso al suo sorriso smagliante, o a quello di chiunque altro, di ammaliarlo al punto di non notare cosa ci fosse dietro i denti bianchi e la piega delle labbra; anche avesse voluto – Dio, quanto avrebbe voluto: non sarebbe stato tutto più facile? –, non avrebbe comunque potuto.
    I tasti scordati di quella risata, li aveva sentiti dalla prima nota. Solo che non avevano gracchiato una volta raggiunto l’orecchio; piuttosto, l’avevano colpito. In fin dei conti trovava più affascinante la maschera a calare mostrando quel briciolo di verità, per quanto effimera, piuttosto che un’ostentata apparenza – quella fragilità che aveva sempre usato a proprio vantaggio, carpendone i punti deboli sui quali premere con più forza lame invisibili.
    Si limitò ad un angolo della bocca sollevato senza davvero rispondergli, la mano affondata nella tasca dei pantaloni alla ricerca dell’accendino. Non aveva torto, lì c’era soltanto lui; ciononostante, restava il fatto che non fosse il giusto destinatario di quella domanda. Non tanto perché non gli interessasse definire il tipo di persona che aveva di fronte, quanto perché ciò che credeva fosse, in quel preciso contesto, irrilevante: l’unico che potesse dare una vera sentenza a quel quesito, Daveth la stava guardando dritta negli occhi, momentaneamente dimentico del sangue ad inzuppare l’erba dietro di sé.
    «si dice “per favore” incalzò, sollevando l’accendino e nascondendo la fiammella al vento per fargli accendere la sigaretta, ironicamente indispettito dalla mancanza di educazione dell’altro. «lo sai che da te ho sempre voluto una sola cosa.» «l’accendino?» labbra arcuate in un sorriso docile ma malizioso, un biondo sopracciglio sollevato a seguire il movimento dell’altro ragazzo; portò dunque la bottiglia alla bocca, lieto di avere una notte insonne alle spalle, un moderato quantitativo di alcol in corpo e nessun obbligo lavorativo nei confronti del mezzosangue – il perché, era un mistero per la sua stessa mente. «facciamo due.» finì la birra, e dopo averla fatta sparire in un buco nero (per farla poi ricomparire nel giusto secchio della spazzatura: poteva essere un assassino su commissione ed aver commesso molti crimini, nonché molti sbagli che ancora tormentavano i suoi sogni destandolo con frastuoni di bombe e grida disumane, ma l’ambiente era importante) sospirò, greve e melodrammatico, distogliendo lo sguardo e l’attenzione per portarlo alla confezione da sei ed offrendo una bottiglia all’Hilton, oltre che prenderne un’altra per sé. «mi sono costate ben sette sterline, ricordatelo.» gliela stappò addirittura, che gentiluomo, non curandosi di quanto potesse essere alterato e poco bisognoso di (altro?) alcol nel proprio organismo: non era mai stato un buon esempio da seguire, il Gallagher, e vedere la gente raggiungere i propri limiti di sopportazione era sempre stato uno dei suoi passatempi preferiti.
    «mi ha detto che avrebbe fatto qualunque cosa per me. gli ho detto di uccidersi, allora.» seguì lo sguardo del coetaneo sul cadavere, solo per riportarlo pochi istanti dopo sul suo profilo. «quanto meno, era stato sincero.» piegò le labbra verso il basso, accettando quella spiegazione come indiscutibile verità. Mettere in dubbio le affermazioni altrui era alla base del suo istinto di sopravvivenza, ma quanto aveva appena ascoltato era così assurdo da non riuscire a non credere fosse la tangibile realtà dei fatti. Dopotutto non aveva sangue addosso, e tornando a guardare il corpo del delitto era lecito constatare che l'angolo della ferita fosse abbastanza sbieco da poter realmente essere stata autoinflitta.
    Passò la lingua sull'arcata dei denti, soppesando e masticando le parole a spingere contro la stessa. Avrebbe dovuto chiedergli se avesse chiamato le autorità, se preferisse che qualcuno lo trovasse il giorno successivo o se volesse nascondere comunque ogni evidenza: gli sarebbe bastato uno schiocco di dita, in caso. Avrebbe potuto domandargli il perché, ma non lo fece; se quello fosse il nuovo svago dei ricchi annoiati, ma riteneva di conoscerlo abbastanza bene da sapere non avrebbe fatto una cosa del genere per puro sadismo – era più il tipo da masochismo. Una parte di lui, infine, voleva sapere come stesse – realmente, e per questo evitò accuratamente di dare un corpo ai respiri incastrati tra le corde vocali. «che cosa vuoi fare?» decise infine che quella fosse l’unica domanda giusta da porre – che se avesse voluto parlare delle sue motivazioni, o Dio non volesse delle sue emozioni, non sarebbe stato lui a tirargli fuori le parole di bocca.
    Aspirò nicotina e catrame, e fece sparire anche il filtro e quel poco di tabacco che rimaneva della sigaretta nel palmo della mano. «sai, yale,» le iridi zaffiro andarono a cercare di nuovo quelle oltreoceano dell’Hilton, mentre avvicinava il collo della bottiglia alle labbra per accettare un altro po’ di birra a bagnare le pareti della gola. «non ho mai avuto alcun interesse a negartela.» la sincerità, se era quella la sola cosa che aveva voluto da lui in tutti quegli anni. Più mellifluo, il tono del Gallagher che cauto si faceva spazio nel silenzio della notte. «magari sei tu che non sei abituato a riceverla.» comunque seria, la voce e l’espressione del ventisettenne, seppur accomodante; onesto lo era da una vita intera, ed anche le sue menzogne non erano mai state altro se non la sfumatura di verità che in molti non erano pronti, o in grado, di accettare. Con Newhaven – per quanto assurdo se si fermava a considerare l’ambiente di falsità nel quale si era andato a cacciare nel momento stesso in cui aveva accettato quel lavoro – non aveva nemmeno mai sentito il bisogno di scivolare in quelle tonalità di grigio per avere a che fare con lui o la sua famiglia: sapeva che in contesti simili, il pugnale più tagliente fosse quello di un’insopportabile verità.
    «per quanto riguarda l’altra…» arricciò il naso, occhi sollevati al cielo e testa a dondolare da una parte e dall’altra. La verità, se ben aveva inteso dove volesse andare a parare, era che avrebbe potuto dirgli la medesima cosa: non aveva alcun interesse a negargli nemmeno quella, se non quello di non dargliela vinta – una mera questione di principio, e di personale divertimento di Daveth. «forse dovresti imparare come chiedere meglio le cose che vuoi.» magari con gentilezza, come per l’accendino – viziato del cazzo.
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    Il Wicked Park era un luogo spettrale.
    Lo era di giorno, quando bambini e adulti si dilettavano in danze frenetiche tra un'attrazione e l'altra del parco, gettando luci ed ombre sulle giostre mossi da musiche d'atmosfera tanto sinistre da confondersi con un’ambiente che celava la sua vera essenza; lo era di notte, quando il chiarore della luna rendeva quel posto un teatro degli orrori, i cui attori preferivano nascondersi dietro le quinte e le note a diffondersi negli amplificatori magici venivano sostituite dai cigolii delle strutture che, al buio, sembravano molto più pericolanti di quanto i genitori avrebbero voluto per i propri figli.
    Quella non era la prima volta, né sarebbe stata l'ultima, che Daveth Gallagher si ritrovava a dover ammirare un cadavere riverso negli angoli più reconditi di quel luogo, dove in orari diversi dai suoi gli scherzi della natura venivano esibiti come fenomeni da baraccone. Non era di certo per quel motivo che vi si rintanava quando il cervello faceva troppo rumore, ed i rapidi respiri strozzati nelle pieghe del cuscino comprimevano la gabbia toracica in una morsa da togliere, letteralmente, il fiato: c’erano i ricordi di una vita non vissuta, nelle strade tra la ruota panoramica ed i tiri a segno; i sorrisi strappati ad un bambino che l'entusiasmo di salire su una montagna russa non l’aveva mai provato.
    Poteva però, non con estrema difficoltà, comprenderne il fascino, e capire il perché venisse scelto come palcoscenico di atti con una discutibile moralità: l’oscurità di quegli spazi abbandonati da un dio negligente e calpestati dai suoi ignavi pupazzi, richiamava quella insita nell’animo umano in un dare e avere senza fine.
    Trovare lì Yale Hilton, apparentemente impassibile al cospetto di un corpo esanime, non rientrava nelle aspettative del sicario. Dirsi stupito di quell’incontro avrebbe previsto un’ingenuità di cui aveva imparato a fare a meno in tenera età: si fidava poco del resto del genere umano, concedendo stima e lealtà unicamente alla propria persona; era dietro le vesti più innocue e rette che si mascheravano gli spiriti più torbidi. Conosceva abbastanza il consigliere da sapere che quest’ultimo non fosse il suo caso, e da non avere la presunzione di conoscere ogni sfaccettatura di una psiche più irrequieta rispetto a quella che mostrava al pubblico.
    Erano molti i perché che avrebbero potuto spiegare la sua presenza al Wicked, quella notte; la stessa in cui, dopotutto, al Gallagher non sarebbe dovuto interessarne nemmeno uno.
    Ne studiò, dietro una patina di torpore concessagli dalla terza birra della nottata, il sorriso incerto, la posa fin troppo composta per la circostanza – nulla di naturale, tutto di un personaggio dalla cui interpretazione era difficile distanziarsi; eppure sincera, nel suo non esserlo affatto. Esitò qualche istante quando l’ereditiere arretrò di un passo per fargli spazio, iridi zaffiro a seguire i contorni e gli spigoli del suo viso: non si trattava di una situazione così surreale, ma fuoriusciva dalla routine metodica ed ordinata alla quale si era abituato ed in cui si muoveva a proprio agio; qualsiasi cosa avrebbe fatto da quel momento in poi, che fosse stato andarsene ed ignorare la faccenda o rimanere coinvolto in non sapeva ancora cosa, avrebbe significato camminare lungo un percorso inesplorato. Non perché non fosse versatile, ma perché era Yale.
    Decise di avvicinarsi, passi lenti e calcolati senza mai distogliere lo sguardo dal ragazzo, andando contro al proprio buonsenso: altri avrebbero potuto occuparsi dei danni fatti, non aveva mezzo dubbio riguardo al fatto che avesse qualcuno in busta paga – se non da lui, da sua madre – proprio per evenienze simili; si disse che a muoverlo fosse curiosità, perché lo era, e che l’unico interesse possibile era quello di avere sempre più il coltello dalla parte del manico. Attento a non spingere le scarpe sul sangue, piegò le ginocchia per portarsi il più possibile al livello del cadavere; bevve un sorso di birra, poggiando poi i gomiti sulle ginocchia e lasciando pendere la bottiglia davanti a sé. C’era poco da studiare – il pallor mortis era l’unico segno riconoscibile, e vestendo la mano di un guanto di pura oscurità poté accertarsi del calore del corpo, nonché la flaccidità dei muscoli che ancora non avevano iniziato a contrarsi irreversibilmente, tutto ad indicargli che qualsiasi cosa fosse successa non doveva essere avvenuta da più di un’ora dal suo arrivo; non si sporse più di quanto non fosse necessario alla ricerca di altre ferite che non fossero la lacerazione irregolare alla gola, e con la stessa discrezione raccolse il pugnale che doveva averla procurata.
    «se è così che ti godi in pace le tue giornate libere, non me ne stupisco.» sbuffò una risata piegando il mento sul petto, prima di alzarsi e studiare nuovamente la lama. «a ciascuno i propri passatempi,» sollevò l’arma davanti a sé, allusivo quanto bastava. «no?» non c’era ragione al mondo per cui dovesse spiegargli il perché si trovasse lì, e non rientrava nei suoi programmi sbottonarsi – non quella sera; non quando aveva bevuto troppo poco perché Daveth Gallagher lasciasse spazio a Thane.
    «daveth. pensi che sia una cattiva persona?» portò la sigaretta spenta dal vento alle labbra, focalizzandosi sulla fiamma dell’accendino piuttosto che sul volto di Newhaven. Il cinismo era ciò che aveva caratterizzato la crescita di Dave, nel bene o nel male; automaticamente, l’unica risposta che avrebbe potuto dargli – nonché la più sincera, inopinabile quanto soggettiva – era che tutti fossero brutte persone. Dal più pio al peggior criminale sulla faccia della terra; dal bambino appena nato all’eremita nascosto negli antri di monti dimenticati dal Signore. Il problema non era la perfidia dell’uomo, quanto la sua potenzialità: con il giusto pretesto, chiunque avrebbe potuto compiere gli atti più indicibili. Lo aveva visto succedere alle persone più buone che avesse mai conosciuto, e non gliene aveva mai fatto una colpa – ma queste non avrebbero mai smesso di considerarsi cattive. E sempre in funzione di quell’istinto, avrebbe poi rigirato la domanda: perché lo chiedi a me?, gli avrebbe voluto chiedere. Cosa gliene importava, del suo parere?
    «penso che tu sia una persona.» prese la parola, soffiando un filo di fumo verso l’altro e facendoglisi un po’ più vicino. «non migliore di tante altre, né peggiore.» umettò le labbra, non più distese in un sorriso di circostanza – tese, serie. Yale non aveva conosciuto le cattive persone che aveva vissuto l’ombrocineta sulla propria pelle per tutti quegli anni; Dave non aveva conosciuto le cattive persone che il consigliere aveva incontrato lungo la propria vita. Avevano per forza di cose visioni diverse del mondo che vivevano, ed era giusto che così fosse: non voleva imporre il proprio disprezzo per il resto del genere umano al ragazzo. Non quella sera, non a quello Yale. «non ti etichetterò come una cattiva persona per una cosa che hai fatto,» o che non aveva fatto: si riservava il beneficio del dubbio, soprattutto studiando l’assenza di chiazze scarlatte sugli abiti dell’altro. Poteva averle pulite? Certo, ma perché farlo e rimanere comunque lì. «se è quello che vuoi da me. la domanda non avresti dovuto rivolgerla a me.»
    Distolse lo sguardo, portandolo sul corpo esanime. «vuoi dirmi cos’è successo, o vuoi che ti dica come penso sia andata?»
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    finnegan dallaire
    «Se ti serviva qualche spicciolo, potevi dirmelo.» Finnegan scattò, e ritraendo velocemente il pugno serrato si voltò dal lato opposto rispetto alla voce. Passò la mano sugli occhi, strofinando incurante del sangue a macchiare nocche che, in tutti quegli anni, raramente avevano colpito qualcosa, o qualcuno. Non era una persona irosa, l'Hamilton-Dallaire; odiava venire alle mani, lasciava che fossero altri - con un quoziente intellettivo decisamente inferiore al suo - ad esternare in maniera tanto rozza le proprie frustrazioni. Era strano sentire ogni tendine tirare, percepire quel liquido scarlatto bagnargli le dita: impersonale, sbagliato, estraneo. Eppure necessario, nonché l'unico modo - insensato e futile - che avesse trovato in quel frangente di traslare altrove quel dolore alla bocca dello stomaco. Avrebbe solo preferito che funzionasse meglio di così, che il suo non fosse solo un prurito sulla pelle e niente più. Non ci aveva minimamente sperato, aveva smesso di credere ai miracoli quindici anni prima, ma si era anche detto che tentare non avrebbe potuto in alcun modo nuocere; di sicuro, non aveva nulla da perdere nel tirare un cazzotto ad un maledetto distributore automatico.
    «Penso proprio che te lo faranno ripagare.» non rispose quanto cazzo gliene importasse, perché era talmente poco che non meritava nemmeno d'essere messo a voce. Ad essere onesti, gli rodeva così tanto il culo che se avesse replicato seduta stante, lo avrebbe fatto di getto. Senza riflettere, senza applicare nessun filtro tra il cervello e la bocca, facendone scivolare fuori un fiume in piena di parole non dette e che avrebbe preferito tenere per sé, tacendole fino a portarsele nella tomba. E sapeva già da dove sarebbe partito, quale sarebbe stata la proverbiale goccia a far traboccare il suo vaso.
    Perché io?
    Un semplice quesito di poche sillabe, lapidario come una lama tra le costole, che avrebbe potuto tranquillamente riassumere tutto ciò che gli bruciava in gola ma che non l'avrebbe fatto, facendo le quiete veci di una tempesta tutt'altro che passeggera.
    «Finn... puoi guardarmi?» no, non poteva. Non voleva, voltare il capo e trovarsi faccia a faccia con Elijah Dallaire - guardarlo negli occhi troppo simili ai suoi, sopportare quel sorriso denso, fingere di non notare quanto il suo volto si fosse fatto più scavato e pallido nel corso degli ultimi giorni.
    Ingoiò la poca saliva che sentiva sulla lingua, tentando invano di schiarire la gola. «Non dovresti essere qui.» disse con voce rauca, senza alcuna intenzione di accondiscendere a quella richiesta. Non doveva essere lì, nel salone d'ingresso del San Mungo; non doveva essere lì, al San Mungo.
    E nemmeno il ventiduenne avrebbe dovuto trovarsi in quell'ospedale.
    Perché io? Sarebbe stato più giusto ci fosse stata sua madre ad accompagnare il chiaroveggente; avrebbe avuto senso se Wes o Davina si fossero prese carico di quella pratica. Invece no, avevano dovuto sopportare lui quel peso, vivere ogni istante di quel viaggio come un addio non detto.
    Odiava suo padre, a volte. Il loro non era mai stato il migliore dei rapporti padre-figlio, e senza nemmeno un ragione valida: semplicemente, i loro caratteri non andavano bene l'uno con l'altro. Passavano il tempo a litigare, raramente a mostrarsi affetto - almeno per quanto riguardava Finnegan: il cinquantenne ne dimostrava fin troppo per i suoi gusti, il che era nauseante. Aveva sempre saputo di essere il problema alla base, di essere nato sbagliato e contorto e con più ombre nel petto di quanto l'uomo volesse vederne. Era certo di essere la prole di cui avrebbero fatto a meno, ma non gli era mai importato - non davvero, e in fondo non quanto gli interessasse in quell'ultimo periodo. E sentiva, nei battiti sordi contro la propria gabbia toracica, che spesso Elijah provasse quegli stessi sentimenti - che fosse arrivato a detestarlo, ogni tanto.
    Non sarebbe dovuto essere lui quello a scortare un padre terminale in quegli ultimi chilometri di macchina, consapevoli tutti che le probabilità che uscisse da quel posto fossero minori di zero. La cosa peggiore, quella che davvero lo faceva morire dal ridere, è che non servisse il potere del maggiore per essere certi che fosse stato proprio lui a fare quella richiesta.
    Perché fargli questo, quando sapeva che avevano finito il tempo? Che se avesse voluto rimediare, non ne avrebbe avuto modo? Un egoista figlio di puttana: non c'erano altri modi con cui definirlo, a quel punto.
    Oh beh, qualcosa doveva pur aver ripreso da lui oltre ai colori, e non poteva essere l'idiozia.
    «Finn...»
    «Cosa cazzo vuoi, mh?» non alzò la voce, ma la tentazione c'era stata: maledetta la sua compostezza, incapace di lasciarlo fare scenate anche quando la situazione l'avrebbe richiesto. Si voltò, infine, ma solo per fare in modo che la mano del padre cadesse dalla spalla sulla quale si era posata teneramente, e che potesse leggere nelle iridi acquamarina tutto ciò che non avrebbe mai detto. «Se volevi qualcuno che si prendesse un bel succo di zucca e se ne andasse via come se nulla fosse, dopo averti visto firmare tutti quei fogli, potevi scegliere Wes.» non perché fosse la figlia preferita o che cosa, né perché gliene importasse meno di lui: Washington sapeva gestire le situazioni di merda che riguardavano la famiglia, laddove Finnegan aveva sempre voluto fingere non lo riguardassero; aveva sicuramente metabolizzato mesi prima di lui. «È per questo che sono qui? Sono quello a cui interessa meno, giusto?»
    Ah!, Cristo, quanto avrebbe voluto fosse così.
    Considerato tutto, considerati i pensieri che continuavano ad aggrovigliarsi fragorosi nella mente del ragazzo, sarebbe stato perfetto se non gliene fosse importato di meno di quella famiglia.
    La tentazione di respingerlo e di allontanarsi era stata grande, ma fu più rapido dei suoi pensieri ad abbracciarlo. Non poté fare nulla, lui, immobilizzato fra le braccia di suo padre - più forti di quanto avrebbe immaginato, visto che la progressione della malattia li aveva visti costretti a ricoverarlo. Cosa poteva dirgli, se non un «Vaffanculo.» prontamente zittito da una risatina ed un bacio ruvido tra i capelli? Resta, ma non era un'opzione.
    Quello che gli sussurrò, poco prima di far scivolare le mani sul volto e salutarlo, lo lasciò impietrito. Non perché non potesse immaginarlo, ma perché avrebbe preferito non sentirlo.
    «Farai la scelta giusta, qualsiasi questa sia: credo in te. Sempre.»

