if you punch your bro is it platonic bdsm?

cj ft. sandy

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    cj knowles
    11.09.2000
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    La scelta più saggia, sarebbe stata non tornare a Londra. Rimanere all’estero, cittadino del mondo e di nessun paese. Offrire la propria spada ai nuclei ribelli degli altri stati, un ginocchio al suolo e l’altro già nei denti del primo rompi coglioni. Non lasciare che alcun filo lo tenesse legato a terra, così da poter fingere che quella guerra, seppur non vinta, non fosse stata neanche persa. Mandare una cartolina ai suoi amici, ogni tanto. Il necessario perché il tempo potesse levigarne la memoria e far sì che si dimenticassero di lui. Dire a Sersha Kavinsky di non aspettarlo, perché in patria sarebbe tornato solo il suo feretro.
    L’aveva già fatto. Un altro tempo, un’altra vita, ma l’aveva già fatto, convinto di poter salvare il mondo un grumo di sangue sputato alla volta, perdendo anima per strada come un rubinetto difettoso. Ci aveva pensato. Quando la voce s’era diffusa che fosse tardi, sempre cazzo di tardi, ed il Knowles aveva sentito crollare quella traballante, figlia di puttana, speranza che l’aveva tenuto in piedi sino a quel momento, ci aveva pensato.
    Sersha e Barry a celebrare la vittoria. Joey a guardare il cielo, chiedendosi cosa sarebbe cambiato a lui. BJ a stringersi i palmi sulla bocca sopprimendo un grido che Dio, buon Dio, CJ sapeva neanche meritasse di pensare, figurarsi soffocarlo con i denti sulla carne. E Sandy. Dove cazzo era, Sunday, mentre il mondo del Knowles gli scivolava ancora sotto le suole, deridendolo per aver creduto nella fottuta forza di gravità. Aveva battuto ritirata svuotandosi ad ogni passo come un sacchetto bucato, alimentato da pura e contaminata rabbia affilata. Chirurgica. La fortuna poteva permettersi il lusso di essere cieca; l’ira, quella più costante e compagna di ogni sorriso, di occhi aveva bisogno di aprirne tre. Pulsava come un secondo cuore, e scorreva nelle vene infettando tessuti e muscoli. Non sapeva cosa sarebbe rimasto di lui, quando tutte le cellule del suo corpo fossero state sostituite. Dall’ennesima cenere, l’ennesima fenice bastarda con un difetto di fabbrica.
    Era stato un soldato prima del fronte, perché di guerra ci era nato e vissuto. Aveva imbracciato le armi quand’erano state più grandi di lui, e pagato il prezzo di una vita puttana su ogni osso rotto e rimontato. Ne portava i segni sulla pelle e nei sorrisi malati, l’ex Tassorosso. Nei fendenti occhi verdi posati con ironia sull’ennesima stronzata. La scelta più saggia sarebbe stata non tornare a Londra, ma CJ Knowles era un sentimentale del cazzo a cui piacesse torturarsi testando fortuna ed azzardo. Guidato dall’unico filo conduttore che dalla sua nascita non s’era mai spezzato: principi.
    Christopher Jeez Knowles, era una fottuta questione di principio.
    Più lo schiacciavano a terra, più ferocemente strizzava le dita attorno alle caviglie. Più lo tenevano sott’acqua, più violentemente rideva, e rideva e rideva, ingoiando acqua e sputando veleno; il contrario, quando capitava l’occasione. Di rado, ma capitava. Sarebbe tornato a Londra, perché aveva fatto una promessa. Cristo, se quel cazzo di mondo l’avrebbe bruciato. Fosse stata l’ultima cosa che avrebbe fatto, prima di portare le dita alle fronte e salutare la mortalità, l’avrebbe raso al suolo, così che qualcun altro potesse ricominciare. Schiudere l’uovo di un’altra fenice bastarda dal difetto di fabbrica. Sarebbe tornato a Londra, perché se lo meritava, e lo doveva ad un mondo che avrebbe persistito a non cambiare se non avesse fatto qualcosa; lo doveva a Sersha, ed ai freaks, di tornare. E di combattere. Che loro lo volessero o meno.
