and who i am today is worse than other times

[preq. 11] mood ft. balt

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  1. honestly‚ mood
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    si dice che sulle teste dei seguaci di arda vegli la dea da cui prendono il nome. queste abili sentinelle mirano ad indebolire il nemico e darlo in pasto ai loro alleati.
    Non si muoveva da un po’, Mood. Fermo come quand’era arrivato, la guancia posata contro il metallo – freddo, un tempo, ed oramai scaldato dal contatto con la pelle – le braccia incrociate sul petto a stringere la lama senza tagliarsi, una gamba allungata oltre la poltroncina. Affondato nel cuscino su cui aveva piantato lo stocco come se potesse ingurgitarlo. Lo sguardo era posato su quella o l’altra pietra del pavimento di Hogwarts, nulla di entusiasmante. Non stava realmente guardando nulla, distratto dalle sue due cose preferite al mondo (se stesso, ed il silenzio) permettendo ai pensieri di vagare indisturbati fino al placido nulla della meditazione. Quel labirinto di passato e ricordi che non gli appartenevano (non lo facevano? Un intero corridoio di libri di storia, e di piante ormai secche, ed appunti ordinati al limite dell’ossessione) non era il posto in cui avrebbe voluto essere – l’oro del podio andava al suo laboratorio sotterraneo a Praga – ma quello che più vi si avvicinava, non potendo permettersi altro. Di cui aveva bisogno, se il nome della Stanza poteva essere di qualche indicazione. L’aveva scoperta l’anno prima, e da allora, era stata spesso la dimora del suo non esistere per un po’. Si spegneva fra quelle mura come uno stoppino stretto fra pollice ed indice. Un tempo, aveva lasciato quell’onore all’ufficio di Check, l’unico posto in quella maledetta scuola dove poter essere più Mood, se non solo Mood - quello era un privilegio che concedeva unicamente a se stesso, e neanche tutti i giorni.
    Si cresceva. Si cambiava. Un giorno aveva guardato suo fratello ed aveva capito che fosse giunto il momento di prendere le distanze, perché l’avrebbe fatto comunque ma preferiva fosse graduale. Non voleva esserci sempre, nella sua vita; doveroso un passo indietro per iniziare ad abituarlo alla sua assenza, perché non voleva diventasse un effetto collaterale delle sue decisioni. Si dicesse quel che si volesse di Mood, ed a ragione, ma sapeva amare abbastanza da capire quando non fosse il caso di superare una linea. Non significava abbastanza da non farlo, come dimostrava quotidianamente nel suo mero, ma mai semplice, esistere; lo faceva, e spesso. Aveva giusto appena finito di farlo. Semplicemente, non voleva farlo con Check.
    Non sarebbe tornato a casa per un po’, il Serpeverde. Scelta, non necessità. Nella vita a scacchiera che aveva diligentemente creato, aveva spostato gli ultimi pezzi solo poche ore prima. Non gli rimaneva che aspettare la mossa successiva, e decidere come muoversi una volta che le sue azioni avessero avuto delle conseguenze quantificabili – ah, la storia della sua vita.
    Adorava la sua famiglia. In maniera misurata, e calcolata, ma lo faceva. Perfino Justin e Hold, apparsi nella sua vita solo per andarsene di continuo, occupavano un posto nel suo mondo, e neanche quello più in basso. Avrebbe fatto qualunque cosa per loro, eccetto sacrificare se stesso – un fardello che lasciava loro più che volentieri, ciascuno alquanto propenso al martirio in ogni caso – ed aveva deciso di dimostrarlo nel modo che gli riusciva meglio. Quello incomprensibile ai più, ma che importanza aveva; quello crudele, perché era pur sempre Mood, e tenere a qualcosa significava farlo al suo peggio.