    «Ma che hai?» deglutì, evitando di cercare gli occhi di Renée al suo fianco. Non poteva mentirgli, non era giusto che gli dicesse di non avere niente a frullargli per la testa. Cercò il suo corpo sotto le coperte, solleticando l'inguine dopo essersi reso conto di aver serrato la presa sulla coscia del ragazzo per più tempo di quanto non avesse realizzato, perso a scrutare il vuoto dall'altra parte della propria camera da letto. Definire ciò che provasse per il Barrow era sempre stata una cosa che aveva evitato di fare: non voleva che fosse amore, non c'era spazio in quel mondo per quelli come lui che volessero sperimentare un simile sentimento; non era semplice amicizia, c'era sempre stato qualcosa di più. Complicità, intesa, una buona dose di passione quando lontani dagli occhi degli altri. Gli voleva più bene di quanto avesse immaginato di potersi permettere, ed era un pensiero atroce: significava rendersi un po' più leggibili, e vanificava l'istinto primario dell'Hamilton a non voler che qualcuno sapesse riconoscere quei momenti. Nondimeno, si odiava perché sapeva di potergli dire non tutto, ma molto.
    Allungò la mano libera, raggiungendo le labbra del biondo e sfilandogli la sigaretta dalle labbra la portò alle proprie. Chiuse gli occhi, assaporando nicotina e catrame misti al sapore della bocca di lui. Il fatto che volesse parlargli, non significava che se la sentisse davvero.
    «Dobbiamo per forza parlarne?» inutile che ci girasse attorno, era chiaro che la sua non fosse una domanda di circostanza e che avesse ben inteso che c'era qualcosa; ciò non gli impedì di continuare a giocare con la mano, cercando di distrarre l'altro quanto possibile scivolando sempre un po' di più nella sua intimità. Per quanto sapesse farci, sapeva di non poter guadagnare tempo: doveva provarci, quello sì, ma non sarebbe durato a lungo. Gli stava nascondendo qualcosa - e non soltanto il fatto che solo il giorno prima avesse dovuto portare suo padre al San Mungo per probabilmente l'ultima volta in vita sua -, e se avesse persistito lo avrebbe perso. «Potrei fare tanto altro con questa bocca, pensaci.»
    Might go to Hell and there ain't no stopping
    Might be a sinner and I might be a saint
    I'd like to be proud,
    but somehow I'm ashamed

