if you punch your bro is it platonic bdsm?

cj ft. sandy

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    sunday de thirteenth
    25.12.2000
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    Trattenne per qualche istante di troppo la pallina da tennis tra le dita, sentendola diventare sempre più pesante davanti ai propri occhi. Solo quando la gravità vinse contro la forza del polso, e la piccola sfera gialla rischiò di cadergli in faccia, gli diede una spinta lanciandola contro il soffitto. Non lo raggiunse, ed il De Thirteenth la riprese al volo.
    Ancora.
    E ancora.
    E ancora, un'altra volta.
    Se il Linguini fosse entrato nella stanza del metamorfo – perché avrebbe dovuto?, beh... perché era un Romolo: ci conviveva da pochi giorni, ma già aveva iniziato a capire come funzionasse; non che la cosa lo disturbasse, ad ogni modo – un'ora prima, il giorno precedente o quelli più addietro, e in quel momento, non avrebbe trovato molte differenze. Sandy sarebbe stato sempre lì: sdraiato sul letto con una mano dietro la nuca, gli airpods nelle orecchie e una palla come passatempo. Quel che cambiava era la musica a tutto volume che gli veniva sparata direttamente dentro al cervello, o la lunghezza della canna stretta tra i denti che, purtroppo, non era immune all'infame scorrere del tempo.
    O la faccia con cui gli avrebbe sorriso tiepido, chiedendogli se volesse farsi un tiro o se avesse bisogno di qualcosa. Assurdamente, non per prendersi gioco di lui né di nessun altro; tantomeno perché non sentiva di riuscire a governare il proprio potere.
    Ciò su cui aveva perso il controllo, probabilmente, era sé stesso.
    Ogni mattina Sunday si svegliava, si preparava per andare al San Mungo, controllava che Lollo non avesse distrutto l'appartamento che condividevano durante la notte, e accettava il fatto di dover rimodellare il proprio aspetto davanti ad uno specchio che non sempre gli mostrava quello che aveva lasciato la sera prima, o che si aspettava di trovare. Si vestiva del viso con cui si era presentato al colloquio la prima volta, quello con cui avevano iniziato a conoscerlo a lavoro e con cui avevano preso confidenza i pazienti, come fosse una maschera: era stato sicuro che fosse il suo, quello vero, fino alla fine dell'estate; aveva già perso molte certezze nell'ultimo anno (più di quante avesse facoltà di dire), ma la festa hawaiana alla quale nemmeno voleva partecipare aveva dato il colpo di grazia – così il suo cervello aveva fatto fold e scelto il caos, o aveva inconsciamente deciso di lasciare le redini e smettere di trattenersi. Non avrebbe saputo dirlo, e nemmeno gli interessava più di tanto: aveva molti altri problemi a tenerlo inchiodato sul materasso, e salutare una persona diversa ogni mattina allo specchio era l'ultimo tra questi.
    Le notifiche ad abbassare il volume di Orville Peck che gli cantava del tentativo di sfuggire all'inevitabile destino che ci accompagna, invece, rientravano tra le cose che lo turbavano. Per un po' ignorò quell'ultima che aveva fatto vibrare il telefono sul comodino, alzandosi a sedere con l'unico intento di non farsi cadere la cenere addosso. Un atteggiamento che andava contro tutti i suoi principi: Sandy era esattamente quel tipo di persona che, se fosse stato possibile, avrebbe risposto ai messaggi prima ancora che potessero arrivargli, incapace di aspettare e di far aspettare. Ma non aveva voglia.
    Non aveva voglia di dire ai colleghi del San Mungo sui gruppi, che proponevano uscite o cazzate del genere, quanto poco gliene sbattesse di uscire di casa.
    Non aveva voglia di spiegare alle conoscenze fatte in quei mesi in America dove fosse finito, cosa gli fosse successo – perché tanto non avrebbero capito, e perché tanto non gli importava che lo facessero: non erano i suoi amici.
    Non aveva voglia di rispondere alle sue sorelle, qualsiasi cosa avessero da dirgli: le amava, ma non poteva negare che qualcosa, per lui, a quel punto fosse diverso.
    Soffiò il fumo verso il pavimento, palpebre pesanti e sguardo puntato verso il cellulare. C'era qualcosa –
    un braccio attorno alle spalle
    un buco nel petto
    le nocche sporche di sangue
    quel pizzico agli angoli degli occhi

    – qualcosa che lo spinse ad allungare la mano e a leggere il messaggio prima che avesse modo di ribellarsi al proprio corpo. Qualcosa che gli diceva fosse la cosa giusta da fare.
    L'unica che avesse importanza.

    Una sigaretta dietro l'orecchio, una mano affondata nella tasca della felpa e l'altra a tenere una busta, il De Thirteenth rimase qualche minuto ad osservare la Stamberga Strillante in lontananza – poco più vicino alla struttura rispetto a dove si era fatto lasciare dal suo taxi personale (Lollo) –, un angolo delle labbra sollevato involontariamente.
    Un sorriso acido, dal sapore di esperienze che avevano trapanato nel petto per restarci incastonate, e che poi erano state estratte lasciando solo un vuoto doloroso.
    E guardò il ragazzo sulla soglia della casa marcescente con lo stesso, innominabile, sentimento; e si chiese, per tutto il tempo che era rimasto lì impalato come un lampione, se davvero fosse l'unica cosa giusta da fare.
    Per sé, per l'altro.
    Ma era l'unica cosa che sentisse di voler fare.
    «è qui la festa?» il canto delle cicale in sottofondo suggerivano di sì. Deglutì. Inspirò più forte, a denti stretti e narici spalancate, perché porca puttana il petto non si allargava e faceva tutto più male di quanto riuscisse a comprendere, ma sorrise. «questa viene direttamente da novi lugubre,» tirò fuori dalla busta la bottiglia di vodka dal dubbio aspetto ed etichetta (le sue cose preferite, a dirla tutta), un po' per liberare le mani dall'impaccio e un po' per tenersi occupato. «dicono sia terribile.»
    Non era davvero una festa, né gli aveva detto di portare qualcosa da bere: sinceramente, non sapeva se l'aveva presa perché sentiva ne avrebbe avuto bisogno, o per altro.
    Senza dubbio, avrebbe fatto il suo dovere.
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    rebel2043: ramsespsychowizfreak?

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