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| | come sempre mando tutto a monte, c'è una piazza di spaccio sul ponte, le bugie c'hanno le gambe corte, e noi siamo arrivati alle cosce
1999 ✧ gryffindor ✧ romano e romanista | so già come è che andrà a finire, me l'ha detto quel chiaroveggente (ivan la scimmia) Se fai finta di niente, faccio finta di niente, sto pensando a una scusa attinente che possa calmare la gente, calmare un agente mercenario | Romolo Antonio Linguini aveva vissuto giorni migliori. Aveva vissuto anche giorni peggiori, ma nessuno voleva mai pensare ai giorni peggiori – di certo non lui, e poco ma sicuro non voleva ripensare agli ultimi mesi (non) vissuti, rintanato a Canosa insieme a tutti i cugini, il più lontano possibile dagli scontri e dal fronte. Oh, perlomeno quell’au distopico in cui per tutto maggio si era combattuta una guerra tra maghi, special e babbani, aveva avuto il suo risvolto positivo: Romolo Linguini non aveva mai vissuto la finale di Budapest, nessun cuore spezzato dopo 150 minuti di partita con l’arbitraggio più scandaloso dai tempi di Byron Moreno, niente lacrime e niente minacce di morte da parte del romanista ai danni di un inglese pezzente che meritava solo di essere radiato (e non promosso, capito federazione infame? mortacci vostri). Siviglia-Roma, nel mondo oblivion, non era mai successa: tutti i campionati erano stati sospesi nel momento stesso in cui un folle megalomane aveva dichiarato guerra al mondo babbano e aveva abolito per sempre lo statuto di segretezza, e persino Lollo Linguini, cieco ad un’unica fede, non aveva osato proferire parola in luce di quanto successo. Addirittura, aveva voluto partecipare agli scontri; fare qualcosa (perché di stare in disparte con le mani in mano non ne voleva sapere) e l’aveva visto negli occhi di Ginevra che la cugina aveva pensato la stessa identica cosa. E invece no. Nonno Lino aveva richiamato tutti a Canosa; e quando dico tutti, intendo tutti – genitori compresi, figliastri, cugini, animali domestici (infatti Romolo si era portato dietro anche Remo, per causa di forze maggiori): chiunque rientrasse nel grande clan Linguini era stato richiamato in patria. Era stata la Quaresima più lunga e sofferente della sua vita, rinchiuso nella villa del nonno insieme a fin troppa gente, a sentire la radio o a guardare telegiornali che trasmettevano sempre le stesse, terribili, notizie; aveva letto degli scontri dentro al Colosseo e un po’ aveva sorriso alla poeticità della cosa – e poi aveva sofferto, quando aveva visto in che condizioni avevano ridotto le città. La sua città. Non si era salvato nulla, nemmeno uno spicchio di mondo dimenticato da Dio Ago Di Barto, in quel cazzo di conflitto. Nulla. Raccogliere pomodori era diventato impensabile, e svaccare a bordo piscina o sulle spiagge di Margherita non era così allettante quando, dall’altra parte del mondo, amici e conoscenti si facevano la guerra a vicenda – e loro erano confinati in Puglia. Maledizione. Non aveva la certezza che partecipando avrebbe risolto le cose, figuriamoci, ma non aveva nemmeno quella che non facendolo avrebbe risolto qualcosa. Quei quaranta giorni (di DAD, tra l’altro, ma mannaggia Formello e tutti gli sbiaditi) erano stati tremendi, invivibili, peggio di Roma a luglio con 42.6° e un’umidità del 56%. O peggio di perdere la Coppa Italia contro suddetti sbiaditi. (No, okay, c’erano poche cose peggiori di quel nefasto 26 maggio di dieci anni prima, ma insomma – forse la giornata che stava vivendo Lollo ci andava molto vicino.) Perché alla fine, dopo un esito che - lo sentiva - avrebbe portato solo altri casini, la guerra era finita. Male, ma era finita. E la