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    «Cosa vuoi?» lo sguardo azzurro, scocciato e assonnato, andò a cercare la figura sulla soglia della camera da letto, ma senza realmente riuscire a vederla - non voleva vederla, non voleva pensare esistesse, non voleva concepire nessun'altra realtà che fosse all'infuori di se stesso; allora più che mai, e dunque riportò gli occhi sulla notte priva di luna oltre la finestra. Si passò una mano sulla faccia, nascondendo uno sospiro pesante nel palmo ed inspirando il suo stesso fiato qualche istante dopo. Non un respiro greve, o seccato, per quanto quell'intrusione avrebbe potuto richiederlo.
    «Tutto bene?»
    Non rispose. Lasciò soltanto cadere il peso del braccio, entrambi i gomiti premuti sulle cosce e un nuovo sospiro - un nuovo anelito che non gonfiava i polmoni, che premeva sullo stomaco, e bruciava la gola. Viveva con Pervence da quanto tempo bastava per conoscere le sue pause, i tempi della sua narrazione, anche quando gli appariva in vestaglia, con le palpebre gonfie di sonno ed i capelli di Anna Oxa alla serata finale del 73° Festival di Sanremo: non aveva finito di parlare, e non sarebbe stato Daveth ad interrompere le domande tra uno sbadiglio e l'altro.
    Gli veniva da vomitare - ma non avrebbe di certo rischiato che quella confessione gli sfuggisse di bocca. «Ho sentito qualcuno urlare.»
    «Sì,» labbra strette, alcuna espressione dipinta sulla faccia se non il pallore invisibile nella penombra; si alzò dal bordo del letto sul quale si era messo a sedere solo qualche minuto prima, solo una canotta ed un paio di mutande a coprire la sua ben visibile voglia di fare conversazione alle due e trenta di notte. «un idiota per strada.» tagliò corto, andando a recuperare la tuta abbandonata sulla sedia - l'unica cosa apparentemente in disordine in una stanza altrimenti perfetta, priva di oggetti lasciati in luoghi dove non avrebbero dovuto essere o di un singolo eccesso nello spazio minimale che si era costruito. Il Gallagher non si definiva una persona ossessiva compulsiva, non dava in escandescenze se vedeva del minimo caos né sentiva l'urgenza di sistemare ogni cosa che gli passasse davanti; sapeva di non poter avere il controllo su tutto, per quanto desiderasse farlo, e perciò si limitava ad esercitarlo sulle proprie cose. Che era anche il motivo per cui quel pantalone morbido e quella giacca leggera non erano riposti nell'armadio.
    «Io...» infilò una gamba, ed anche se avrebbe dovuto non alzò il capo per incontrare le iridi scure della ragazza. Avrebbe voluto fulminarla, farle capire con un semplice scambio non verbale che non dovesse continuare a parlare. Non lo fece, perché ormai era da tanto che era sua sorella, e tutto sommato un po' il cervello sapeva usarlo. «immaginavo.»
    C'era voluto qualche tentativo prima di quello, ma aveva capito già da mesi ormai che se gli avesse detto che gli era parso di sentire quel grido da dentro casa, Dave avrebbe negato. Che se avesse insistito, avrebbe tirato fuori la pistola. Che se il viso le si fosse piegato in una qualsivoglia manifestazione di tenerezza, avrebbe premuto il grilletto. A quel punto aveva ben chiaro in testa che, in determinate condizioni, non ci avrebbe pensato due volte prima di farlo - d'altronde, nessuno dei due poteva negare fosse già successo.
    Non aveva mentito, comunque: qualche idiota aveva effettivamente urlato per la strada.
    Ma a svegliarlo, era stato lo sparo che ne era conseguito. E quello dopo.
    E quello dopo ancora.
    E le grida dei suoi compagni.
    E gli ordini dei suoi superiori.
    E gli esplosivi a fischiare nelle orecchie.
    E gli anfibi a sbattere concitati sul pavimento.
    E il silenzio.

    «Hai deciso di rimanere là tutta la notte o pensi di toglierti?» aveva ignorato talmente tanto la sua presenza dopo l'ultimo, breve ed insignificante, scambio di battute, che si era effettivamente scordato la francese fosse ancora lì - appena sveglia non aveva ancora la puzza di baguette e camembert a segnalarne l'esistenza, un vero agguato. Si sistemò il cappuccio della felpa dietro la testa, osservandola alzare le spalle con finta innocenza mentre si faceva da parte per farlo uscire. Raggiunse la cucina senza accendere una luce, muovendosi nel buio della casa con più facilità di quanto non avrebbe fatto con le lampadine ad esporre la sua figura sulle pareti spoglie, socchiudendo le palpebre solo quando quella interna al frigorifero gli si puntò dritta nelle retini.
    «Dove vai?»
    A vomitare.
    A prendere un po' d'aria.
    Ad ubriacarmi.
    Lontano da qualcuno.
    Non riuscirò a riaddormentarmi.
    Ma chi sei, mia madre?

    «Ad una festa,» perché le precedenti erano tutte risposte giuste, modi adeguati di replicare a quella domanda; il problema era che la Roux non aveva alcun diritto di porre quel quesito - e lui di trascinarla nel suo personalissimo vortice senza fondo. Sollevò la cassetta da sei bottiglie di birra, rivolgendole un mezzo sorriso. «non sei invitata, torna a dormire.» meglio per lei: non era il tipo di party al quale nessuno avrebbe avuto piacere di partecipare.

