«"dovresti mangiare qualcosa"» Corrugò le sopracciglia, rimbalzando l'acqua da una parte all'altra della guancia. Sollevò lo sguardo dal piatto per posarlo su un angolo della stanza, trattenendo il fiato in attesa della mossa successiva come il cronometro in una partita di scacchi. Tic-tac. Tic-tac. Tic - «dovresti mangiare qualcosa» Oh, fanculo. Tenne il liquido in bocca ancora un istante, esitando appena, scoccando poi un'occhiata seccata al bordo ricamato della tovaglia. Deglutì tutto insieme, la gola a stringersi credendo di affogare; e dire che avrebbe dovuto saperlo, che non si moriva così. Troppo facile. «questa era prevedibile» annunciò, asciugando la bocca con il dorso della mano, alzando occhi castani verso un punto imprecisato, ma ben definito, del salotto. «"deal."» «deal.» Percepì il sorriso senza vederlo, perché era così che funzionava con Zero; immaginava fosse l'effetto collaterale di convivere con lo stesso fantasma da quasi dieci anni. «pà, puoi dire qualcos'altro?» «"no"» «no» Uno avrebbe potuto ipotizzare che a renderlo così... instabile (non il termine che avrebbe usato lui, bensì quello che aveva letto sulla sua cartella clinica: preferiva stravagante ed eccentrico, avendo voce in capitolo; imprevedibile e carismatico, nelle giornate particolarmente ottimiste) fossero state le sperimentazioni di cui era cavia dalla nascita, (ed avrebbe avuto ragione) ma Deal avrebbe liquidato la questione indicando teatrale quel preciso momento. Una piccola finestra di come le sue giornate si svolgessero da più di metà della sua tragica, assurda, vita - quella consumata tutta, fino al midollo ed il segno dei denti sulle ossa. Poteva sopportare le cicatrici, e le macchie di pelle più chiara a fondersi con la propria. Scambiare un dito o una mano con quella di qualcun altro; prestare la propria voce a chi non l'aveva più, lasciare il proprio posto mentre si perdeva in un Purgatorio o due, passeggiando insieme ai persi ed i dimenticati. Barattava volentieri sogni per ricordi, ritagliandosi uno sgabuzzino mentale per memorie d'altri. Annuiva, concedendo che gli affidassero segreti ingoiando chiavi di centinaia di lucchetti. Perdeva sangue come un rubinetto negletto. Ogni notte sfiorava l'aldilà con polpastrelli delicati e morbidi, concedendo alla scienza ed alla magia ogni battito cardiaco ed ogni pausa, corpo e mente teli bianche e collaborative su cui vergare disegni e parole, e non aveva ancora incontrato il proprio punto di rottura. A onor del vero, non credeva di possederlo. La gomma da masticare necessitava di cinque anni per decomporsi, dopotutto - e lui di gomma era fatto tutto, a rimbalzare da un piano all'altro e cadere sempre nello stesso punto; farsi pressare, e tornare alla sua forma originaria. All'eco, però, tracciava una fottuta linea. Affilò lo sguardo nella vaga direzione di Zero, puntellando la lingua contro l'interno della guancia. Meditabondo, riflessivo; il fatto che Deal fosse un pensatore, non l'aveva mai fermato dal fare scelte di merda, tanto da rendere difficile inquadrarlo come tale e prenderlo sul serio. Parte del suo fascino, immaginava: occhiaie violacee, lo stesso pallore spettrale di un latte macchiato, sigaretta dietro l'orecchio, sguardo assente ad accompagnare un sorriso pigro ma brillante, e capacità decisionale di un condannato a cui fosse stato domandato un ultimo desiderio direttamente sul patibolo. Affrettato, e senza senso. «non fai ridere» Sillabe trascinate tra i denti a stridere come la forchetta sulla ceramica con cui spostò la verdura verso il bordo. Sguardo ancora forzatamente basso, perché forse un po' divertente lo trovava davvero, ma sapeva non fosse né il luogo, né il momento. «solo perché hai un pessimo senso dell'umorismo» Osservò la figura traslucida al margine del suo campo visivo. Ancora incapace, dopo tutti quegli anni, di prendere una forma riconoscibile. I fantasmi erano l'impronta di quel che erano stati, il ricordo che di se avevano lasciato al mondo: quando perdevano ciò