Apri gli occhi. Lo senti? Il piacevole tepore del Sole primaverile sul viso: ti sembra una vita dall’ultima volta che hai dovuto chiudere le palpebre per non rimanere accecato dalla sua luce, e nemmeno un giorno. Non sai davvero dirlo, ma non ti interessa realmente quanto tempo sia trascorso da quando hai potuto sentirlo premere sulla pelle, scaldandola ed alleviandone ogni tensione. L’importante è che ci sia, in questo momento. Ti sembra che ogni singola cellula del tuo corpo ne stia godendo, raccogliendo tutte le particelle di luce che può e tenendole per sé, ed è tutto ciò che ti serve adesso – nient’altro che questo. Apri gli occhi. Lo senti? Non serve nemmeno che ti impegni più di tanto, per accettare che quell’odore penetri nelle narici, solleticandole. Dopotutto, potresti riconoscere il profumo del pane appena sfornato lontano chilometri: arriva da est, e non ti è difficile credere che alla tua destra ci sia un forno. Quello un po’ più acre del tabacco arriva con qualche secondo di ritardo, ma non ti dà così tanto fastidio. Ciò che ti fa prudere il naso, che odi dal profondo delle tue viscere, giugne con un po’ di ritardo – più tenue, infido bastardo che si maschera e si fa percepire appena. “Polline”, ti viene da pensare, “polline infame”. Apri gli occhi. Le senti? Tutte quelle voci – e no, se te lo stai chiedendo, non sono tutte nella tua testa. Arrivano da ogni dove, e dietro quel sipario scuro che ti cela la vista riesci a malapena a capire quanto siano distanti da te. Un bambino che piange, le ruote della carrozzina che si muovono – avanti e indietro, avanti e indietro – sull’asfalto, e la soffice voce della madre che canta una ninna nanna nel tentativo – vano, supponi – di farlo tornare a dormire. Un gruppetto di adolescenti che parlano animatamente dell’ultimo film uscito al cinema, e che sembrano aver appena visto: anche tu conosci la pellicola, ma non ricordi di averlo ancora visto; sapevi sarebbe uscito tra poco, ma forse ti sei sbagliato. Ti arriva anche lo zampillare dell’acqua – una fontana!, ma certo, come potevi aver dimenticato ci fosse una fontana lì? –, da quella che ti sembra essere la stessa distanza. Una coppia, e dalla cadenza dei passi riesci a dire che di anni insieme devono averne già vissuti parecchi, che non parla molto: passeggia non molto lontano da dove sei tu, commentando piano gli sprazzi di vita che si susseguono tutt’attorno – dal “ricordi tesoro? anche susan piangeva sempre così tanto!” ai borbottii dell’uomo uniti alle risatine di sua moglie, ormai avvezza ai modi poi non così tanto burberi di lui, quando dei ragazzini giocando gli correvano davanti. Quella donna d’affari che se ne frega, al contrario dei due anziani, di cosa succeda fuori dai propri spazi personali: ha la sua chiamata di lavoro da fare, tutto il resto per lei è fuffa. E tante persone, tante vite, tante voci che piano piano si fanno spazio. Apri gli occhi. L’hai sentito? Non si è scusata, quella donna impegnata, quando ti ha dato la spallata – troppo presa dai suoi doveri, per rendersi conto di averti urtato per il semplice fatto che eri sulla tua strada. Carne contro carne – e tu, che avevi creduto essere inamovibile fino ad ora, che ti sposti, un corpo la cui inerzia è stata annullata senza che potesse rendersene conto. Apri gli occhi. Va tutto bene, apri gli occhi. Sei vivo, apri gli occhi. Lo vedi? È esattamente come te lo sei immaginato, come ogni parte di te l’ha sentito. Ci metti un po’ a riabituarti alla luce naturale di quella giornata, ma la fontana è esattamente al centro della piazza esagonale – non grande, ma nemmeno così piccola –, e sul suo muretto c’è quel gruppo di ragazzetti che parlano animatamente. Andranno al liceo, forse è il loro ultimo anno. Alzi lo sguardo, e vedi quel vecchietto brontolone che rimprovera il bambino che gli ha tagliato la strada, la moglie che a sua volta gli dà un tenero schiaffo sulla spalla – imbronciata, ma non davvero. Segui il pianto del bambino, che ancora non cede alle preghiere della mamma: lei ti sembra stanca, evidentemente il figlio non smette mai di lamentarsi per qualcosa, ma comunque felice. Sulla spalla, tiene una busta con il logo di un – ma certo, il forno! È proprio dietro di lei, la porta ancora socchiusa. E della donna che ti ha colpito, vedi solo lo strascico mentre si allontana. Indossa un tailleur nero, elegante, i capelli bruni e mossi lasciati cadere sulle spalle: non si volta a guardarti, non potrai mai dire che aspetto abbia. Conosci quel posto. Non ricordi perché, né se ci sei mai stato; forse l’hai soltanto visto in un film quel piccolo borgo appena fuori Portsmouth, o ne hai letto in un libro. Non sai come tu ci sia arrivato, lì. È importante? Quando senti la mano calare sulla tua spalla, e sorridi, ti dici che non lo è poi così tanto. Sovrappensiero ti tocchi il collo, e quel lembo di pelle appena dietro l’orecchio, prima di voltarti a guardare di chi sono quelle dita – non che ce ne sia poi così tanto bisogno, per sapere che si tratta di una di quelle persone che senti di poter chiamare compagna. Ma compagna di cosa? Compagna perché? Tutto ciò che ti sovviene, è compagna da quando e compagna da dove: ventiquattro febbraio, Lotus Mirage Resort, Montrose, costa est della Scozia. «siamo…» ti guardi intorno, e finalmente li vedi. Alcuni sono ancora lì dove sei tu, altri si sono già lanciati a perlustrare la zona, altri ancora si sono seduti sulle panchine dietro di voi, a scroccare una sigaretta – o forse qualcosa di più pesante e rilassante: non li giudichi. «a casa?» annuisci. «se abiti qui direi di sì, io sto un po’ più al nord a dire il vero.» | you can come as you are. |