    Era rimasto fuori dalle porte del Ministero abbastanza a lungo da convincersi che riprendere il proprio tesserino fosse un’idea del cazzo, e che se ci avesse rimesso piede, l’avrebbe fatto impregnato di cherosene come il primo tronco di un falò. Un vero peccato che CJ ascoltasse il proprio istinto, ma non i consigli o bisogni; andando contro il proprio credo, e buttando benzina sulla sempiterna fiamma della sua furia, un altro passo l’aveva fatto comunque, ed un terzo ed un quarto, chinando il capo allo sguardo inquisitorio di Akelei Beaumont – capo del suo dipartimento, madre dei suoi migliori amici e della sua eccezione - con un sorriso sbilenco e terribile.
    Odiava tutto. Odiava cazzo tutto.
    Ed aveva odiato l’espressione di Friday De Thirteenth, più pallida di quanto la ricordasse, quando l’aveva fermato per i corridoi dicendogli cose come Sandy è con noi e qualcosa non va, ha perso la memoria e devo chiedervi di dargli tempo, elaborando come i ricordi di un individuo fossero elementi fragili, costituissero la sua persona, e senza quelli, la psiche fosse un muro vulnerabile che non avrebbe rispettato i canoni di sicurezza per il rischio sismico. A CJ, l’aveva detto; lui, che c’aveva anche il cappotto termico e rischiava di soffocare in ogni stanza. Aveva provato a non prenderla sul personale. A giudicare dallo sguardo smeraldo dell’obliviante, doveva aver fallito, ed alla grande. La sua specialità.
    CJ le aveva detto, «ok»
    Quand’era uscito dal Ministero, aveva aspettato che Joe King finisse il suo turno al San Mungo, ed il suo saluto era stato un palmo contro il petto ed una sigaretta spenta nell’incavo del collo. «non me ne fotte un cazzo di chi cazzo sei. giuro su dio che se è colpa tua, ti ammazzo» se fosse stato più crudele, gli avrebbe detto che ad ammazzarlo sarebbero stati i suoi fratelli, perché lui per loro era un nessuno, e Sandy famiglia. Se non l’avesse amato, un tempo. Un legame che sentiva ormai contaminato, inquinato da false memorie marchiate sulla pelle come cicatrici infette. Voleva credere che Ronan fosse stato migliore di così; poi si ricordava che l’Hamilton fosse stato peggio, e tutto andava al proprio fottuto posto.
    Il suo omonimo, in luce del loro essere puttane, gli aveva lasciato in eredità solo malattie veneree.
    Il tempo non era il punto forte della sua famiglia, ma CJ, come da gentile richiesta, a Sandy l’aveva concesso lo stesso - per un po’ - complice la rabbia che in primo luogo l’aveva fatto allontanare dal De Thirteenth. Non sapeva cosa farsene di quelle parentesi un tempo spese a farsi riempire le orecchie dal fiume di parole dell’americano. Era passato più volte di fronte all’appartamento delle gemelle, dilettandosi con l’idea di forzare la serratura ed entrare. Ricominciare da dove CJ e Sandy avevano iniziato molti, molti anni prima.
    Non l’aveva fatto. Il discorso “Sunday” era tornato ad essere tabù come quand’era in America, venato appena dal fatto che fosse obbligata, e che nessuno dei freaks si trovasse a proprio agio con le regole. Erano nate per infrangerle. Non a quel prezzo, che era quanto bastava a contenerli. La maggior parte del tempo, almeno.