che li aveva connessi in primis al piano concreto, diventavano spettri. Sensazioni. Inciampi nella realtà. Ombre di quel che non erano stati - in poche parole, un problema. Poi c'era Zero. Una svista astrale che aveva causato un errore nel sistema, permettendo ad un bambino di rubare il filo reciso dalle Moire per annodarlo al proprio. Stringere. L’aveva trovato, e se l’era tenuto. La prima volta che Deal Bigh era morto, aveva sei anni. Un incidente. Ogni tragedia che si rispettasse ne possedeva almeno una, e non c'era momento migliore dell'inizio di un racconto per piazzare un evento traumatico destinato a cambiare il corso della storia. Certo, non c'era stato giorno in cui Deal fosse stato normale, partendo dal contesto socio-culturale della sua nascita: era il 2031, il cuore del Nuovo Rinascimento, periodo di sognatori e illuministi. A quindici anni dalla guerra di cui nessuno sembrava ricordare i dettagli, si era aperta un'epoca di scoperte scientifiche e magiche che aveva portato a teorie folli, ed esperimenti ancora peggiori. Buffo che gli uomini credessero al concetto di anima solo quando messa in palio per qualcosa di più grande, uh? Firmare per cederla al miglior offerente era stata una pratica comune, e certo non un problema per l'allora ventiquattrenne Mood Bigh. Aveva un disegno, e delle teorie; più idee di quante una vita sola fosse disposta a contenerne, ed allora si era creato più tempo, esasperando la capacità di manipolarlo con sistemi, e grafici. Scorciatoie dalla dubbia morale. Era nato per quello, Deal Bigh: un sogno venuto alla luce dalla parte sbagliata del mondo onirico. Un progetto in beta dai riccioli scuri ed il sorriso al neon di un impostore. Di fatto, una catastrofe di ridotte dimensioni, e portata biblica. (Più romantico del dire fosse un esperimento, numerato e dalla pratica ancora aperta. ) Non era stato creato per essere straordinario, ma era un lavoro che qualcuno doveva pur fare, e Deal si era stretto umilmente nelle spalle, porgendo il cappello ed offrendosi volontario per la causa. Straordinariamente stupido, avrebbe detto qualcuno: anche, forse. Punti di vista. Dall'inizio dei tempi, ogni genio era stato incompreso, e Deal non chiedeva che lo capissero: sapeva di avere senso a giorni alterni, e solo ad occhi socchiusi. Non importava a nessuno, perché la piccola percentuale di popolazione che poteva permettersi di giudicarlo, lo adorava così. Il suo unico difetto, sempre che difetto potesse definirsi, era minimo. Quisquilie. Sorvolabile, davvero. Ci si faceva appena (molto) caso, al fatto che Deal non avesse assolutamente, per nulla, alcun contatto con la realtà, incapace di riconoscere i morti dai vivi, il suo da altri, ed il passato dal presente: un effetto collaterale del non avere una costante temporale, spezzato da salti avanti e indietro e in mezzo; di non essere mai stato solo, con dita spettrali a stringerlo e sussurri ad accompagnare ogni momento di veglia e non. Un insieme di storie in cui era stato protagonista pur non avendole mai vissute. Assentarsi per notti, e giorni, e notti. Rientrare nel proprio corpo solo per trovare cicatrici nuove e già rosate. Che dire? Non era un problema, per lui; trovava confortante, esistere solo in istanti. Era come vivere in un album di fotografie, sfogliato solo quando ne si aveva voglia. Aveva sempre amato l'aria aperta. Da bambino, passava tutto il giorno ai giardinetti a giocare sull'altalena con i suoi coetanei, o a rincorrersi nei boschi vicino a casa. Rideva fino a perdere la voce; correva fino a piegarsi senza fiato. Era un fenomeno in tutti gli sport, dove viaggiava imbattuto sulla strada del trionfo. Importava, ai fini della storia, che chiunque, affacciandosi dalla finestra, avrebbe visto un bambino spingere altalene vuote, e gesticolare animatamente al nulla? Lanciarsi una palla, ancora ed ancora? Sì, perché giustificava (tutto quanto) come fosse finito impiastricciato di sangue fra i rami di una quercia, a respirare rantoli umidi e tutti a