love story (akerrow's version)

[the wedding of the century | Avignon, FR]

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    ci aveva pensato. e ripensato, e ripensato.
    con le labbra strette in una linea sottile, e le dita a tamburellare sul bracciolo del divano (di jd, inutile specificare: il giorno in cui park mudeom si adeguava alla vita come un cristiano normale qualunque e smetteva di dormire abusivamente in case non sue o sulle sedie del quartier generale non era, ahimè, ancora arrivato).
    aveva persino, persino!, fatto sostare i polpastrelli lungo le cuciture della camicia di una delle sue commissioni. labbro preventivamente arricciato, già conscio del fatto che se proprio doveva presentarsi non lo avrebbe di certo fatto… così. una parodia dell’uomo che i suoi genitori avrebbero voluto vedere riflesso nello specchio: elegante, composto, aggiustato. poi si era sorpreso da solo, perché c’era della seria considerazione in quel ragionamento. e ken non era una persona da matrimoni – da cerimonie, nel senso più generale. non lo era stato da bambino, men che meno da adolescente disastrato. di certo non lo era diventato magicamente in età adulta.
    un’ennesima ribellione inutile e strettamente personale, che aveva a che fare con i vermi nel suo cervello. il concetto ristretto e mal curato di anarchia sulla quale aveva basato la sua intera personalità in età formativa, e che anche a venticinque anni suonati spingeva contro la sua coscienza in filamenti quasi trascurabili, ma pur sempre presenti. mudeom non si sbatteva il cazzo in una chiesa vestito come un pinguino per qualcosa di così fittizio ed effimero. non fingeva di credere nella sacralità del gesto, nella condivisione della gioia. e non aveva mai avuto modo di convincersi del contrario.
    i suoi genitori, per quanto ne sapeva, erano ancora costretti in un matrimonio glaciale, fatto di sopportazione reciproca e facce pulite da mostrare al mondo, così da dare l’apparenza di funzionalità. suo fratello – non ne aveva francamente idea. era fatto della stessa pasta della sua eomma; difficile immaginare un futuro così diverso dal suo.
    un anello, dei vestiti pomposi e qualche fotografia sorridente non poteva cambiare quel semplice dato di fatto.
    la sensazione che aveva provato nel seppellire un morto non aveva appiattito il dolore più di quanto lo avesse fatto lasciare il cadavere sul pavimento in una pozza di sangue, voltargli le spalle, andarsene. le sue mani erano tremate in entrambi i casi. aveva pianto di più, quella prima volta, di quanto lo avesse fatto nel sapere sehyung – il suo migliore amico dai tempi dell’infanzia, sehyung – racchiuso in una tomba. ma era anche stato più grande, mudeom. aveva già visto la vita scivolare dallo sguardo di una persona. aveva già provato tutte quelle emozioni di merda; la furia e la vergogna e una tristezza che scavava fino all’osso.
    eppure lo stava intrattenendo davvero, quel pensiero. una scelta più difficile di quanto potesse sembrare: un po’ come arrendersi all’idea di essere normo come tutti gli altri, che vedeva come un fallimento sotto troppi fronti. non abbastanza sentimentale da poter considerare l’opzione è-perché-c’è-stata-una-guerra. le guerre, per quelli come william barrow, non finivano mai: ne stava combattendo una anche in quel momento, con la mano di sua moglie tra la sua, un vaffanculo implicito nelle spalle dritte. forse quello lo aveva toccato, segretamente; la scelta conscia di amare, piuttosto che nascondersi nella paura di ciò che potrebbe succedere. qualcosa che richiedeva un misto di coraggio e ingenuità che solo un uomo che guardava akelei beaumont in quella maniera poteva avere.
    la vena romantica di ken, in ogni caso, era stata troncata alla nascita; certe realizzazioni le scacciava come mosche e fingeva di non averle mai avute. ma poteva ammettere a se stesso altro.
    ammetterlo anche a will; con le mani nelle tasche della giacca di pelle (nuova, manco una macchia di sangue raffermo a creare ombre strane sul tessuto: il suo smoking), e uno sguardo determinato a cercare il suo.
    un discorso non se l’era preparato, perché c’erano limiti invalicabili da osservare. ma avrebbe dovuto; se ne rese conto in quel momento, tastando un palato secco in cerca di parole che gli sfuggivano.
    piccoli passi. «will.» piegò appena il mento verso il basso, e si dondolò sui talloni come un bambino. ancora così poco familiari, quei suoni; ostinato, mudeom, nel mantenere viva la sua lingua madre in un accento che impastava i discorsi e un vocabolario che dopo sei anni aveva ancora i suoi tanti, troppi limiti. anche quella, una battaglia che era solo fra lui e lui; dettata dalle paure di cui non parlava, perché ammettere ad alta voce di star dimenticando chi ci fosse stato prima di ritter scully, guerrigliere, era impensabile.