    Era il giorno del suo compleanno. Non quello che celebrava, inconsciamente, ogni ventun Luglio da ventidue anni a quella parte – no, quello era più intimo e privato, un segreto spezzato al centro – ma quello segnato sulla carta d’identità, e testimoniava che contro ogni pronostico, fosse arrivato a compiere ventitrè anni. Quello in cui, come di consueto, spariva dalla circolazione, introvabile da amici e nemici in egual maniera. Non aveva più CJ da battezzare sul muro dei CJ dove per una vita aveva scritto decine di cognomi e storie, dando a quel che era stato un degno funerale con l’unica compagnia dei suoi cani, ma si prendeva comunque quel giorno di libertà per esistere e basta. O non farlo, e basta. La differenza, risultava più sottile ogni anno. Era il giorno del suo compleanno ed aveva rotto il silenzio per primo, uscendo dalla propria routine nel prendere il telefono, digitare un breve messaggio al De Thirteenth con il luogo d’incontro, ed aspettare alla marcescente entrata della Stamberga che Sandy arrivasse. Lo faceva sempre.
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    sunday de thirteenth
    25.12.2000
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    Trattenne per qualche istante di troppo la pallina da tennis tra le dita, sentendola diventare sempre più pesante davanti ai propri occhi. Solo quando la gravità vinse contro la forza del polso, e la piccola sfera gialla rischiò di cadergli in faccia, gli diede una spinta lanciandola contro il soffitto. Non lo raggiunse, ed il De Thirteenth la riprese al volo.
    Ancora.
    E ancora.
    E ancora, un'altra volta.
    Se il Linguini fosse entrato nella stanza del metamorfo – perché avrebbe dovuto?, beh... perché era un Romolo: ci conviveva da pochi giorni, ma già aveva iniziato a capire come funzionasse; non che la cosa lo disturbasse, ad ogni modo – un'ora prima, il giorno precedente o quelli più addietro, e in quel momento, non avrebbe trovato molte differenze. Sandy sarebbe stato sempre lì: sdraiato sul letto con una mano dietro la nuca, gli airpods nelle orecchie e una palla come passatempo. Quel che cambiava era la musica a tutto volume che gli veniva sparata direttamente dentro al cervello, o la lunghezza della canna stretta tra i denti che, purtroppo, non era immune all'infame scorrere del tempo.
    O la faccia con cui gli avrebbe sorriso tiepido, chiedendogli se volesse farsi un tiro o se avesse bisogno di qualcosa. Assurdamente, non per prendersi gioco di lui né di nessun altro; tantomeno perché non sentiva di riuscire a governare il proprio potere.
    Ciò su cui aveva perso il controllo, probabilmente, era sé stesso.
    Ogni mattina Sunday si svegliava, si preparava per andare al San Mungo, controllava che Lollo non avesse distrutto l'appartamento che condividevano durante la notte, e accettava il fatto di dover rimodellare il proprio aspetto davanti ad uno specchio che non sempre gli mostrava quello che aveva lasciato la sera prima, o che si aspettava di trovare. Si vestiva del viso con cui si era presentato al colloquio la prima volta, quello con cui avevano iniziato a conoscerlo a lavoro e con cui avevano preso confidenza i pazienti, come fosse una maschera: era stato sicuro che fosse il suo, quello vero, fino alla fine dell'estate; aveva già perso molte certezze nell'ultimo anno (più di quante avesse facoltà di dire), ma la festa hawaiana alla quale nemmeno voleva partecipare aveva dato il colpo di grazia – così il suo cervello aveva fatto fold e scelto il caos, o aveva inconsciamente deciso di lasciare le redini e smettere di trattenersi. Non avrebbe saputo dirlo, e nemmeno gli interessava più di tanto: aveva molti altri problemi a tenerlo inchiodato sul materasso, e salutare una persona diversa ogni mattina allo specchio era l'ultimo tra questi.
