Alexander Lestrange era un ragazzino pretenzioso. Sulle amicizie, sul modo di vestire. Alexander era, di fatto, un ragazzino viziato. Particolarmente chiuso, il Lestrange non amava la compagnia degli esseri umani. Preferiva il silenzio e la quiete delle serre di erbologia, poco avvezzo ai cambiamenti quel giorno si era trovato spiazzato quando la serra n.1 era riempita di ragazzini. Una lezione della mattina era stata spostata. Alexander sbuffò. Come se, quel castello potesse essere di sua proprietà e con uno sciocco di dita potessero tutti scomparire. Purtroppo, o per fortuna, anche la magia del Lestrange era limitata. Alexander richiuse la porta della serra e con fare nervoso uscì dal castello a fumarsi una sigaretta. Le conversazioni con Mona andavano più o meno sempre così: «Perché fumi?» Allora Alexander batteva i piedi sull’asfalto, era una cosa che faceva solo quando la stizza raggiungeva vette particolari. «Perché non dovrei?» E così, per venti minuti di fila. Alexander le aveva fatto un cenno del capo, lei l’unica a cui riservava sorrisi gentili. Aveva bisogno di un posto per rilassarsi e da quando Delilah Parker era entrata in squadra, l’animo di Alexander si divideva in due modi: il primo era quello di scagliarla dall’altro lato del campo, con quella vocina sempre pronta a contrastarlo e dall’altra parte aveva ritrovato nella Parker una persona che aveva destato un minimo di interesse in quella scuola noiosa. Alexander non era costruito per le relazioni, in senso intimo o meno. Non era costruito per avere dei sentimenti, li trovava piuttosto…banali. La storia dei Lestrange, maledetta dal primo all’ultimo ramo, probabilmente aveva intaccato anche la sua sfera emotiva. Cresciuto nella rigidità di una famiglia senza affetto, Alexander non capiva la necessità di avere relazioni superflue, specialmente nella giovane età. Mentre tutti invece nel castello sembravano smaniare per avere di più. Tolti i punti dove di solito trovava pace ma che in quel giorno sembravano tutti occupati, Alexander Lestrange aveva notato qualcosa – o meglio qualcuno – che aveva un profilo ben conosciuto. Strinse i pugni lungo i fianchi, cercando di tenere a freno quella curiosità ma poi pensò ad una semplice frase: al diavolo</i< e prese a salire le scale. Il motivo per cui la Parker fosse entrata nella stanza delle necessità gli era sconosciuto, ma almeno gli aveva dato un’idea per rimanersene tranquillo durante il resto della giornata. Attese. Quando fu il suo turno, riuscì a compiere gli stessi gesti della sua concasata e poi il portone gli apparve, senza farsi notare scivolò all’interno e la stanza mutò in base alle necessità. Una grande piscina con delle colonne greche apparve, piccole piscine sparse qua è là con vapori caldi e sbuffi colorati. In lontananza, uno strillo a rovinare la quiete. <i>Merlino, no. Come se la stanza rimanesse in ascolto, l’abbigliamento del Lestrange mutò. Un costume, asciugamano e ciabatte estive. I capelli neri e mossi di Alexander si mossero in direzione dello strillo. «Parker?» Alzò un sopracciglio, con fare confuso. Di nuovo lei. Era un tormento quella ragazza, sempre tra i piedi. Era zuppa, dalla testa ai piedi e il Lestrange non poté che sorridere, la stanza sbuffò qualche nuvoletta di qualche profumo delicato. «Cosa ci fai qui? O meglio, cosa ci fai qui…fradicia?» Avanzò qualche passo, lasciando che il fisico si abituasse al calore della stanza. Piano, si immerse nell’acqua. «Nel senso…capisco di fare questo effetto, però rilassati.» La canzonò, lasciando che il corpo si immergesse nell’acqua, solo gli occhi azzurri ad osserverla.
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