metà. Aveva promesso sarebbe tornato subito, ed aveva seguito i suoi amici, tutti morti da un pezzo ed un po' di più, senza considerare che loro avessero capacità che lui, nel suo corpo mortale, non possedeva: così era caduto, sbattendo contro ogni ramo ed ogni roccia. Era rimasto a guardare la luce del sole a filtrare dagli alberi, finché quella stessa luce non aveva fischiato. «cristo santo. che botta» Aveva battuto le ciglia, la vista appannata. Incapace di muoversi abbastanza per pulirsi gli occhi dal liquido scarlatto, figurarsi alzarsi e tornare a casa, ma non sentiva male. Non sentiva niente. «ehi. ehi. aspetta, ok? mh. vado - mh. aspetta e basta?» L'afflusso di adrenalina bastò a fargli scuotere il capo con urgenza, la mano sollevata di pochi centimetri con il palmo aperto al cielo. Un guizzo liquido nello sguardo cioccolato che avrebbe potuto apparire come paura, se fosse stato in grado di provarne. Forse la era, almeno un po', sull'orlo di infrangere l'unica regola che gli fosse mai stata imposta: poteva fare quello che voleva, bastava non morisse. Aveva sei anni, ed i battiti contati. Papà non ne sarebbe stato felice. E non voleva rimanere solo: non era mai stato bravo ad avere solo se stesso. «vuoi che - ma. mi senti?» Provò ad annuire, inutilmente. Sentì la presenza avvicinarsi, studiarlo; il freddo della sua morte a insinuarsi nella propria, misurata, vita. Più soffio, che tocco. Fu questione di attimi, di scelte, di attese e mormorii, di click nel grande ingranaggio dell'universo, e di un cuore a fermarsi per istanti infiniti prima di riprendere la sua corsa - di una richiesta, ed una promessa. Un patto: poteva prendere in prestito il fantasma, se lo portava fuori da lì. Usarlo a tempo limitato, come il periodo di prova da trenta giorni delle offerte premium. Peccato che gli scambi iniqui fossero sempre stati la sua specialità. C'erano cose peggiori di un patto con il diavolo - ad esempio, farne uno con lui. Che ne sapeva, il defunto; perfino Deal era troppo giovane per riconoscerlo. Così il bambino si fece piccolo, facendo posto dentro di sé all'ingombrante presenza dello spirito, e si sentì subito meglio: le ossa rotte saldate, le ferite chiuse. Abbastanza da trascinare entrambi fuori dai boschi - chi c'era rimasto bloccato, e chi non avrebbe dovuto poterne uscire - e collassare sullo zerbino di casa. La prima seconda opportunità di Deal Bigh, e la seconda prima opportunità del non-completamente-morto. A conseguente interrogatorio, pressante e incuriosito, del bambino, aveva ammesso di non ricordare il proprio nome - l'aveva chiamato Zero, come il cane di The Nightmare Before Christmas ed il drago emo di TJ Klune, perché chiamarlo Dory, visti i problemi di memoria, era sembrato un po' troppo ironico alla player, ptsd and all aveva sempre voluto un animale da compagnia- o perché fosse rimasto confinato nei boschi - inventavano una storia nuova ogni tre mesi, finendo quasi per crederci - o quale forma avesse avuto. Umana, considerando possedesse ancora la magia della Guarigione, ma non abbastanza da acquisire concretezza agli occhi del medium. Un bambino? Un vecchio? Un uomo nel fiore dei suoi anni? Un’adolescente impigrito dalle comodità del nuovo millennio? ABBADON? Aveva deciso per entrambi dovesse essere il suo angelo custode, e l'aveva tessuto nella propria orbita cucendolo con lo stesso ago e filo che suo padre aveva usato con lui: facendosi amare, la moneta più meschina di tutte. Non era difficile lo facessero, quando erano già morti; con i vivi, la questione risultava più complessa. La sua incapacità di rapportarsi con i sacchi d’ossa, era stato uno dei motivi per cui non aveva frequentato Hogwarts, insieme al fatto che il programma del castello fosse troppo banale per i suoi studi forzatamente avanzati. A otto anni, poteva già affrontare discussioni sistemiche sulla filosofia e la storia, la magia e la politica; gli adulti lo trovavano scomodo, ed i bambini, in sua presenza, non potevano fare a meno di sentirsi a