    Le notifiche ad abbassare il volume di Orville Peck che gli cantava del tentativo di sfuggire all'inevitabile destino che ci accompagna, invece, rientravano tra le cose che lo turbavano. Per un po' ignorò quell'ultima che aveva fatto vibrare il telefono sul comodino, alzandosi a sedere con l'unico intento di non farsi cadere la cenere addosso. Un atteggiamento che andava contro tutti i suoi principi: Sandy era esattamente quel tipo di persona che, se fosse stato possibile, avrebbe risposto ai messaggi prima ancora che potessero arrivargli, incapace di aspettare e di far aspettare. Ma non aveva voglia.
    Non aveva voglia di dire ai colleghi del San Mungo sui gruppi, che proponevano uscite o cazzate del genere, quanto poco gliene sbattesse di uscire di casa.
    Non aveva voglia di spiegare alle conoscenze fatte in quei mesi in America dove fosse finito, cosa gli fosse successo – perché tanto non avrebbero capito, e perché tanto non gli importava che lo facessero: non erano i suoi amici.
    Non aveva voglia di rispondere alle sue sorelle, qualsiasi cosa avessero da dirgli: le amava, ma non poteva negare che qualcosa, per lui, a quel punto fosse diverso.
    Soffiò il fumo verso il pavimento, palpebre pesanti e sguardo puntato verso il cellulare. C'era qualcosa –
    un braccio attorno alle spalle
    un buco nel petto
    le nocche sporche di sangue
    quel pizzico agli angoli degli occhi

    – qualcosa che lo spinse ad allungare la mano e a leggere il messaggio prima che avesse modo di ribellarsi al proprio corpo. Qualcosa che gli diceva fosse la cosa giusta da fare.
    L'unica che avesse importanza.

    Una sigaretta dietro l'orecchio, una mano affondata nella tasca della felpa e l'altra a tenere una busta, il De Thirteenth rimase qualche minuto ad osservare la Stamberga Strillante in lontananza – poco più vicino alla struttura rispetto a dove si era fatto lasciare dal suo taxi personale (Lollo) –, un angolo delle labbra sollevato involontariamente.
    Un sorriso acido, dal sapore di esperienze che avevano trapanato nel petto per restarci incastonate, e che poi erano state estratte lasciando solo un vuoto doloroso.
    E guardò il ragazzo sulla soglia della casa marcescente con lo stesso, innominabile, sentimento; e si chiese, per tutto il tempo che era rimasto lì impalato come un lampione, se davvero fosse l'unica cosa giusta da fare.
    Per sé, per l'altro.
    Ma era l'unica cosa che sentisse di voler fare.
    «è qui la festa?» il canto delle cicale in sottofondo suggerivano di sì. Deglutì. Inspirò più forte, a denti stretti e narici spalancate, perché porca puttana il petto non si allargava e faceva tutto più male di quanto riuscisse a comprendere, ma sorrise. «questa viene direttamente da novi lugubre,» tirò fuori dalla busta la bottiglia di vodka dal dubbio aspetto ed etichetta (le sue cose preferite, a dirla tutta), un po' per liberare le mani dall'impaccio e un po' per tenersi occupato. «dicono sia terribile.»
    Non era davvero una festa, né gli aveva detto di portare qualcosa da bere: sinceramente, non sapeva se l'aveva presa perché sentiva ne avrebbe avuto bisogno, o per altro.
    Senza dubbio, avrebbe fatto il suo dovere.
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    cj knowles
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    Una spalla contro le travi in legno della Stamberga, caviglie incrociate fra loro. Lo sguardo vetro del Knowles pareva attento pur non essendolo, fisso su uno specifico filo d'erba accartocciato come se ne dipendesse della sua vita. Non pensava a nulla, con la cenere ad allungarsi sulla sigaretta in attesa che la gravità facesse il suo corso; più facile a dirsi che a farsi, quel peculiare spegnimento cognitivo. Un assentarsi dal mondo con i piedi ancorati al suolo, concreto in ogni atomo e distante in tutto il resto. L'aria settembrina a pungere la pelle rendendola secca e fredda al tatto, l'olezzo umido dell'autunno ad insinuarsi nelle narici come il principio di un mal di testa. Discipline new age che professionisti, sistemandosi gli occhiali sul naso, enunciavano con il nome di Mindfulness, come se vivere consapevoli di farlo fosse un'altra fottuta pratica da studiare sui libri di scuola. Il genere umano sapeva fare tutto, buon Dio, tranne che avere un cazzo di senso. Il contrario del principio stesso dell'evoluzione: se potevano complicarsi qualcosa, l'avrebbero fatto.