    «quando pensavo di aver perso tutto» arricciò la bocca, e non aggiunse: e forse un po’ lo avevo perso davvero. «ho trovato voi.»
    lasciò implicito anche il senso di quel voi. la ribellione, sicuro – non poteva dirlo ad alta voce. ma il voi su cui sperava che il barrow si focalizzasse era un altro. formato da un mucchietto di persone che in francia, a cento anni di distanza, avevano costituito una breve routine per lui. gli hemera, i ponpon per space jam, tutte quelle cazzate; e la certezza di non essere solo. anche quando il suo sguardo si appannava e il cervello entrava in modalità screensaver. l’inglese era difficile.
    l’inglese con un cazzo di accento brit era il male più atroce.
    eppure si erano capiti lo stesso; due pesci fuor d’acqua. quando aveva cominciato a capire che minchia dicesse era persino diventato intelligente, william barrow. un ottimo leader. una persona di cui potesse fidarsi.
    pensò, allora, a quei momenti sospeso nel vuoto con ellis – in un fottuto universo alternativo, stanchi e spaventati. le aveva parlato di famiglia senza sapere chi fosse; indicando i volti dei suoi amici, uno ad uno, come per farglieli memorizzare. era stato un gesto inconscio, ma il significato dietro non gli era comunque sfuggito. se crepo in questo posto, ricordami come una casa. un contenitore di affetto e protezione, con i muri distrutti e le fondamenta solide.
    «non lo sapevo. lo so ora.»
    e sapeva, anche in quel momento, cosa volesse dire davvero. limiti tecnici ed emotivi a fargli alzare un palmo, stringerlo attorno alla sua spalla: ricordami come un ospite, una falena attirata dalla luce. in cerca di una casa quando la mia è crollata.
    tirò su col naso, e annuì tra sé e sé.
    «grazie. e sono felice per te.»
    affermazione sincera; a mentire faceva un po’ schifo, mudeom.
    un passo indietro – poi un altro.
    pugno in aria come john bender in the breakfast club.
    «cavallo,» bitch.



    dal canto suo, a javi non sembrava di averci pensato abbastanza.
    com’era evidente dal patchouli 24 ormai del tutto annegato nel tabacco; era già alla sua terza sigaretta della serata. no, non voleva parlarne.
    non se n’era dato il tempo materiale, preferendo spingersi a forza attraverso un check in e indossare giacca e cravatta. un completo nuovo: gli altri, negli anni, avevano già fatto il loro passaggio di rito nei cimiteri della gran bretagna. non il migliore dei presagi.
    fuoriluogo, conscio di esserlo, e terribilmente impacciato in una situazione che sarebbe dovuta andare giù con la stessa facilità dell’alcol.
    è che non era manco troppo certo di poterci stare, in quel posto. in mezzo a quelle facce familiari solo in parte – alcune più di altre. allo stesso tempo, mandare un messaggio (piccione viaggiatore, gufo, quello) gli era sembrato decisamente troppo impersonale, e javi era scozzese: chiedergli l’iban come un parente del nord non era nel suo codice genetico.
    spinse la lingua tra i denti, e nascose di nuovo il volto dietro al flûte di prosecco. le sue congratulazioni le aveva fatte; i saluti di circostanza all’incirca. non era sostato nello stesso posto abbastanza da poter effettivamente iniziare e finire una conversazione con qualcuno. meno per il desiderio di evadere, più perché non era certo di avere davvero cose da dire oltre a bel tempo e la resistenza riparta dalle ombre. meglio far sentire la sua presenza poco necessaria a distanza di sicurezza e tornarsene in santa pace nella sua camera d’hotel.
    col senno (svariate conversazioni cursed in chat dopo) (particolarmente poetico che io abbia scritto tutto ciò prima ancora di confermare di star scrivendo questo post) di poi, una grande scelta.
    anche perché ogni volta che pensava ai matrimoni a cui era stato in passato – il suo, con la lista degli invitati che potevano essere contati sulle dita, escluso per ovvie ragioni – e lo comparava a qualunque cosa stesse accadendo in quel di avignon, era facile riconsiderare l’opinione che si era tenuto stretto per tutti quegli anni. convinto che il penchant per i drammi ad eventi simili era dato più dalle stranezze della sua famiglia, e che all’infuori del loro piccolo nucleo erano affari meno intensi. a guardare i dieci stadi del lutto che stavano passando sulle espressioni di un po’ tutti i presenti per ragioni svariate, forse il suo era stato un buco nell’acqua. evidentemente crescere con una bacchetta in mano e imparare formule in latino come la bambina dell’esorcista faceva questo all’essere umano.
    ragionamento troncato da voci in avvicinamento: buttò giù il resto del bicchiere, incapace di attaccare un volto ai mormorii e decisamente poco avvezzo all’idea di fare il terzo incomodo in una delle complicate tresche locali, e si fece spazio nella… folla? nel vuoto totale? unclear.
    la priorità era farsi i cazzi propri.
    figurativamente.