disagio. Non faceva parte di quel mondo, Deal – ma che se ne faceva, quando ne aveva altri migliaia per sé. E poi sognava l’universo, il Bigh. Non aveva archiviato il sogno di diventare astronauta, malgrado il cuore collassasse ogni notte necessitando di un’altra scossa – un altro salto, un altro segreto. Dipendente da tutto ciò che l’aveva reso mostruoso, se non un mostro. Sentendosi punto dallo sguardo attento di suo padre, alzò infine gli occhi di fronte a sé, permettendo alle labbra di curvarsi in un sorriso sincero e languido. «vi adoro entrambi» scandì, caso mai fosse esistito un mondo in cui avessero potuto pensare il contrario. Non c’erano mai stati alti e bassi, o momenti di dubbio, per Deal: sapeva di amarli sempre, al loro male e nel loro peggio. Zero era stato tante cose, per lui: un amico, un confidente, una coscienza, un compagno di (dis)avventure, un fratello, un baby sitter, una pessima influenza, un - («sei nella mia testa?» bisbigliato, per timore d’infrangere l’equilibrio instabile di quel momento rubato all’alcool. Una pausa lunga. Suonò come una supplica, il «qualche volta» di Zero. Un’altra parentesi fatta solo di respiri, ed un singhiozzo stretto fra i denti. Di norma non provava paura, Deal Bigh, ma la provò in quell’unica domanda. L’orlo del baratro su cui danzava da tutta la vita. Esitò. Chiuse gli occhi. «sei -» «non chiedermelo») - genitore, e nei suoi momenti più bassi, un nonno, e lo zio inopportuno che non veniva mai invitato alle feste perché noioso e tutti lo odiavano. Una convivenza forzata, certo, ma non una a cui fosse disposto a rinunciare: era certo fosse l'unica cosa a tenerlo ancorato al mondo terreno, impedendogli di perdersi. Il posto dove tornare sempre, senza filtri o spiegazioni. Erano cresciuti insieme; aveva passato più tempo con il fantasma, che con chiunque altro. Suo padre? L'aveva usato, e continuava a farlo. L'aveva creato per studiarlo, e manipolarlo. L'aveva tagliato, e spezzato, e rimontato con la cura che solo amare qualcosa portava con sé. L'aveva addestrato, e quasi ucciso; l'aveva cresciuto, e marchiato con metallo e fuoco. Gli aveva letto storie per farlo addormentare, favole e poemi epici in lingue sconosciute; aveva mantenuto ogni promessa, perfino le peggiori, e l'aveva fatto ballare sulla punta dei propri piedi, sollevandolo fino a fargli toccare il soffitto con un dito. Non era mai stato gratuitamente crudele, con lui, e Deal l'aveva amato sempre, senza riserve. La vita (vita?) in provetta a cui era stato costretto, era l'unica che conoscesse - l'unica che volesse. E sapeva, con la certezza infallibile di un calcolo matematico, di essere ricambiato con la stessa intensità. Non l'aveva mai dubitato, Deal. Ne aveva la conferma ogni giorno, quando - («sei -» «non chiedermelo»
me? Cercava di non pensarci, Deal. Ignorava la questione riempiendosi la testa d'altre domande, soffocando la ragione con problemi facilmente risolvibili ed alcool. Droghe. Poesie. Gonfiava la bocca di sorrisi, perché non voleva sapere se Zero fosse una sua invenzione. Un troppo cresciuto amico immaginario. La parte ancora integra di una psiche sgretolata. Il bisogno più umano di tutti di sentirsi parte di qualcosa. Non l'aveva chiesto, quindi. E sapeva che non fosse l'unico a domandarselo. Che suo padre, seguendo le sue orme, fosse giunto alla stessa conclusione; glielo lasciasse credere, perché sapeva ne avesse bisogno. Lui, che gli aveva insegnato ad essere tangibile e cercare sempre un motivo, una ragione, un senso, gli permetteva di non metterlo in discussione, se lo rendeva felice; se lo faceva sentire intero.) - lo guardava, perché Mood Bigh era un bugiardo, ma lo era mai stato con lui. Negli standard comuni, sarebbe stato definito un amore tossico, certo - malato e narcisista, manipolatore, con tendenze psicopatiche ed una conseguente sindrome di Stoccolma della vittima. Magari (magari?) era anche vero. Non lo rendeva meno reale, comunque. O meno offensivo, per entrambi. «per quanto tutto questo