    Si sentiva osservato, CJ. Un ragazzo fatto d'istinti e di denti, animale selvatico abituato all'uomo senza esserne grato, nè particolarmente impressionato. Si lasciò guardare, perché fretta non l'aveva. Immaginava di fare un certo effetto, con quelle spalle magre e affilate, pallido come un bulbo cresciuto in cantina, con la catapecchia barcollante di sfondo; poetico nel loro decadere. Principe di tutto ciò che rimaneva in piedi per cazzo di principio.
    «è qui la festa?»
    Sunday De Thirteenth aveva sempre avuto un terribile senso dell'umorismo. Non era sempre bello sapere che certe cose non cambiassero mai, ma scelse che fosse una di quelle volte, perchè a qualcosa che non fossero dita fantasma bisognava pur aggrapparsi. Soffiò l'aria ed il fumo sopra la sigaretta, curvandosi lateralmente per non sporcarsi nel far crollare la cenere, azzardando una pigra occhiata verso l'americano.
    Occhi scuri, capelli bruni, un viso più tondo di quello di cui il Knowles avesse memoria. Aveva importanza? Cambiava più facce che mutande, l'ex Tassorosso; non era quello, a preoccupare il ribelle.
    «dipende. hai portato roba buona?» biascicò, piegando le labbra in una mezza smorfia piatta, e di rado intenzionalmente crudele. Distolse lento lo sguardo dal ragazzo, riportandolo sul filo verde a spuntare fra le assi della Stamberga. Si capivano, lui e quell'avanzo di flora; resistette all'impulso intrusivo di pestarlo e strapparlo. Una mera questione di rispetto e riconoscimento dell'aver provato a crescere quando nessuno l'aveva voluto fra i coglioni, ed esserci riuscito abbastanza da essere l'unico grumo verde in quella topaia.
    Sarebbe stato divertente, nella sua ironia, se solo non fosse già stato triste. Complesso essere l'uno e l'altro - roba di nicchia.
    «questa viene direttamente da novi lugubre, dicono sia terribile.»
    Aspirò fino a sentire le labbra ustionate, un sibilo soddisfatto a rotolare sulla lingua. Prese il filtro fra pollice ed indice, socchiudendo un occhio in direzione del De Thirteenth. «dicono di me» Sara o CJ, non vi è dato saperlo. La Tim mi ha distratto dicendomi che dovrò pagare altri soldi in più un'offerta che non uso, quindi ho passato l'ultima ora a bestemmiare (donby non mi giudica davvero, capisce le necessità della natura umana) ma fuck it we ball, finisco il post così anzichè rimbalzarmelo a casa. Back on track.
    Reclinò il capo sulla spalla, sollevando il capo per guardare prima il sacchetto - dubbie origini confermato - e poi quello che sapeva essere il De Thirteenth, pur non avendo nulla in comune con l'ultima versione che ricordava di lui. Lo guardò impassibile un paio di secondi, senza neanche sprecarsi a spezzare un sorriso nella sua direzione. Non aveva ancora deciso come sentirsi in proposito; CJ era troppo CJ per fidarsi e basta nell'essere se stesso.
    «sei ancora brutto, comunque. mai pensato di chiedere un rimborso?» diede un calcio alla porta, roteando come un Carmine Di Salvo - con la testa sul legno, esatto - per entrare, senza guardarsi indietro per assicurarsi lo stesse seguendo.

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