    Era puntuale nei suoi appuntamenti mensili a Francoforte, perché non si mangiava mai bene come a casa propria e perché gli aggiornamenti in merito alle sue giornate erano doverosi. La leggenda narrava che i genitori amassero i propri figli in maniera eguale, e forse era davvero così, ma certamente con il minore dei fratelli Case-Beer-Vibe-Bigh erano più ovvi. Magari non era il preferito, ma sicuro come l’oro lo sembrava, e Mood calzava quella parte con la perfezione di chi c’era nato e si era allenato per diventarlo. Pensavano di averlo modellato a piacimento, che l’ultimo fosse stato infine un successo formativo, senza considerare che la storia amasse ripetersi, e fosse avvenuto esattamente il contrario: si era modellato su di loro, cambiando forma e spigoli fra mamma e papà. Era rimasto ore a guardare Cole Beer dipingere, la guancia sulla sua gamba mentre distrattamente gli carezzava i capelli; aveva appreso i nomi di tutti i colori apposta per indicarle il tramonto e dirle fosse vermiglio. Si era addormentato centinaia di notti sul divano insieme a Penn Case mentre il padre gli leggeva poesie e romanzi, ed aveva imparato a distinguere i sonetti solo per interromperlo e farlo ridere. Interi pomeriggi con Rue Vibe nel laboratorio dove non avrebbero dovuto entrare a guardarlo lavorare su quello o l’altro meccanismo, imparando il nome degli attrezzi solo per poterglieli passare. Il lavoro migliore di Mood, restava comunque Krush Bigh - e viceversa. Aveva lasciato lo guidasse, modificando poco del proprio tragitto; permesso gli tenesse la mano, e portandola distrattamente dove voleva andare lui. Sua madre gli aveva insegnato a sorridere e non farlo significare un cazzo, ad amare e saperlo contenere. Impeccabile, fino a quando decideva di non esserlo. Due anni prima, con l’accusa di omicidio e la conseguente espulsione, aveva rischiato ed aveva vinto, permettendo a tutti di passarci sopra. Giustificarlo.
    E poi, «andrete? Per hold» aveva gelato il sangue di tutti i presenti, mentre lui sollevava inquieti e pesanti occhi scuri a cercare i loro sguardi. Fece in modo che lo vedessero deglutire con fatica il boccone, e si rendessero conto di quanto (quanto?) gli fosse costata quella domanda. Era stato così prevedibile, il resto. Così scontato, che Mood non potè che rimanerne parzialmente deluso. Sapeva di essere bravo, ma non così bravo da prevedere la reazione di tutti i presenti; poteva significare solo una cosa: che fossero semplici. Che avesse finito di combattere, ed avesse già vinto. Tollerava tanti difetti nel genere umano, ma non la mediocrità.
    Tua sorella - divertente, come fosse sua sorella, e non anche loro figlia - ha fatto la sua scelta, molti anni fa. In modi diversi, ed in toni differenti, ma tutti e quattro gli avevano risposto al medesimo modo. Ed allora, «ma noi possiamo ancora farlo, no? sceglierla» labbra dischiuse in sorpresa, la voce a scendere di qualche nota. Non nascose la propria delusione, Mood; sapeva avrebbero scelto loro come interpretarla, e che l’avrebbero fatto nel modo sbagliato.
    Sapeva non avrebbero mai partecipato alla missione. Nessuno di loro. L’aveva saputo anche quando giorni prima aveva lasciato segnassero il suo nome, e quando aveva alzato un sopracciglio a Check come se non avessero saputo entrambi che l’avrebbe usato come scusa per fare la stessa cosa – come se parte del motivo per cui Mood avesse deciso di rischiarsi la giocata, non fosse sapere che ci sarebbe stato il fratello. Per Hold? Anche. Una interpretazione come un’altra, quasi tutte corrette, e forse perfino migliore rispetto alla realtà. Più lusinghiera di certo: non faceva altrettanta scena dire che fosse annoiato e curioso. Inoltre, non una bugia. Voleva sapere dove fosse finita sua sorella, anche solo per sfarfallare le dita in saluto e soffiarle un bacio a distanza. Il fatto che, potenzialmente, potesse essere pericolosa, lo riguardava solo marginalmente – avrebbe trovato qualcuno a cui faceva abbastanza tenerezza da farsi proteggere a costo della vita. Oltre a Check, si intendeva. Sperava fosse l’ultimo a morire, che era più di quanto Mood concesse a chiunque altro.
    «e se fossi io» aveva domandato, in un bisbiglio. «se fossi io. Verreste, per me?» Certo che l’avrebbero fatto. Cole era stata la prima a prendergli il viso fra le mani, i pollici a premere sulle guance, e dirgli che l’avrebbero fatto, ma lui non avrebbe mai dato motivo perché dovessero farlo, non è vero? Aveva annuito, poco convinto. Aveva atteso un altro paio di battiti.