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    patchouli 24 è una fragranza di le labo. so che morivate tutti dalla voglia di sapere di cosa profumi javi

    ken: parla con will! e poi sparisce. come il meme di sailor moon
    javi: si fa i fatti suoi e basta, è davvero solo qui perché non voglio sistemarmi anche il codice per il singolo pg. lo ammetto. va così AUGURI WILL (e ake ma non ti conosce.)
     
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    Sinclair non era mai stato una persona impulsiva, così come non era mai capitato che rimpiangesse decisioni sulle quali aveva ponderato a lungo. Non era capriccioso, non geloso e certamente non era lì per passare la serata a tenere il muso lungo. Quindi no, non stava tracciando i movimenti del Matheson con lo sguardo, e di certo non aveva una smorfia a guastare l’espressione di controllata noia. Cristo santo, aveva ormai superato l’età in cui era accettabile comportarsi in quel modo. Anche se, se solo si fosse guardato attorno, avrebbe notato che le persone che lo circondavano non parevano assumere comportamenti molto più maturi. Ma Sinclair aveva l’attenzione fissa in un punto ben preciso, ed era cieco a qualsiasi altra manifestazione che non fossero i bedroom eyes che Lawrence stava rivolgendo a Raphael fuckin’ Vaughan. Traditore, lo sapeva che non c’era da fidarsi degli americani, con il suo stupido accento e gli insopportabili capelli che non sembravano mai essere fuori posto nonostante la lunghezza. Cos’era, il testimonial della Pantene? Il ribelle non gli era mai andato giù, e in quel momento gli sarebbe piaciuto tanto rimandarlo da dove veniva: il Texas, Hogwarts, il buco nel terreno da cui era strisciato fuori. Era troppo impegnato a lanciare sguardi truci dall’altra parte della pista da ballo per accorgersi del disastro che si era consumato alle sue spalle. Se solo avesse saputo, i suoi preziosi sforzi mandati in frantumo dall’infinito disagio di sua nipote. Si sentì tirare per la giacca, e per un breve momento il suo primo istinto fu di scattare contro l’origine della minaccia. Serrò le mani in due pugni, costringendo il cuore battito a ritornare a un ritmo semi normale- non era in guerra, nessuno voleva ucciderlo. Razionalmente lo sapeva, ma era difficile imbrigliare i suoi istinti. «ormai mi sono alzata, non posso rimanere ferma come una stupida statua. balla con me» era solo Hold. Che ricordava di aver lasciato con sua nipote, ma che per qualche assurda ragione si trovava al suo fianco. E dire che qualche minuto prima si era complimentato con Murphy per il successo del loro piano. Era chiaro che avesse cantato vittoria troppo presto, ma poteva sempre rimediare. «non avrei saputo dirlo meglio. vieni che ti insegno a ballare come…» avrebbe voluto dire come ai miei tempi ma l’avrebbe dipinto nella luce di un vecchio decrepito, cosa che non era. Non ancora, almeno. «come si deve» così che avrebbe potuto insegnarlo a Kieran a sua volta, il suo era un piano quinquennale ben studiato e con altri piani B, C e D a disposizione nel caso avesse fallito. Si sentiva un po’ come uno stratega Ferrari qualsiasi. «come va? ti stai divertendo? prima ti ho visto parlare con kieran, sembravate…affiatate» *WINK* prese la mano di Hold nella sua mentre guidò l’altra ad appoggiarsi sulla sua spalla, e un po’ come un classico ballo padre-figlia (sì, la stava per sostituire con Murphy così imparava) le mostrò dove mettere i piedi e come seguire il ritmo. Per qualcuno come l’Hansen poteva sembrare naturale, qualcosa di insito nel suo sangue e impartito a forza di bacchettate, quindi al momento faceva fatica a comprendere come Hold potesse avere- non delle difficoltà, ma una scarsa…coordinazione. «sai che. forse non sono l’insegnante adatto» sospirò sconfitto all’ennesima pestata che riceveva sui mocassini un volta lucidi, dovendo cedere alla realtà. Non aveva molta pazienza, e trovava la presenza di un ragazzo a pochi metri da lui terribilmente poco produttiva. «sai chi è un'insegnante migliore di me?» incastrò la special in una piroetta, usando quel momento per farla girare in direzione di Kieran come una trottola «kier, ti dispiace? hold mi stava giusto dicendo che voleva ballare. credo tu sia libera, no?» approfittò di quel