    Faceva freddo, al Wicked Park, eppure la completa assenza di vento lo rendeva sopportabile nonostante un abbigliamento poco consono per quella stagione così rigida.
    Aveva appena stappato la terza bottiglia di Tennent's, ma a dire il vero non aveva sentito nemmeno le prime due scivolargli lungo l'esofago.
    Avrebbe voluto dire di sentirsi meglio mentre, distratto e stanco, osservava una cabina immobile della ruota panoramica, dopo essersi liberato della bile e delle persone ed ogni tipo di suono della città - e se lo disse, se ne convinse.
    Accese un'altra sigaretta, piegato su quella panca sgangherata e solitaria nel parco divertimenti di notte. Poche stelle, una luna crescente ora ben visibile senza i palazzi ed i lampioni a farle da barriera, erano l'unica cosa a rischiarare i bordi di quel posto.
    Avrebbe potuto essere tutto perfetto. Tutto. Aveva l'alcol, la pace, il silenzio, un po' di tempo.
    Prese la cassetta con le bottiglie rimanenti, si calò il cappuccio della felpa sulla testa e si alzò. In un primo momento, per andarsene di lì: qualche cosa aveva violato il suo posto, non aveva più senso restare affianco a qualche adolescente arrapato che aveva deciso di andare a consumare il proprio amore sulle tazzine rotanti.
    Ma quando aveva sentito i passi più concitati, qualche colorita imprecazione dal fiato spezzato, e lo scricchiolio delle foglie non fermarsi, dovette fare dietro-front e raggiungere la fonte di quel trambusto.
    Daveth Gallagher non era un paladino della giustizia, tutt'altro; né aveva una qualche malata e sadica sindrome della crocerossina latente. Non intendeva avvicinarsi per aiutare qualcuno, o qualcosa - un animale sarebbe stata la sua unica eccezione.
    Voleva solo farsi i cazzi altrui. Egoisticamente, infantilmente bearsi di qualsiasi danno fosse successo: non l'aveva sentita, ma forse aveva bevuto tanto quanto bastava a decidere fosse una buona conclusione di nottata distrarsi in quel modo, togliersi dalla testa ogni pensiero e resettare tutto - un'altra volta, come la prima e come quelle che sarebbero venute dopo.
    Portò il collo della bottiglia alle labbra, alternandola ad un tiro profondo dalla sigaretta, gli occhi fissi in quelli di Yale Hilton. Ma com'era possibile?
    Sorrise, un taglio aperto e sanguinante sulle labbra del biondo, che impassibile rimbalzava lo sguardo dal corpo tra i cespugli al consigliere che faceva avanti e indietro senza tregua. Sembrava agitato - e forse lo era davvero: non è che l'ombrocineta fosse proprio il migliore a riconoscere gli altrui stati d'animo.
    «Ho solo una domanda.» un altro sorso alla Tennent's, ridotta alla stregua di un sacchetto di popcorn alla première di un film. «Perché, di tanti posti al mondo, sei dovuto venire qua ad uccidere una persona?» sì beh, non era particolarmente interessato al sangue sulle mani dell'ereditiere, o al cadavere ai suoi piedi.
    Trovava solo il tutto molto assurdo.
    «Uno non può nemmeno godersi in pace il suo giorno libero.» se stesse prendendo a calcetti la gamba esanime dell'essere disteso a terra? Sì.
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  10. .
    Allora: cambio di faccia a Dave

    CODICE
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    <td rowspan="4" width="40%">[URL=https://gifpacknetwork.tumblr.com/post/639982762486546432/jannik-sch%C3%BCmann-gif-pack-dem-horizont-so-nah/amp]<div style="background-image:url(https://64.media.tumblr.com/4a845404669c098029bd10799504f37e/019f4f9e8b0d8beb-49/s400x600/8f0114731e670ff7ee10610f61a598e0f97b2ac3.gifv);width:175px;height:110px;background-size:cover;"></div>[/URL]</td>
    <td>pv: jannik schümann</td>
    </tr>


    E segno Rick, dai

    CODICE
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    <td colspan="2" style="border-top:3px solid #BDC442;"></td>
    </tr>

    <tr>
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    <td>pv: emre bey</td>
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    <tr>
    <td>player: lele ([URL=https://oblivion-hp-gdr.forumcommunity.net/m/?act=Profile&MID=9667840]zugzwang.[/URL])</td>
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    <td>altro: [URL=LINKPINTEREST]pinterest [/URL]+ [URL=LINKSPOTY]spotify[/URL]</td>
    </tr>
  11. .
    Ma sì dai, cambio prenotazione perché sì.
    Lo faccio.

    HTML
    <span class="pv-n">Jannik Schümann prenotato da arcane.</span>


    Lo fece.
  12. .
    b-day: 14.02.1994
    faction: neutral
    from: london
    power: shadow manipulation
    oh, my dear lord
    daveth thanatos gallagher
    «daaaAaAAAaaAvideeEeEEeeEeh» e Daveth, fermo al semaforo della Sunset Road e con un sospiro rassegnato a solleticare le labbra sottili, sollevò gli occhi cerulei sullo specchietto retrovisore, dal quale poté osservare la faccia di Yale sparire dietro il divisorio scorrevole. Una delle rare gioie del guidare la macchina di servizio degli Hilton – che dava davvero poche soddisfazioni al Gallagher, più affine a vetture sportive con le quali gareggiare clandestinamente nelle periferie di Londra –, era proprio la possibilità di alzare il vetro tra il sedile del conducente e quelli posteriori, silenziando almeno per qualche istante la molesta esistenza del consigliere. Gratificazione, quella, che come molte altre dello special faticava a durare abbastanza secondi da diventare un minuto, ma sapeva accontentarsi dei piccoli doni che la vita sembrava ancora riservargli, sebbene non avesse mai fatto nulla per meritarseli. Se lo godette appieno quell’attimo di pace, la nuca premuta contro il poggiatesta e gli occhi appena socchiusi nell’attesa che la luce divenisse verde, e quando reinserì la marcia dovette farlo sollevando un sopracciglio alla fronte corrucciata di Yale, che lentamente riappariva nello specchietto retrovisore.
    «rude» non una novità per il ventiseienne, ma non avrebbe smesso di bloccarlo in quei radi momenti in cui gli era concesso solo per il broncio offeso che l’altro, puntualmente, gli rivolgeva quando abbassava il finestrino dell’abitacolo. Oramai era diventata una questione di principio, la sua: confidava (inutilmente, purtroppo ne era consapevole) che presto o tardi avrebbe imparato ad accettare il divisorio come parte integrante della loro relazione lavorativa, e che lo avrebbe tolto Dave stesso quando avrebbe sentito la necessità di comunicare con il minore – ossia mai, o quando doveva dirgli di scendere perché arrivati a destinazione. Sfortunatamente lo conosceva abbastanza da sapere che non lo avrebbe mai fatto, ma una tale speranza era tra le ragioni che gli impedivano di ucciderlo un giorno sì e l’altro anche.
    «comunque,» «no.» rispose, ancor prima di sentire cosa avesse da dirgli e, quella volta, senza nemmeno doversi sprecare ad alzare il mento per immaginare le labbra dischiuse del ragazzo nella fedele riproduzione di una profonda, falsa offesa appena inferta al suo smoderato ego. Non aveva bisogno di ascoltarlo (in generale, nella vita; viveva benissimo anche senza la sua voce nelle orecchie) per sapere cosa volesse domandargli, dal momento che lo aveva già fatto – sia prima di partire, sia una volta salito in auto, sia diverse altre volte durante il tragitto. E come gli aveva risposto la prima, nonché unica, volta, non aveva assolutamente intenzione di rimanere al campo da golf con lui e con i suoi amici miliardari; “piuttosto mi uccido”, se ricordava bene (e ricordava perfettamente), era il modo in cui aveva liquidato la questione una volta per tutte, e non aveva la benché minima intenzione di ritrattare.
    «ti ricordo che ti sto facendo un favore,» ci tenne però a ribadire, mentre parcheggiava davanti al golf club di Wimbledon. «è il mio giorno libero.» gli concesse un’occhiata da sopra la spalla, e con un cenno del capo verso la portiera lo invitò a scendere dalla vettura.
    Cosa che, naturalmente, l’Hilton non fece nell’immediato. «essù, cos’hai di meglio da fare?» arcuò un sopracciglio, non sentendo la necessità di dirgli che persino spararsi una pallottola in fronte sarebbe stato qualcosa di meglio da fare rispetto al prendere a mazzate una pallina su un prato inutilmente enorme. Ad ogni modo, non erano affari dell’americano: avrebbe potuto essere il suo alibi, ma Dave non aveva mai avuto bisogno di una cosa del genere.
    Di nuovo, indicò quindi la porta della macchina, dalla quale infine si degnò di scendere. «oh, casomai cambiassi id-» «scordatelo.» prima che potesse finire di parlare, aveva già rimesso in moto e ripreso la strada dalla quale aveva girato.