sia di intrattenimento - poco, se te lo stessi domandando - dovresti davvero mangiare» Ah, il vecchio tono genitoriale ed accondiscendente che faceva scattare l'istintiva molla di qualunque adolescente di fare il contrario, per principio. Si accartocciò tutto, Deal, perché per quanto magnifico ed unico fosse, aveva pur sempre diciassette anni, ed a nessun diciassettenne piaceva sentirsi dire cosa fare - soprattutto, quando era per il proprio bene. «cosa sei, mia madre?» borbottò a suo padre, sguardo abbassato sulla verdura nel piatto. Non gli piaceva mangiare, fategli causa. Viveva in uno stato perenne di debolezza - e grazie tante, fra torture e mantenere vivo qualunque fantasma nel giro di cinquanta metri, nonché l'uso assolutamente superfluo di Jack. Jack era il suo Infero preferito, e la divisa da maggiordomo gli stava a pennello, quindi non considerava uno spreco delle proprie risorse: ripagava in salute mentale - fasciato in felpe perfino nelle stagioni più calde. Tirava avanti (per inerzia) con bevande energetiche, patatine in busta, sostanze stupefacenti, e qualche flebo forzata. Budini! E budini, la sua pietanza preferita in assoluto: masticare richiedeva un impegno che Deal Bigh non era disposto ad offrire per qualcosa di così banale come il benessere fisico. Manco fosse stato un insegnante di yoga, o un gymbro come Lele. Non gli rispose anche, malgrado sarebbe stato vero: padre, madre, carceriere e banca. Tutta la famiglia che avesse, e l'unica che volesse. Leggenda narrava che un tempo avesse avuto dei fratelli, ma erano cose che Deal sapeva solo per sentito dire. Era un po' come sperare segretamente di avere zii ricchi in america che gli lasciassero l'eredità. Suo padre accennó appena un sorriso, indicandolo vago con la forchetta. «donna deliziosa» Sapeva fosse vero, perché non gli avrebbe mai mentito; sapeva anche fosse un commento preoccupante, considerando fosse rinchiusa in un ospedale psichiatrico da sedici anni. Sospettava il perché, ma preferiva tenersi le sue teorie, rispetto alla verità - perlomeno sulle cose importanti. Se glielo avesse chiesto, glielo avrebbe raccontato. Era un genere di libertà opprimente, sapere di avere sempre e solo risposte sincere; dava un senso tutto diverso ai silenzi, o alle domande appese sulla punta della lingua. Ogni anno, per il suo compleanno, aveva in regalo un desiderio. Quand'era piccolo, appendendo le stelle sulle pareti della sua stanza - «sembra decorata da un cieco.» aveva commentato Zero, non senza una punta di ammirazione: rifletteva il suo proprietario, caotica ed intensa, se le lava lamp, la lapide contro il muro, le cucce dei cani dove si appallottolava da bambino, e le costellazioni fosforescenti, ne potevano essere un esempio - suo padre gli aveva insegnato a non esprimerne sulle stelle cadenti: erano solo macerie, scintille; trucchi di prestigio di qualcosa già morto. Allora quando, aveva chiesto, perché voleva qualcosa di raro e prezioso quanto il fenomeno atmosferico; non era da Bigh credere nei desideri, ma Mood glielo aveva concesso comunque. Uno, speciale, all'anno. Per i suoi tredici anni, Deal gli aveva chiesto una bugia. Una sola. L'aveva guardato da sotto fitte ciglia scure, drizzando le spalle per apparire più stabile, e concreto. Meno a rischio sismico. Smetteresti? Per me. Smetteresti? Gli aveva chiesto di sceglierlo, ciondolando sul posto con braccia troppo lunghe e sottili a portare i segni di tutto quanto, prova e conseguenza di quel che aveva fatto. L'esitazione gli era bastata per sapere che anche quell'anno, papà avrebbe esaudito il suo desiderio. Gli aveva stretto le guance magre fra i palmi, guardandolo con qualcosa di vivo, e in movimento. Una muta richiesta a comprendere l'incomprensibile, l'unica cosa al mondo che non fosse spiegata nei libri, e che non potesse insegnargli. L'ingiustizia. Il mondo non era un posto corretto. In un'altra vita, Deal non Bigh avrebbe potuto avere tutto; in quella aveva avanzi, e se ne riempiva come un banchetto. Sei