vita di sempre aveva ricominciato a scorrere. A Romolo Linguini non poteva fregare una mezza sega di come erano shiftati i tasselli che andavano a comporre la politica mondiale (era sempre stato un po’ distaccato dalla questione, troppo impegnativo stare dietro alla politica) ma si rendeva conto che qualcosa di enorme era successo, e nessuno avrebbe potuto riavvolgere il nastro e riportare le cose a com’erano state. Volevano farlo? Ne valeva la pena? Ma chi se ne frega, siamo onesti: di certo non Lollo. Aveva un sacco di problemi più grandi, tipo: «non hanno mica voluto toglie’ ‘sti cazzo d’esami, Lucré, ma ce pensi. ‘st’infami» un commento de’ core, affidato ad una nota audio mandata alla cugina desaparecida (che in realtà stava al Pepito e alle Hawaii tutte le domeniche, come confermavano le storie su Instagram – gli stabilimenti del lungomare nord di Pescara erano ripartiti a bomba, dopo la guerra, perché nessuno ferma gli abruzzesi) «e quindi me tocca famme promove» o almeno provarci, perché nessuna di quelle merde dei cugini ne voleva sapere di farsi bocciare (di nuovo): “se Giacomino si diploma, ci diplomiamo tutti”. E quindi se Giacomino si buttava a bomba dentro al Tevere, andavano tutti a buttarsi nel Tevere con lui? (Sì.) «e quindi niente, tocca pure a te, bionna.» affectionate, un po’ gli mancava quella stronza ludopatica di Lucrezia, «torna, nun te poi fa boccià proprio tu, sennò poi me ‘ncazz-» Non aveva fatto finire la frase, perché qualcosa lo aveva colpito alle spalle e l’aveva spedito dritto a terra: con le mani impegnate a tenere il cellulare, in una, e una busta di rifornimenti per Gin, l’altra, Lollo cadde di faccia, privo di sensi.
Quando Romolo riaprì gli occhi, ci mise un po’ a mettere a fuoco i dintorni o a capire cosa fosse successo. O dove si trovasse. Ricordava di aver lasciato Hogwarts dirigendosi verso il Bar dello Sport per il turno di lavoro, e… di aver scritto a Crez? Era quasi certo di sì. Istintivamente, allungò una mano verso i pantaloni per recuperare il telefono e controllare se avesse davvero scritto alla piccola delfina mangia-rustelle, e trovò le braccia bloccate. Dietro la schiena. Polsi legati. «ma che cazzo» Aveva fatto la fine di Ginevra e Giacomino? San Crispino, sperava di no; mica se lo meritava, lui. Batté un paio di volte le palpebre, posando lo sguardo su quanti più dettagli possibili nel minor tempo, ma la stanza era troppo buia per vedere qualcosa, o per provare a capire dove fosse. «apprezzo lo sforzo, nemmeno a me andava di dare gli esami,» iniziò, occhi scuri a saettare da una parte all’altra per cercare qualcuno, chiunque, «ma così me pare ‘n’attimino esagerato» ma poi: chi è che aveva motivo per rapirlo? (Un sacco di gente, ma shh) Che male aveva fatto, nella vita sua? Aveva gonfiato de’ botte qualche laziale fascista, ogni tanto, e aveva creato “disordini” e minacciato la quiete pubblica e vandalizzato qualche autobus dell’ATAC già ridotto in pessime condizioni, ma non erano motivazioni sufficienti a tramortirlo e prelevarlo mentre si dirigeva a lavo– oh no. Oh no. «oddio, famo ‘n patto? qualsiasi sia il motivo pe' cui me trovo qua, nun me lascià annà, te prego» perché il pensiero di dover affrontare Ginevra Linguini dopo aver dato buca ad un turno di lavoro lo terrorizzava più di qualsiasi altra cosa. «se me mette le mani addosso, me rimescola pure il DNA» il lei, as in Ginevra Linguini, era implicito, e se il suo assalitore non sapeva di chi stesse parlando, peggio per lui: l’avrebbe scoperto presto. Come già detto: Lollo aveva vissuto giornate migliori. | I give it all my oxygen, so let the flames begin ©
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