    Effettivamente, il Gallagher aveva davvero di meglio da fare, e le necessità di Yale – se tali potevano definirsi gli svaghi di un ricco snob come lui – capitavano proprio in prossimità delle sue. Solo che lo special non avrebbe sprecato un’intera giornata a girovagare con un golf car a recuperare palle tirate male: i suoi interessi richiedevano al massimo cinque minuti del proprio tempo, ed avevano un nome appuntato su un pezzo di carta.
    Chuck Walker, cinquantotto anni, viveva nel distretto di Summerstown, a Londra, ma lavorava al Ministero della Magia come stratega. Aveva una moglie babbana, Janice, che gestiva un chiosco di fiori poco lontano dalla loro casa a Kingsley Road; un figlio, Adam, diplomatosi ad Hogwarts da un paio d’anni e che non aveva voluto seguire le orme del padre, preferendo buttarsi in una università babbana e vivere lontano dal mondo magico. Aveva un cane, un pastore belga che aveva chiamato Jack tre anni addietro, quando Janice lo aveva riportato a casa dopo averlo trovato legato ad un palo da chissà quanto tempo.
    Sembrava una brava persona Chucky, il tipo di persona che aiuta le vecchiette ad attraversare la strada e che nei week end liberi va con la propria famiglia alla mensa dei poveri per fare volontariato – ma era comunque suo, il nome vergato d’inchiostro sul foglietto che Dave teneva tra le dita.
    Una cosa che aveva imparato subito, lavorando come sicario una volta tornato a Londra anni prima, era di non fare troppe domande: gli bastava sapere il nome della vittima designata, dove avrebbe potuto trovarla, eventuali preferenze riguardo alla morte; non voleva sapere i motivi che portavano una persona a volerne uccidere un’altra, non gli interessavano i retroscena delle loro vite o le vendette che muovevano l’animo umano fino al punto di cercare persone come lui.
    Le apparenze mentivano, e così facevano le persone spinte da una rabbia cieca come quella che ti porta ad assoldare un sicario: così come non si fidava del sorriso gentile del Walker dall’altra parte del parco, altrettanto non avrebbe fatto se chi aveva chiesto il suo intervento si fosse messo a sciorinare un elenco dei torti personali subiti.
    Preferiva fidarsi soltanto dei suoi occhi – sia per spiare i movimenti delle sue vittime, sia per accettare i lavori. Aveva fatto lo stesso quando era stato invitato a casa di Christopher, ed aveva visto il viso smunto di lui – o gli scatoloni vuoti abbandonati da una parte del soggiorno, le innumerevoli foto di un ragazzo che avrebbe dovuto essere suo figlio ma che non aveva mai visto scendere le scale, le tracce di un ricevimento ancora a prendere la polvere.
    «ehi, bello» Chuck poteva star fingendo di essere una brava persona ed aver invece fatto chissà cosa al giovane che il mandante stava ancora probabilmente piangendo tra i resti di un funerale che non aveva la forza di togliere, ma il suo cane era davvero un ragazzone fantastico: così, quando come di consueto l’uomo lo sciolse per fargli sgranchire le gambe, sedendosi su una panchina a parlare con un suo amico di passeggiate, Daveth decise di agire avvicinandosi all’animale. Si piegò sulle ginocchia, grattando dietro le orecchie del pastore belga e ricevendo le feste da quest’ultimo; l’attimo successivo, Jack era scomparso.
    Non ci volle molto prima che lo stratega si rendesse conto della sparizione e cominciasse a chiamarlo, senza ricevere alcuna risposta. Come pianificato, il Gallagher gli si avvicinò, domandandogli se per caso stesse cercando un pastore belga, e che lo aveva visto fuggire dal parco verso la strada; come il buon samaritano ch’era, si offrì anche di accompagnarlo nella ricerca.
    «credo di averlo visto andare da quella parte,» gli indicò un vicolo, per poi accennare con il capo ad una strada adiacente. «io controllo da quella parte.»
    Si divisero, ma solo per un breve istante – quel che poteva bastare, almeno, affinché chiunque fosse presente potesse poi affermare di averlo visto andare da tutt’altra parte rispetto al Walker. Fu celere, poi, una volta preso il vicolo, nell’entrare in un varco oscuro per materializzarsi in quello dell’altro, le dita già a chiudersi sul calcio della propria pistola.
    «ma…» sparò tre colpi, prima che potesse continuare la frase od estrarre la bacchetta ed attaccarlo di conseguenza. Si sentì vagamente in colpa, guardando il corpo cadere contro il muro della stradina, per aver usato un cane innocente come esca per quell’omicidio – ma d’altronde, aveva a che fare con uno stratega: bisognava puntare sull’astuzia, e giocare sui sentimenti per un animale funzionava sempre abbastanza bene; troppo preoccupato per Jack, Chuck non aveva avuto modo di pensare alla propria incolumità, probabilmente.
    Si avvicinò al cadavere, portando la mano coperta dal guanto alla giacca e recuperando il portafoglio dell’uomo: non aveva granché con sé, ma volendo simulare una rapina finita particolarmente male riteneva comunque opportuno prendere quanto più possibile, lasciandolo poi cadere a terra al fianco del corpo.

    «l’ho trovato per strada» accennò un vago sorriso sulla porta di Janice Walker, gettando un’occhiata al cane al suo fianco. «un uomo lo stava cercando, forse suo marito» si strinse tra le spalle. «ho visto l’indirizzo sulla targhetta e, beh – ho pensato di riportarvelo.»
    La donna non sembrava sapere se essere grata o preoccupata – probabilmente perché non aveva visto il marito rientrare, e vedere Jack senza di lui probabilmente avrebbe potuto essere un campanello d’allarme –, ma prima che potesse dire alcunché, con un cenno della mano ed un «vi auguro una buona serata» falso come la piega sulle labbra che aveva ostentato fino ad allora, Daveth Gallagher era già andato via.
    L’ultima sua premura, prima di tornare al golf club dove aveva abbandonato Yale ore prima, fu quella di lasciar cadere i soldi di Chuck nel cappello di un mendicante addormentato lungo la strada.

    O almeno, così aveva immaginato.
    Corrugò le sopracciglia, fermandosi con le mani in tasca davanti ad un vicolo. Era tardo pomeriggio, le luci iniziavano già ad affievolirsi: pertanto, quella densa oscurità a plasmarsi come un banco di nebbia avrebbe potuto passare inosservata a molti – non a lui.
    Non ad un Daveth Gallagher che con quel potere ci era nato, e che lo aveva etichettato come mostro prima ancora che potesse sapere cosa un mostro realmente fosse.
    Perché, chiaramente, non era un fenomeno naturale quello.
    Mosse qualche passo verso il vicolo, bloccandosi unicamente quando avvertì qualcosa fendere l’aria nella sua direzione. Non si preoccupò molto della lama pregna d’oscurità immobile davanti alla propria faccia; anzi, con un sopracciglio sollevato alzò il braccio e, anziché ricambiare il saluto del ragazzo seduto a terra, si limitò a scuoterlo davanti a sé, facendo scomparire quella specie di pugnale con estrema facilità.
    «chi cazzo sei?» schioccò la lingua sul palato, avvicinandosi per poterlo vedere un po’ meglio: okay, come volevasi dimostrare aveva proprio la faccia di un disperato. «un tizio qualunque,» si strinse nelle spalle. «a cui fai un po’ pena, se posso permettermi.» sì, certo che poteva. «se quello era un tentativo di minacciare qualcuno, lasciami dire che l’ho trovato… patetico
    A quel punto, avrebbe anche potuto andarsene: aveva portato a termine il proprio lavoro, aveva schifato un ragazzo per strada, aveva fatto la carità.
    Ma non lo fece; d’altronde, l’alternativa era andare a recuperare l’Hilton al golf club.
    [verse 2]

    Give me an inch, man
    And I'll take a mile
    I'm walking back now
    Past all the fires