la persona più incredibile che conosca, gli aveva detto, ed aveva cercato i suoi occhi; aveva posato le labbra sulla sua fronte, imprimendo un ironico bacio da Giuda, soffiando su ferite sempre aperte. Certo che lo farei. E sapete che c'era? Che Deal l'aveva amato uguale, perché non gli avevano insegnato a fare altro. Non esisteva una seconda opzione. Allora aveva sorriso, decidendo che potesse accettare il secondo posto, visto che con la Scoperta non c'era competizione: tanto l'oro era pacchiano, e l'argento gli stava meglio. In altre parole, showbiz. Era già il preferito di Zero («lo sei?»), poteva farselo bastare. «sai che quando svieni, sparisce anche lui» Seguì la traiettoria dell'indice, aspirando affascinato l'aria fra i denti nel posare lo sguardo sulla chiazza luminosa di Zero. Come faceva a sapere fosse lì? Essere genitori offriva davvero dei super poteri bonus. Il fatto che il blob luminescente sembrasse annuire, lo faceva alquanto alterare: capitava davvero, davvero di rado, che fossero d'accordo su qualcosa. Zero odiava suo padre, anche se non aveva mai elaborato il perché ( Difficile guardare Deal, e dirgli che la sua vita fosse tutta una cazzo di farsa, e fosse tutta una follia, e non lo vedi Deal? Non sei tu il mostro, come potresti essere tu) il che lo metteva di base all'angolo opposto rispetto a quanto dicesse l'altro. Andava da sé che così fossero spiegate molte delle scelte stupide di Deal, visto che tendeva a seguire i consigli di un morto piuttosto che i saggi moniti del padre. Se concordavano su qualcosa, era inevitabile. Sospirò comunque, drammatico, nell'affondare i denti negli spinaci. Una manipolazione molto blanda, quella lì - ma sempre funzionale, perché per quanto fosse disposto a sacrificare se stesso, non avrebbe sacrificato Zero. Era la cosa più umana che avesse. Perso lui, cosa gli rimaneva? «non sei più il mio migliore amico» biascicò, fra una forchettata e l'altra, con un pollice inverso al fantasma. Lo sbuffo lo sentì più concreto di tutto il resto. «migliore? ma se sono l'unico.» Tempo di trovarne altri.
«ma quanto cazzo hai scritto?» Le dimensioni – spazio temporali, ma sapete cosa? Anche fisiche, e morali - non erano nulla per Deal, figurarsi qualche quarta parete in calcestruzzo. Alzò il viso al cielo, le mani in tasca mentre continuava a pedalare per strade che non conosceva, di una città del tutto estranea. «eh,» eh «sai cosa succede quando vengo lasciato senza supervisione» un intero account pinterest nuovo, due playlist senza copertina, ed un figlio triste con un passato travagliato e tendenze psicotiche, nonché un intero arco opposto alla redenzione per la progenie della generazione precedente. Accelerò l’andatura, allargando le braccia per mantenere l’equilibrio mentre sfrecciava per le vie desolate di Londra. Non c’era neanche un’anima, e se a dirlo era un medium, la questione si faceva di un certo spessore. Per carità, sarebbe riuscito comunque a fare qualcosa che non avrebbe dovuto fare, spontaneo nel creare situazioni e renderle problematiche, ma senza un pubblico perdeva parte del proprio fascino. Afferrò la collana con appeso l’orologio – l’unico che segnasse il suo corretto scorrere del tempo, diverso dagli altri – guardando ed ignorando quante poche ore avesse ancora a disposizione. Quando poteva, passava tutto il proprio tempo all’esterno, sotto sole, pioggia o stelle. Ahimè, aveva un coprifuoco che era costretto a rispettare come se la sua vita ne dipendesse, considerando che, effettivamente, la sua vita ne dipendesse. Superò un paio di persone. Tre. Cinque. Allungò pigro un braccio per assicurarsi che fossero vere, non fantasmi né allucinazioni, e quando ne travolse uno spingendolo a terra, aspirò sorpreso l’aria fra i denti. «colpa mia, pensavo fossi morto» gridò, senza fermarsi a prestare soccorso né guardarlo, osservando incuriosito quella che si risolse essere una fila. Sembravano delle formiche. Reclinò il capo sulla spalla, senza mai rallentare. Era musica? «non -» Troppo