    «è mia sorella»
    Un’altra pausa. Se loro non le davano importanza, gliene avrebbe data lui, sottolineando che riconoscesse fosse parte della sua famiglia. «se le succedesse qualcosa -» Labbra umettate.
    «vi importa?»
    La voce a tremare. «vi è mai importato?»
    «justin? e-» finse di interrompersi, permettendo di completare l’orchestra. Check.
    «crederà che l’abbiamo abbandonata. L’abbiamo fatto?» Stupore, come se non fosse stato scontato. Il millesimo tabù in una casa di segreti di pulcinella. «lascerete che muoia? come -» Justin. Tacque solo per lo schiocco. Non improvviso, se l’era aspettato, ma comunque… strano. Krush Bigh non aveva mai, mai alzato un dito su Mood.
    C’era sempre una prima volta.
    Con il bruciore sulla guancia dello schiaffo, il sedicenne si sentì in diritto di forzare le lacrime e dire fosse esattamente per quello che tutti li odiavano. Che se gli era rimasto solo lui, avrebbero dovuto farsi due domande. Che l’avrebbero perso, inevitabilmente.
    Ma non lo fece. Fosse mai. Perchè lo sapevano già, e Mood aveva sentito il crack delle loro illusioni in ogni parola, nel battito irregolare visibile sul collo. Se avesse reagito come un qualunque altro adolescente, avrebbe davvero cambiato le cose: sarebbero andati, forse. Guariti tutti. Serviva uno strappo netto per aggiustare i fallimenti di una decade.
    Però non voleva andassero. Voleva solo -
    «loro se ne sono andati, ma non dobbiamo fare lo stesso» prese la mano di sua madre fra le proprie, portandole alle labbra per premere un bacio di Giuda sulle nocche. «vi voglio bene» perfino vero, nella sua assurdità. Trattenne il sorriso, perché era certo di aver sentito quelle stesse parole centinaia di volte dopo ogni maldestro tentativo di manipolare il suo affetto nei loro confronti. «lo sapete, vero?»
    - spezzargli il cuore, perché era l’unico a poterlo ancora fare. Farli sentire in colpa.
    Stava ancora pensando all’occhiata ferita dei suoi genitori, quando sentì la porta aprirsi e chiudersi. Non si scompose troppo: era un crocevia di anime disperse, quel posto lì che si trovava ovunque ed in nessun luogo. Accoglieva chiunque avesse bisogno di spazi, e di qualcosa da fare. Non era altro se non un enorme e labirintico mausoleo di chiunque fosse passato fra quelle mura da che il castello era stato costruito. Sostanzialmente, un posto dove farsi i cazzi propri, motivo per cui non accennò a mostrarsi, rimanendo seduto ed immobile alla sua poltrona.
    Fino a che non riconobbe il suono dei passi. Molto peculiare da parte sua, ma aveva imparato a riconoscere il rumore delle catastrofi prima che potessero avvicinarsi troppo. Si sporse oltre la libreria che lo nascondeva alla vista, tenendosi in equilibrio con lo stocco rubato a Francoforte a far da leva sulla poltrona. Sorrise a Balt Monrique come se fossero sulla stessa barca (non quella. Quella metaforica, della vita) che, di per sé, era già ironico considerando il Tassorosso soffrisse di mal di mare. Gli offrì l’espressione triste e morbida di chi avesse perso una parte della propria famiglia, e pur essendo troppo giovane per avere un peso nell’universo, rischiava tutto pur di fare qualcosa. Che era vero, immaginava. In parte. Una parte decisamente non importante in egual misura, per l’uno o l’altro. «posso andarmene, se preferisci»
    mood
    bigh

    *buries hatchet*
    *remembers where*
    sentinella seguace di arda
    [ dimezza attacco O difesa del nemico ]
    MAGO
    LEADER
    16 y.o. — slytherin — professional gaslighterIf you think that I'm bad for you, yes I am
    If you want me to love you, you know I can't
    And if you feel like I'm lying, I probably am
    heartbreak on repeat
    Olivia Lunny
    moonmaiden, guide us


    Edited by honestly‚ mood - 6/4/2024, 22:24
     
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3 replies since 6/4/2024, 20:21   100 views
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