    Trying to find out
    Why I grabbed the lighter
    gifs
    i panic! at (a lot of places besides) the disco
    i see it, i like it, i want it, i got it
  13. .
    pariah
    (n.) a rejected member of society; an outcast.
    «bugiardo» più o meno. Alzò le sopracciglia in direzione dell’Hilton, osservandolo mentre si avvicinava lento al bordo della piscina. Non poteva del tutto contestare l’affermazione del neo consigliere ministeriale, dal momento che la verità era un’altra: piuttosto avrebbe ucciso lui, e lo sapevano entrambi. Purtroppo, da considerare c’era anche un’altra realtà dei fatti – ovvero, che non potesse. Innanzitutto, perché era pagato principalmente per fargli da guardia del corpo: aveva una reputazione, Daveth Thanatos Gallagher, e non aveva intenzione di macchiarla con un omicidio inutile quale sarebbe stato quello del suo protetto; certo, avrebbe potuto facilmente celare il proprio coinvolgimento nel crimine, ma era una figura troppo conosciuta dai mass media perché non passasse inosservata la sua scomparsa. In secondo luogo, era alquanto sicuro che una minaccia di morte non avrebbe sortito l’effetto desiderato su un soggetto come Yale; lungi dal sicario appagare l’ego del ventiquattrenne promettendogli una dipartita che andava ricercando più di quanto non fosse necessario. «non tentarmi.» sancì quindi, finalmente. Naturalmente non sarebbe arrivato a tanto, ma era abbastanza orgoglioso da pensarci davvero: preferiva morire, che dare una qualsiasi soddisfazione all’americano. O a chiunque altri, ma Newhaven da un po’ di tempo a quella parte aveva la precedenza sul resto del genere umano.
    Non c’era mai nulla di buono in un Dave che compiacesse qualcun altro; non erano mai esistite conseguenze positive, a quei rarissimi eventi. Tuttavia non era per quella consapevolezza, un fastidioso brivido sottopelle alla base del collo, che non volesse esporsi più di tanto con l’altro: era proprio questi, il suo problema.
    Fastidioso, saccente, inopportuno.
    Fin troppo spesso, sebbene a quel punto avesse imparato a scoprire anche i pregi del ricco ereditiere (nonostante neanche lontanamente potessero ambire a surclassare lo spropositato quantitativo di difetti che si portava dietro) fino al punto di abituarsi alla sua esistenza, quasi affezionarcisi – malgrado quella non fosse una delle innumerevoli abilità del manipolatore d’ombre; non più –, si chiedeva come poteva essere così tanto idolatrato dalle masse, amato dai milioni di followers che affermavano di volerlo seguire pure all’Inferno se avessero dovuto. Non fosse stato pagato per stargli appiccicato al culo ventiquattro ore su ventiquattro, probabilmente sarebbe stato all’oscuro della sua esistenza fino al giorno della propria prematura dipartita, ed avrebbe vissuto benissimo fino ad allora; d’altra parte, la stragrande maggioranza dei suoi seguaci non aveva mai avuto l’onore di conoscerlo da vicino. Sapeva d’essere un sociopatico, Daveth, un diagnosticato antisociale che mal s’amalgamava con le altre persone; era conscio del fatto che molti dei suoi contrastanti sentimenti nei confronti dell’Hilton fossero dovuti alla propria particolare (e scarsa) attitudine al rapporto umano. Ma era anche sicuro a sufficienza di non essere l’unico a voler dare ripetuti calci sui denti al ragazzo.
    Solo marginalmente si trovava a chiedersi come facesse Yale, a sopportare tutto quello: poteva essere una delle persone più irritanti che avesse mai conosciuto in vita sua, ma aveva visto di peggio scrollando sui suoi social. Smetteva di porsi domande quando giungeva alla conclusione che se la fosse cercata lui, la fama, e che dovesse tollerarne le conseguenze vita natural durante; cazzi suoi, come si soleva dire.
    «credo d’essere stato fin troppo gentile» constatò, in risposta alle non richieste battute di spirito del biondo – per il quale avrebbe addirittura potuto rispondere sarcastico, facendogli notare che fosse più utile lui come sugar daddy dal momento che con banconote da cento dollari ci si puliva il dorato deretano un giorno sì e l’altro pure –, sorvolando su qualsiasi allusione nascosta tra le righe delle sue parole: un’altra soddisfazione che non era disposto a dargli.
    «vada per la seconda. preferisci anche tu l’opzione forza, non mentire a me» ah, che sadico figlio di puttana. Si avvicinò alla soglia della piscina, piegandosi sulle gambe e poggiando le braccia sulle ginocchia. «come mi conosci bene, mh?» accennò un sorriso a fior di labbra, nulla che potesse però raggiungere le fredde iridi cerulee a fissarlo ormai lontano. Che stimasse l’uso della violenza fisica più di una motivante conversazione, era forse una delle poche cose a sua conoscenza – oltre al fatto che fosse diventato un veterano di guerra pochi anni dopo la maggiore età, che disprezzasse il genere umano nella sua interezza, o che avesse dei poteri da special senza aver però mai passato un solo giorno nei Laboratori Estremisti; a malapena sapeva della loro esistenza.
    Era così, così!, tentato dallo spaccargli la faccia, che se soltanto non si fosse portato fuori dalla portata della propria presa lo avrebbe fatto senza pensarci due volte; avrebbe poi potuto raccontare ai tabloid di essere stato aggredito, inventarsi una melodrammatica storia strappalacrime che gli avrebbe fruttato ancor più notorietà: un prezzo che era disposto a pagare, quello.
    Era come dover trattare con un bambino di tre anni, convivere con Yale. Lo guardava sguazzare come un tricheco maldestramente ammaestrato nell’acqua, e l’istinto gli suggeriva che fosse il caso di togliersi quello sfizio una volta per tutte: gettarsi, dargli una testata, magari lasciarlo privo di sensi ad affogare nella sua stessa lussuria. Un pensiero talmente forte, che spingendo con i polpastrelli sugli occhi chiusi poteva tranquillamente immaginarsi ogni scena come fosse appena accaduta.
    Aveva ucciso molte persone, Dave; ne aveva viste morire altrettante, ma non per mano sua. Ogni sguardo vitreo, ogni pozza di sangue ad allargarsi sotto corpi immobili, ogni foro di proiettile ad allargarsi nel petto ed ogni supplica strozzata ed atona – le ricordava tutte, così come ricordava di non aver mai provato nulla: forse un tempo, qualcosa.
    Uccidere Newhaven Hilton non avrebbe certo compromesso un’anima che, il fu Hamilton, non vantava di possedere.
    Sospirò, perché sapeva non lo avrebbe fatto. «non ho intenzione di bagnarmi per te» snocciolò, sollevando allusivo le bionde sopracciglia – perché sì, in quel caso l’interpretazione era volutamente a piacere dell’altro. Alzò una mano, creando un piccolo buco nero che giocasse con la gravità ed attraesse a sé il ragazzo; quando fu abbastanza vicino, richiuse le dita attorno al colletto di Yale. Poteva sentire le gocce d’acqua scivolargli sulle dita, mentre strizzava la camicia dell’altro per assicurare la presa sugli indumenti fradici: ancora, la tentazione di prenderlo per i ciuffi castani e sbatterlo contro il bordo di marmo era spericolata, ma giacché era un signore decise di contenersi. Preferì far affidamento alla propria forza, per quanto il peso dell’acqua rendesse l’operazione difficile, e sollevarlo per portare almeno il busto fuori dallo specchio cristallino, la faccia ad un palmo di distanza dalla propria. Prima che potesse commentare – perché avrebbe trovato qualcosa d’inutile con cui dar suono al proprio fiato, se lo sentiva –, lo lanciò sul pavimento alle proprie spalle, non curandosi troppo di dove avesse sbattuto. Perché, certamente, da qualche parte aveva sbattuto: era possente ma non era un superuomo; sarebbe stato irreale non utilizzare un po’ di magia per scaraventarlo dove più lo aggradava, e con ciò ne conseguiva che la mira potesse essere un po’… falsata.
    Non riuscì a celare un accenno di sorriso più largo e compiaciuto, nel sentire il tonfo del corpo inzuppato contro il pavimento: sentiva già di poter tollerare un po’ di più l’Hilton, dopo averlo gettato di violenza. Scosse la mano al proprio fianco, cercando di liberarsi di quante più goccioline possibile, prima di rimettersi in piedi e portarsi vicino a Yale. «ci lavori con questa spinse la pianta del piede contro la guancia dell’altro, smuovendola appena contro le piastrelle prima di lasciarlo libero di muoversi liberamente. «e non ho intenzione di ricevere una detrazione dallo stipendio perché ti ho mandato alla prossima diretta live con il naso rotto, o un occhio nero.»
    rebel
    deatheater
    26 y.o.
    27 y.o.
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  14. .
    pariah
    (n.) a rejected member of society; an outcast.
    Socchiuse gli occhi azzurri con lenta intenzione, girando appena il busto verso la propria destra; lo sguardo, tanto distaccato quanto attento, non seguì la lama color della pece che gli passava affianco, impegnato com’era a studiare con severo giudizio l’altrui figura. «male.» ammonì pacato, non un solo capello biondo scomposto sulla nuca, osservando dall’alto al basso l’affannato ragazzo dall’altra parte della radura. A vederlo, così sgualcito e fradicio, sembrava avesse appena corso i centodieci metri ostacoli olimpionici più di una volta: avesse avuto la capacità, o quantomeno la voglia, di provare pietà, Daveth avrebbe compatito il più giovane. Non che il Withpotatoes se ne facesse qualcosa, della sua indulgenza. «se questo è il tuo livello, sei messo veramente male.» e lui, per essere in quel posto con il novello manipolatore d’ombre, non doveva evidentemente passarsela molto meglio: cosa non si faceva, per fuggire dagli Hilton. Pur di avere anche fosse solo un'ora d'aria da quel pandemonio che erano dirette live, lotte tra aragoste e orazioni di beneficenza, si era abbassato a dare lezioni di ombre cinesi - perché, per il Gallagher, quel di cui aveva bisogno Mabel erano proprio quelle: le basi sostanziali - ad un poco più che diciottenne. Aveva vissuto il fottuto Afghanistan, eppure stava iniziando a pensare che probabilmente il peggio doveva ancora arrivare; quel che ormai raccontava quando andava alle riunioni per il disturbo da stress post-traumatico, non era la guerra - era Yale. Che poi, non aveva davvero bisogno di scuse per mandarli tutti a fanculo e rinchiudersi nel proprio mondo di pace dei sensi: era piuttosto il fatto che rendere produttivo quel tempo, lo appagava.
    Soprattutto se si trattava di maltrattare qualcuno, a maggior ragione uno come Mabel. C'era qualcosa, in quel ragazzo, che gli faceva davvero venir voglia di prenderlo a schiaffi. «ma ci si può lavorare» prima che l'altro potesse rendersi conto dello spostamento d'aria, sciocchiò la lingua alle sue spalle - la canna della revolver premuta contro la sua nuca, il pollice a cliccare la sicura per disattivarla.
    Per l'esercito britannico era stato un tiratore scelto; per l'underground londinese e quello statunitense, magico o babbano che fosse, uno dei migliori sicari che ci fossero in circolazione. Avesse voluto davvero sparare per uccidere, lo avrebbe fatto senza mancare il bersaglio di un millimetro: forse era stato il campo a cambiarlo, forse era sempre stato un maledetto sociopatico, ma se l'avesse ritenuto opportuno avrebbe fatto fuori il giovane senza battere un ciglio, e senza provare un filo di rimorso nel vedere il sangue sgorgare da un corpo senz'anima. Fu con un lieve accenno di sorriso sulle labbra che invece premette il grilletto, impassibile all'urlo che ne conseguì. «prevedibile,» spostò l'attenzione alla propria sinistra, laddove Mabel saltellava su di un piede solo, tenendosi l'altro ferito di striscio tra le mani. «e lento.» «aHiA» sospirò, sollevando la pistola all'altezza del petto. «non lamentarti.» o la prossima volta non sbaglio la mira; non lo disse, perché per Thane i sottintesi valevano più di mille parole. Al successivo «era pRoPriO necessario!?», tirando fuori il cellulare che aveva iniziato a squillare, pigiò di nuovo la leva che impediva sparatorie involontarie. «lo prendo per un sì va bene okay!»
    Il timer continuò a suonare per qualche istante, prima che Dave si decidesse a premere il tasto d'interruzione: si era incantato a contemplare gli zeri lampeggianti sullo schermo, meditando se fosse il caso di ignorare la chiamata alle armi, o di arrendersi all'inevitabilità del proprio destino. Con un sospiro, l'ennesimo, decise di propendere per la seconda opzione. Ripose la pistola tra i jeans e la schiena, creando nel mentre un varco oscuro alle proprie spalle.
    «cosa... cosa fai.» sollevò le sopracciglia, puntando le iridi celesti in quelle altrettanto chiare di Mabel; non era ovvio? Data la mancata iniziativa del ragazzo, si rese conto non lo fosse affatto. «me ne vado, la cena è pronta.» notò perfettamente la confusione dipinta sul volto dell'altro ma decise, come da consuetudine, di sbattersene la minchia. «... e io?» con già un piede nel portale d'ombre, il ventiseienne si strinse nelle spalle e piegò le labbra verso il basso. «apriti un varco e tornatene a casa.» che non fosse un suo problema, era scritto tra le righe. «se ci riesci.» lezioni di sopravvivenza, quelle erano le basi: di certo non sarebbe tornato a prenderlo, dato che nemmeno sapeva dove l'avesse portato in primo luogo. Seguito da inutili insulti, sparì dalla radura.