tardi, ma apprezzava il tentativo. Sapeva che esistessero metodi più efficaci per frenare – tolto il più ovvio e scontato, mh, fottutamente frenare, aveva studiato sia meccanica che fisica, entrambi utili nelle situazioni di emergenza – ma era un creativo, ed un’artista. Se qualcuno si fosse chiesto perché mai qualcuno in bicicletta, nella scarsamente abitata periferia di Londra, portasse un casco - ed uno integrale, perché una fedele rappresentazione di quello di Neil Armstrong; si, aveva il casco da astronauta. - ne avrebbe avuto la risposta: era ancora in accelerazione, quando si buttò a terra, rotolando per diversi metri sul cemento, e lasciando la bici a schiantarsi da qualche parte di fronte a lui. Tanto mica era sua. Abbassò lo sguardo sui vestiti strappati e impolverati, il sangue a macchiare il tessuto all’altezza di gomiti e ginocchia. «cazzi tuoi» «chi ti ha chiesto niente» Passò le dita sulle spalle, togliendo distratto qualche filo d’erba. Si tolse il casco, lanciandolo all’indietro senza guardare – non aveva bisogno di farlo, per sapere che Sally, l’infero che l’aveva seguito correndo per tutta Londra, l’avrebbe preso al volo. Voleva crederlo un atto di fede, malgrado sapesse di essere lui a controllarne i movimenti. Un principio di vertigini. Scompigliò i ricci stringendosi nelle spalle, guardando curioso il cancello della villa. Non lo sfiorò l’idea che potesse non essere invitato, e non fosse presenza gradita: nella peggiore delle ipotesi, l’avrebbero allontanato, ed avrebbe trovato un altro modo per entrare. Di principio, non perché gli importasse. Si chinò su un cespuglio all’entrata, strappando un paio di rose direttamente dal ramo. Se gli graffiarono il palmo, Deal sembrò non farci caso. Prevedibile che fosse stato educato ad inserirsi nella società, ed altrettanto immaginabile che il Bigh, quelle regole, le avesse personalizzate ai suoi modi, tipo presentarsi ad una festa qualsiasi sfasciato e spiegazzato, ma con un regalo per il padrone di casa. Trovava alquanto scorretto che il genere umano regalasse fiori solo ai morti. «ma cos’è» «una festa» «IL MIO PRATO!!! IL MIO?!?! PRATO!!!!!» Seguì con lo sguardo un tizio, basso e spesso, che inseguiva ragazzini passando loro attraverso, agitando nervoso delle cesoie traslucide. «nostro?» «nostro» E chissà quanti altri morti, erano mescolati ai vivi. Deal era: affascinato. «ohi, cazzoni, non dimenticate il cocktail di benvenuto» Cocktail di benvenuto, mimò, a nessuno in particolare, arricciando il naso in un sorriso nel guardare dove avrebbe dovuto prendere suddetto cocktail. Ma cos’era quella poverata. Non poteva che esserne euforico. Attese ancora qualche secondo, mentre i ragazzini – avvoltoi, in ogni mondo e vita: sara ptsd del panettone aperto a Natale al cnos, e sparito in un battito di ciglia fra le mani affilate dei gen z – si fiondavano sulla tavolata, prima di avvicinarsi a biondino uno, e biondino due. Li guardò senza dire nulla per un paio d’istanti, divertito da nulla in particolare, facendo rimbalzare occhi scuri dall’uno all’altro. «devi dire qualcosa.» «lo so» «sembri un maniaco» «sto pensando» Schioccò la lingua sul palato, sorridendo pigro ad entrambi come se non avesse appena avuto una conversazione da solo, ad alta voce. Si piegò in un inchino, offrendo una rosa con l’impronta del suo sangue a ciascuno dei due, come fosse la cosa più normale del mondo. «a buon rendere.» Dita alla fronte in congedo, con tanto di liquido scarlatto a scivolare lungo il braccio, ed una riverenza da parte di Sally ad ambedue. Si allontanò, fermandosi in un’altra pausa riflessiva di fronte al, mh, punch, prima di distrarsi ad osservare le finestre buie della villa. «andiamo a recuperare qualcosa di potabile?» Parlava al fantasma, ma se un essere vivente avesse voluto unirsi al furto di super alcolici dalla casa, meglio. | I'm a warning sign Run, run, run, run, run, run Run for your life, I lose control of my mind, something they don't teach ya And I become a creature | |