the good doctor

«in che senso ho un tirocinante.»
Kiel alzò il capo dai fascicoli, cercando lo sguardo della Vetiver sull'uscio del suo ufficio. Se sul volto della medimaga leggeva un vago senso di perplessità, negli occhi del responsabile lei ci poteva chiaramente individuare il sentore del panico. «sì beh... li ha assegnati lei...» ma cosa gli dava del lei, se aveva l'età di sua figlia. «la scorsa settimana.» sospirò, passando le dita sulle palpebre chiuse e già provate alle sette del mattino – a sua discolpa, aveva passato la notte seduto a quella stessa scrivania a sistemare scartoffie su scartoffie.
Non si era dimenticato del tutoraggio, a dire il vero: gli era bastata quella breve conversazione con la donna per ricordare di aver fatto egli stesso pressione affinché si affiancasse uno studente nonostante potesse benissimo evitarlo. Era passato dall'essere un semplice guaritore a ricoprire il ruolo di responsabile di reparto in uno schiocco di dita, e sapeva quanto gli sarebbe tornato utile per una propria crescita personale avere a che fare con i (possibili) futuri membri del personale; sentiva gli mancasse qualche cosa, di aver bruciato molte tappe in troppo poco tempo, e di voler recuperare quanto più possibile nel poco tempo che gli era concesso.
Soltanto che, tra un caso clinico, un file di inventario e una tabella oraria, ad un certo punto aveva deciso di mettere in atto gli insegnamenti del buon vecchio Mac e spegnersi; magari anche di riaccendersi, ma con la dovuta calma. «da quanto è qui?» sperava soltanto, a quel punto, di non aver fallito così tanto ed averlo fatto aspettare per troppo tempo. «è arrivato dieci minuti fa.» okay.
Okay.
Poteva farcela.
Prima, però: «ho bisogno di due caffè.» minimo. «forse tre.» appunto.

Invitò il corvonero a chiudersi la porta alle spalle, dopo averlo raccattato lungo il corridoio e condotto nel suo ufficio. Posò uno dei bicchieri colmi di liquido scuro e fumante davanti al sedicenne, portando l'altro con sé dall'altra parte della scrivania; non sapeva se bevesse caffè, ma «ne avrai bisogno,» lo stesso Kiel aveva imparato ad apprezzarne le qualità soltanto da quando aveva iniziato la propria gavetta al San Mungo. «ma sappi che di solito questo è il lavoro dei tirocinanti.» sorrise, ma senza troppa ironia: Dio solo sapeva quante tappe ai distributori automatici avesse dovuto fare, prima di entrare di ruolo. Ciò non significava che avrebbe trattato gli studenti allo stesso modo in cui era stato trattato lui – non ancora, quantomeno; ancora riusciva ad apprezzare appieno le pause caffè con la fronte appoggiata alle macchinette pensando sovrappensiero chi cazzo gliel’avesse fatto fare.
«allora, tipton…» lo guardò negli occhi, incrociando le braccia sulla scrivania. Gli faceva strano parlargli in modo così formale: si erano allenati nella stessa squadra fino ad un paio di anni prima, quando Kiel ancora poteva giocare e Paris ancora non risultava come titolare – ed ora, era persino il capitano. «prima di iniziare, voglio sapere un po’ di cose da te.» prese un foglio di pergamena, ed una penna.
«cosa pensi facciano i guaritori, innanzitutto.» iniziò a scrivere. «perché hai pensato di intraprendere questa strada, e soprattutto perché proprio in questo livello.» apprezzava la scelta, ovviamente – era il suo reparto, non vedeva come potesse essere altrimenti –, ma era ben consapevole non fosse il più semplice. Anzi. «e cosa ti aspetti da questo tirocinio.»
E sì, quella era un’interrogazione: aveva passato fin troppo tempo con Lupe, per non interiorizzare determinati modi di fare e di porsi.