    «mátalo.» ecco perché, in quella marmaglia di idioti, la sua favorita era sempre stata Rosario: nessun convenevole di troppo, pratica come pochi al mondo, cuoca eccellente e costantemente sul punto di uccidere Yale; sotto quest'ultimo punto di vista, doveva ammetterlo, si trovava in sintonia anche con il Black cugino degli Hilton - ma nessuno poteva superare Rosy. Nella propria vita aveva avuto diversi mentori, Daveth Thanatos Gallagher, una lista molto selettiva a cui teneva particolarmente, e la domestica stava pian piano diventando uno di questi. «non chiedermelo due volte.» probabilmente lo pagavano troppo poco per tenerlo in vita, ed ucciderlo forse gli sarebbe convenuto di più. Ma perché ci rimuginava così tanto, Cristo Santo!?
    «mh, bello.» mani in tasca e fronte corrugata, piegato davanti al forno spento ad osservare la propria opera, quel che avrebbe davvero voluto chiedere alla donna era cosa ne pensasse di quella sua prima prova in cucina. Non l'avrebbe mai detto, temendo di cadere in un loop di approvazione nel quale non voleva più ricadere - in cui non poteva, cascare nuovamente.
    Non che avrebbe avuto modo di porre il quesito, o Rosario il tempo di rispondere. «DAVIDEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEE» chiuse le palpebre, percependo gli occhi dietro di loro a roteare tanto velocemente da poter alimentare una dinamo. Sentì la donna avvicinarsi, posandogli brusca tra le braccia un mucchio di indumenti; a quel punto della propria vita non avrebbe più dovuto porsi certi quesiti, ma: «non sarà di nuovo nudo, vero?» non che si scandalizzasse di qualcosa, il biondo, o che una risposta affermativa potesse in qualche modo essere disturbante: era solo confuso, ma ci aveva anche fatto l'abitudine. «DAVIDEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEE» Buddha dammi la forza; con un nuovo, ma sempre opportuno e sentito, sospiro, seguì la voce fino alla piscina. Insofferente alla visione di un Yale completamente vestito a sguazzare nell'acqua, comprese a cosa servisse il cambio: era solo troppo stupido - nulla di diverso dall'ordinario, insomma. «mi imbocchi?»
    «piuttosto mi uccido.» impassibile e lapidario, lo Special, nel citare un grande saggio; lasciò cadere i vestiti del ragazzo sul bordo della piscina, schioccando la lingua sul palato. «muoviti ad uscire e a vestirti,» avrebbe potuto chiedergli per quale motivo avesse ancora camicia e cravatta, ma non gli importava seriamente. «prima che ti prenda qualcosa.» preoccupazione? Solo per se stesso: avere uno Yale Hilton con anche soltanto una tacca in più di temperatura corporea, lo avrebbe condannato a giorni interi di stress. E comunque, doveva quantomeno fingere gli interessasse davvero della salute dell'altro. «non far freddare la cena: se non ti sbrighi, ti butto fuori di lì con la forza.»
    Voleva fosse il primo ad assaggiare quel che aveva cucinato.
    Così, se fosse stato in qualche modo tossico o accidentalmente avvelenato, non sarebbero morti per primi Dave o Rosario.
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    daveth thanatos gallagher // war hero
    «sono occupato.» non diede modo, alla Abbott, di capire appieno cosa fosse appena successo: prima ancora che potesse rendersi conto che le aveva fatto la grazia di risponderle al telefono ma che non le avrebbe concesso ulteriore spazio per dirgli qualsiasi cosa le passasse per la testa in quel momento, le aveva attaccato il telefono in faccia, udendo in lontananza il disperato tentativo di richiamare il suo nome. Era sicuro, Daveth Gallagher, che qualsiasi cosa la ragazza avesse da comunicargli poteva aspettare qualche minuto – ma anche ore, giorni ed anni, volendo: fosse dipeso da lui, e purtroppo non era così, quell’attesa avrebbe potuto tranquillamente durare secoli interi e non sarebbe mai stato un peso sulla sua coscienza (ammesso e non concesso che l’ombrocineta avesse una morale sulla quale depositare simili macigni, ovvio: all’età di ventiquattro anni, ad essere onesti, non era più certo di poterne vantare una). Per più di un decennio la sua rubrica telefonica era rimasta vuota, senza nemmeno un contatto memorizzato, ed il suo recapito cambiava ogni volta che i suoi servigi erano richiesti e diligentemente portati a termine; non riteneva esserci alcun bisogno utilitaristico nell’avere l’elenco ricolmo di numeri inutili e mai adoperati, ed egli stesso non sentiva alcuna necessità nell’averne uno fisso sul quale essere reperibile da chicchessia – più che altro, non aveva nessuno a cui potesse servire se non per lavoro: Thane era, era stato e sempre sarebbe rimasto un fantasma, e dire che la cosa gli dispiacesse sarebbe una menzogna di proporzioni colossali. Il fatto che da cinque mesi a quella parte fosse stato costretto ad un impiego d’ufficio, il quale lo richiedeva costantemente reperibile, non significava di certo che avrebbe per questo modificato la propria abitudine - soprattutto se a rompergli le palle non erano gli Hilton, ai quali comunque si limitava a rispondere con monosillabi puntati o singole ed esplicative emoticon. Non era una persona da chiamare, Dave, se non per faccende lavorative, e sebbene sopportasse la presenza della scrittrice – dire che gli piacesse come essere vivente, o che fossero amici (anche se aveva il terribile presentimento che per lei fosse effettivamente così), era esagerato; diciamo soltanto che ancora non voleva ucciderla e gettarla dal Golden Gate in un sacco nero, ma era abbastanza volubile da poter cambiare opinione al riguardo in qualsiasi momento -, non così tanto da farsi martoriare da lei ogni qual volta le andava.
    La cosa che più lo frustrava, ovviamente, era ch’ella lo sapesse – lei, e tutta l’allegra compagnia – e che nonostante ciò continuasse a fracassare il beneamato.
    Piegò appena il capo verso l’accendino, lasciando che la punta della sigaretta si lambisse della fiamma ed il tabacco iniziasse a bruciare. «dove eravamo rimasti?» soffice e stanca, la voce del biondo scivolò in una nube di fumo opaco a poca distanza dal volto altrui; le iridi, argento fuso screziato da liquidi lapislazzuli, sorridevano sarcastici all’uomo legato – immobile e vulnerabile, bloccato sulla sua poltrona preferita da spesse corde di pece. Finse di attendere, per qualche secondo, una risposta, per poi ricordarsi della canna della Beretta infilata nella bocca dell’essere. Essere, e basta, che definirlo umano diventava istante dopo istante più complicato: un vecchio con il bavero ancora sporco dell’ultimo pasto che gli avevano cucinato, tanto sazio dell’arricchimento sulle spalle e disgrazie altrui da non doversi preoccupare dell’aspetto trasandato al limite dell’indecenza, o del fatto che abbassando lo sguardo non riuscisse nemmeno a vedersi i piedi; talmente ricco, pieno di stronzate da diecimila sterline l’una su ogni singola mensola della propria villa, che quegli infimi dettagli quali il disgusto che chiunque (sfidava, che qualcuno potesse non trovarlo rivoltante; e dire che il Gallagher non s’era mai fatto di simili problemi fisici, né sul lavoro né tantomeno nella vita quotidiana: gliene fregava di come apparisse la gente, tanto quanto effettivamente se ne sbatteva della gente stessa) provava al suo cospetto venivano oscurati dalla brillantezza di tutto quell’argento. Un maiale satollo e che ancora s’ingozzava, rotolandosi nel limpido fango non dissimile da oro colato. A persone simili, nemmeno si prendeva il disturbo di fare il servizio a domicilio: agiva da lontano, senza troppo sangue a macchiargli le mani o troppe impronte lasciate in giro – non che questo fosse realmente un suo tarlo, meticoloso com’era. Un lavoro rapido, senza complicanze.
    Ma lui? Oh, buon Dio. Le labbra del biondo si piegarono appena, un riso spento a deformargli l’espressione; le dita a stringersi sul calcio della pistola mentre la estraeva dalla bocca, concentrandosi sulla trachea di Elvin Roach piuttosto che sull’arma. Trasse un tiro dalla sigaretta, gli occhi chiari fissi su un agonizzante, vecchio e ricco irlandese – un magnate d’altri tempi, un decrepito imprenditore che non vuole crepare solo per tenersi stretti tutti i soldi che ci spettano. Così era stato definito dai figli, troppo giovani per l’età dell’uomo e, a detta di Thane, troppo belli per essere considerati realmente suoi eredi - e c’è chi dice che la ricchezza non compra la felicità: stronzate -, quando, non troppo tempo dopo essere atterrato a Londra con il jet degli Hilton, gli era stato commissionato quell’omicidio.
    Daveth Thanatos Gallagher, tuttavia, lo conosceva per altre vie – e tanti erano gli appellativi che avevano definito l’uomo, ma pochi lusinghieri come “magnate” o “imprenditore”. Oh, senza dubbio lo era!, non sarebbe mai stata sua intenzione negarglieli: aveva costruito il suo piccolo impero, l’aveva fatto crescere con sudore, fatica e senza l’appoggio di nessuno fuorché se stesso. Aveva fatto il suo, ma ciò non toglieva che i modi in cui il ventiquattrenne era solito sentirlo chiamare, erano più simili a lurido infame, figlio di puttana, porco schifoso - e così via.
    Gli stessi figli, invero, l’avevano più volta definito in tal modo - di nascosto, lontano dalle sue orecchie o da quelle di suoi collaboratori poco discreti, ma sempre a portata di mano del Gallagher; forse nemmeno si ricordavano di lui, il che avrebbe reso tutto molto ironico, ma qualcosa gli faceva pensare il contrario, e che fosse proprio per quello che avevano atteso proprio il suo ritorno in patria: era un po’ un maniaco del protagonismo, a volte -, ma ciononostante avevano richiesto per lui un lavoro rapido e pulito. Che sembrasse un suicidio, e che la sua lettera d’addio fosse il suo stesso testamento (di cui, ovviamente, nessuno sapeva l’ubicazione esatta: tutto lavoro in più per il sicario, che però non aveva discusso affatto – sia perché la ricompensa era lauta, sia perché recuperarlo era stato un gioco da ragazzi).
    E così sarebbe stato, ma - vaffanculo. Vederlo mentre gli mancava l’aria, annaspante e alla stregua ricerca di un po’ di ossigeno o aiuto, era una goduria di cui non poteva privarsi.
    «ti ricordi di me?» un filo di fumo a sibilare tra i denti, la domanda retorica a sovrastare gli ansiti. Si accovacciò davanti a lui, le braccia sulle ginocchia flesse e la testa piegata – un broncio, a far capolino sulle labbra, quando questo scosse la testa, strozzandosi con la sua stessa saliva. Sarebbe schiattato d’infarto e non avrebbe portato a termine il proprio scopo, se avesse continuato così. Beh, poteva sopportare ancora un po’. «daveth» umettò le labbra, la sigaretta a pendere indolente dalle stesse. «ti dice nulla?»
    Avrebbe dovuto, considerando che era stato lui a dargli quel nome ventiquattro anni prima, in uno sporco e fatiscente orfanotrofio nella periferia londinese; per tutte le volte che sotto le unghie aveva tenuto il sangue del biondo – indiretto, perché lui non si sporcava mai davvero le mani: mandava altri, suoi sottoposti, a punire le malefatte dei ragazzi. Avrebbe dovuto, perché era stata una delle prime persone a spegnere lo sguardo già opaco di un bambino di appena sette anni; perché lo aveva visto disperarsi, all’angolo di una stanza in cui c’erano solo quattro persone, di cui una di appena dieci anni e già priva di vita - e non aveva fatto nulla, se non chiamare degli aguzzini che facessero smettere quel piagnisteo -; perché, ancora più scoraggiato e devastato, aveva supplicato il suo aiuto per tre inverni consecutivi – che Zenith era sparita ed aveva bisogno di lui, che lui aveva bisogno di sua sorella -, ed ancora se n’era sbattuto il cazzo.
    O anche solo perché, per sedici anni, in ogni sua sporadica visita era il primo che vedeva entrando, e l’ultimo che salutava uscendo; quello, che ogni fottutissima volta, gli augurava di morire sotto un maledetto tram.
    Non lo stupì, comunque, l’amnesia nei suoi confronti – meglio così per lui. «peccato.» in altri frangenti, sarebbe stato decisamente peggio per il Roach; purtroppo, aveva ordini precisi. Era un fuoriclasse, Daveth, e gli piaceva trovare modi sempre nuovi ed innovativi per giocare con il cibo – ma, prima ancora, era un bravo soldato. Un ottimo cadetto, se non il migliore. Allentò la presa psichica sul senso di soffocamento dell’uomo, nel medesimo momento in cui portò la pistola sotto il suo mento, l’angolazione perfetta e la presa salda: ad occhi esterni, non sarebbe potuto apparire se non come un suicidio.
    Anni prima, quell’accortezza lo aveva tormentato ogni maledetta notte.
    Poggiò l’indice sul grilletto, corrugò le sopracciglia osservando sempre un po’ più disgustato il signor Elvin Roach, applicò una prima leggera pressione – solo per aumentare l’angoscia, sapete - e…
    Squillò il telefono. Sospirò tra i denti, alzando gli occhi al cielo. «ti ho detto che-» «“sei occupato” sì certo come al solito, straaaano» ma che era tutta quella confidenza. Socchiuse le palpebre, ancora accovacciato davanti la poltrona e con il telefono in vivavoce nella destra, e la sinistra sulla Beretta; aveva reputato subito opportuno rispondere, che se non l’avesse fatto la Abbott avrebbe continuato all’infinito. «AIUTATEMI» oh, santo cielo. Sollevò con lenta intenzione lo sguardo, le sopracciglia arcuate e le labbra morse. Avrebbe dovuto imbavagliarlo prima di rispondere al telefono?
    Qualcun altro, probabilmente, lo avrebbe fatto.
    Deadpan Daveth, d’altronde, non si poneva mai simili quesiti. «eaula davide, ma stai uccidendo qualcuno?» Shiloh, dall’altra parte della cornetta, rise. Il Gallagher, si limitò a sorridere piatto. «sì.» e premette il grilletto, lasciando che il rombo echeggiasse nella villa e nel circondario. Da quel momento in poi, aveva circa cinque minuti prima che i vicini curiosi venissero a vedere cos’era successo. Si alzò e poggiò il telefono sullo stesso tavolino dove aveva preparato il vecchio testamento da strappare e la lettera d’addio da stilare, per poi tornare dalla vittima. «era uno sparo, quello?» pulì il calcio della pistola – che, sebbene portasse i guanti, era sempre bene essere un po’ più prudenti – e lo fece stringere nel pugno del Roach, liberandolo delle funi d’ombra. «sì.» rispose, ancora tremendamente onesto. Tornò di nuovo alla scrivania, sbrigativo ma meticoloso, e inserì il foglio bianco nella macchina da scrivere: una vera fortuna che fosse un collezionista di cose che non avrebbe mai (più) usato in tutta la sua vita, dato che non era riuscito a costringerlo a scrivere la lettera con le sue stesse mani.
    Si morse le labbra, rimase più tempo del necessario a fissare la pergamena – in un silenzio strano, nel quale era difficile per lui capire se la scrittrice al telefono fosse sotto shock o solo confusa. Odiava dover commettere suicidi, soltanto per quel momento.
    Aveva smesso di provare emozioni diciassette anni prima, Daveth Gallagher, ed immedesimarsi in situazioni simili era una vera e propria tortura. «ahah sì ok certo davide. S E N T I, hai sentito yale? ti sta cercando – oh mio dio, non è che lo hai appena ucciso???» «no.» non ancora (cosa? cosa). «ah ok cmq ti sta cercando, ci hai parlato?» «no.» «hai sentito la segreteria?» «no.» «ti interessa almeno?» onestamente? Pensava che l’Hilton fosse ancora chiuso in camera sua, in preda alle sue crisi esistenziali e depressive, e che non volesse parlare con nessuno se non con gente su Grindr o Just Eat. O meglio, lo sapeva per certo. Almeno, se si era premurato di avvertire lui e le sue amike del kwore, non aveva ancora deciso di buttarsi dal Tower Bridge - per fortuna, dato che per quel lavoro veniva pagato davvero bene. «dov’è?» sospirò, continuando a sperare che l’estro creativo scendesse per lui come lo Spirito Santo.
    Non lo fece. «non sei a casa per controllare?» «evidentemente.» «mmmmh ti mando la posizione, ciauzzz» «abbott, aspetta…» chiuse gli occhi, odiando ogni cosa. Ma aveva davvero poco tempo, e lei era comunque una scrittrice.
    O almeno, si professava tale. «devi aiutarmi.»
    Per quale motivo Shiloh, effettivamente, lo fece, non ci è dato saperlo. L’unica cosa che Daveth scrisse di suo pugno, furono poche righe finali. La sua condizione, stipulata alla firma del contratto con i suoi datori di lavoro – nonché, l’unica di una qualche valenza di tutto il manoscritto.
    “Metà del mio patrimonio ereditario andrà ai miei figli legittimi, Colin e Jocelyn Roach, l’altra metà desidero venga donata in beneficenza all’orfanotrofio Saint Agatha”. Sorrise a quelle poche parole, lanciando un’ultima occhiata al cadavere prima di arretrare all’interno di un varco oscuro e dileguarsi dalla scena del crimine.

