nun lo di' a nessuno, tiettelo pe' te.

Romolo Linguini non era ubriaco.
(Sì, cioè, magari un po', ecco, colpa del limoncello corretto di nonna Rosetta)
(ma non così tanto)
(abbastanza.)
(discretamente lercio, avrebbe detto lui)
(MA COMUNQUE!! Non è questo il punto.)
Romolo Linguini era: innamorato.
Era successo per caso, assolutamente senza che potesse prevederlo, ma nel momento stesso in cui era accaduto, l'italiano aveva sentito che fosse per sempre. Un sentimento così forte e grande da bruciare nel petto forse di più dell'unica fede che lo aveva sempre contraddistinto, animato, e portato avanti; un amore più grande di quello per la maglia giallorossa, e così intenso da farlo sentire debole sulle proprie gambe, da annebbiare la vista e ottenebrare i sensi.
Ok, forse quegli ultimi erano davvero i sintomi della sbronza, ma per quanto ne sapeva il romano (e romanista) potevano essere tranquillamente attribuibili all'amore; non lo aveva mai provato prima, mai così forte e di certo mai con tutto quel trasporto, quindi come poteva permettersi di escluderlo a priori?!
Il cuore che batteva nel petto ad un ritmo sconosciuto, più forte e indomabile del suono di mille tamburi che suonavano la carica sul campo di battaglia in curva e incitavano i soldati i giocatori a dare tutto quello che avevano e lottare per la gloria la maglia era qualcosa di strano e inspiegabile per il Linguini, ma non per questo meno gradito.
Inaspettato, certamente, per lui che aveva sempre professato amore incondizionato per la Roma e soltanto la Roma – e va beh, anche per l’altra cosa, ma era un signore e non lo avrebbe detto ad alta voce – ma non vedeva perché non potesse finalmente rivalutare le proprie scelte e, finalmente, accoglierlo dentro di sé come avrebbe fatto chiunque altro.
Era… a dir poco singolare che fosse successo dal nulla, in un momento normale come tanti altri, mentre passava una (meritatissima) serata di riposo in quel del Bar dello Sport (perché se non era Sindrome di Stoccolma quella, cosa? — costretti a riunirsi in quel luogo di perdizione anche quando non erano di turno, e tutto solo per vedersi, ora che la strada di ogni cugino aveva preso una direzione diversa da quella degli altri) e mandava giù un cioccolatino dopo l’altro, nemmeno fossero cerase, e intanto raccontava al poverino di turno perché la Roma andava amata, e mai discussa.
Ecco, era proprio così che si sentiva: in grado di amare senza discussioni quella meravigliosa creatura che, prima di quel giorno, non aveva mai cagato di striscio osservato con la giusta attenzione e con la reverenza che una simile opera d’arte meritava. Era stata una consapevolezza improvvisa, gli era bastato alzare lo sguardo cioccolato in quello dell’ormai oggetto dei suoi sogni, per rendersi conto che oh, ce l’aveva sempre avuto sotto gli occhi il lieto fine, e non se n’era mai accorto.
E okay che non era mai stato il Linguini, o il grifondoro, o l’essere umano più furbo del pianeta, ma come aveva potuto non accorgersi per tutto quel tempo che il movimento in pancia non era brontolio per la fame, ma le proverbiali farfalle nello stomaco?! Come?! Gli sembrava così assurdo aver perso così tanto tempo – tempo che avrebbero potuto benissimo spendere facendo altro!! – che quasi si sentiva un cretino, e disposto a qualsiasi cosa pur di rimediare.
Era uomo, era compito suo rimediare, no?!
Con lo sguardo ormai offuscato dalla pozione nei cioccolatini comprati a quello stand losco — ma figuriamoci se Lollo era stato in grado di fare i giusti collegamenti… dall’amore deferente nei confronti dell’angelo che aveva di fronte, e il cervello spento da all’incirca venticinque anni, l’ex grifondoro non ci pensò due volte prima di prendere le mani della creatura che gli aveva rubato il cuore e (quel poco di) sanità mentale (che gli restava), e stringendole tra le sue, sussurrare «se tu me lo chiedessi, non andrei allo stadio per stare con te» così, de botto e senza un contesto.
Sarebbero state sei ore molto intense.