    Vide subito Yale Hilton, una volta arrivato al punto d’incontro indicatogli dall’app. Difficile non notarlo, anche nell’ombra di una Londra poco illuminata – anche se, in realtà, se non si fosse abituato alla convivenza con il mago per cinque, interminabili, mesi, probabilmente non ci avrebbe nemmeno fatto troppo caso.
    Soprattutto perché, ovunque andasse, riusciva ad incanalare tutte le attenzioni dei passanti, volente o nolente. Accelerò il passo, fomentato dal tono dell’estraneo ad inveire contro l’americano, e senza annunciare la sua presenza (amava l’effetto sorpresa, e potersi confondere facilmente con le ombre non faceva altro che aiutarlo: si divertiva con davvero poco) posò la busta di carta affianco all’Hilton e sfilò la pistola – un’altra? - dal cappotto, puntandola al fianco della giovane. Aveva un volto familiare, qualcosa nei lineamenti morbidi che prudeva sulle dita serrate attorno al calcio e sul palato. «c’è qualche problema, per caso?» domandò, pacato e secco, gli occhi azzurri dietro le lenti scure fissi sulla nuca della ragazza. Magari era una nuova amica di Yale, eh, per carità! Non era una novità che le sue conoscenze più intime lo insultassero continuamente, o inveissero contro di lui a caso. Ciononostante - «se è così, meglio che tu vada» sempre meglio chiarire, ecco. Fu con la stessa calma piatta, che si rivolse all’altro. «ti ho portato il frappé» così, random.
    No, in realtà mica così random: ormai sapeva che presto o tardi gli avrebbe chiesto di prendergli qualche stronzata da Starbucks.
    Tanto pagavano gli Hilton.
    prelevi? // i panic at a lot of places besides the disco
    I'm just a problem that
    doesn't wanna be solved
    So could you please hold your applause
    Take this sideshow and all its freaks
    And turn it into the silver screen dream
    novocaine - fall out boys
    16.11.2018
    24 y.o. hit man
    shadowkinesis
16 replies since 31/1/2017
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