momento per fare la sua uscita, e dirigersi senza alcuna fretta nella direzione in cui si trovava Lawrence. Infilò le mani in tasca, misurando i suoi passi con cautela per non dare l’impressione che fosse di fretta, come se stesse facendo una passeggiata e solo per caso si fosse imbattuto nella coppia. Sfoderò il suo miglior sorriso di cortesia, scivolando accanto a Lawrence come se fosse stato il suo posto sin dall'inizio, come se quel posto gli appartenesse di diritto «ah lawrence, eccoti. ti stavo cercando» sfilò il bicchiere dalle dita del ragazzo prima che potesse negarglielo, innocente nelle sue parole, e meno nello sguardo che rivolse a Raphael «piacere, dottor sinclair hansen» no, ma cosa dite, il suo non era un posturing contro il Vaughan. E anche se fosse stato, poteva permetterselo. Doveva persino fingere di non conoscerlo, terribile fingere nonchalance quando sapeva esattamente che tipo di persona fosse il professore [derogatory]. «non sapevo vi conosceste. un tuo vecchio professore, lawrence?» domandò con falso interesse, e nel caso ve lo steste chiedendo: sì, stava cercando di cockblockare il suo ex-non proprio ex-situationship. Ah, si sentiva quasi giovane.
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    Voleva molte cose, William. Alcune di queste erano impossibili da ottenere, altre le aveva avute per un lasso di tempo finito, mentre altre ancora sapeva che non avrebbe mai stretto tra le dita. In quel momento, tuttavia, voleva essere libero di medicare il suo cuore spezzato con del costoso vino rosso senza che la causa del suo male apparisse alle sue spalle. Un fottuto cancro, una malattia terminale alla quale ormai si era rassegnato, e che era cresciuta in lui nel corso di quasi due decenni. Guardarlo gli faceva male, ma non guardarlo era quasi peggio, perché sapeva che quella manciata di minuti era tutto ciò che si sarebbe concesso del volto del suo migliore amico. Il Barrow sapeva di essere patetico, ma almeno il calore del vino leniva la vergogna che lo teneva ostaggio, e rendeva più facile perdonarsi quei momenti di debolezza. Com’era sempre stato. «te. vale?» ah, ma pensa. William non riuscì a non sollevare gli occhi al cielo a quell’uscita, l’angolo delle labbra a minacciare di sollevarsi in quello che non era un mezzo sorriso. «hai già avuto la tua occasione, non pensi?» era terribile e lo sapevano entrambi, eppure non fallì a causare un familiare moto di calore dentro di lui. Si odiava, e odiava ancora di più il suo corpo per quelle reazioni automatiche, ingranate in ogni fibra nel suo essere come una seconda natura. «mi manchi» per un attimo dimenticò come respirare, l’impatto di quelle parole a coglierlo impreparato e vulnerabile. La cosa peggiore era la sincerità nel tono dell’Hamilton, la peggiore arma con cui potesse colpirlo, quella che si insinuava bastarda tra le costole per andare a scavare un po’ di più nella carne rovinata. Esausta. Chiuse per qualche attimo gli occhi, non voleva vederlo, non voleva sentirlo- voleva smettere di esistere per un po’, era tanto da chiedere? Portò di nuovo la bottiglia alle labbra, la sua fedele compagna, buttando giù il liquido rubino con la stessa velocità con cui i radunanti svuotavano le bottiglie a Pescara. Fu triste di constatare, appena la portò controluce, che era a metà. In effetti si sentiva già meglio, il mondo più morbido e sfumato ai bordi. Uno sfortunato effetto collaterale era il bisogno di estendere la mano e cercare il contatto con l’Hamilton, ma credeva che sarebbe sopravvissuto. Probabilmente. Lasciò le parole di Jamie sospese tra di loro, senza trovare la forza di rispondere. A che pro? Avrebbe finito per lanciare l’ennesimo dardo avvelenato, la facciata costantemente in ombra della luna, quando era chiaro che con il cronocineta non funzionavano. «william. un ballo?» sconosciuto, quel nome a rotolare dalle labbra di Jamie. Troppo impersonale, sterile, un nome che sapeva di solennità e una supplica al tempo stesso. Posò la bottiglia sul tavolo, costringendo le sue dita a staccarsi da quello che era stato l’unico punto fisso della serata. L’unica risposta che William aveva per il suo ex era una risata dai contorni taglienti e sanguinanti, priva di qualsiasi umore e che contrastava con la tempesta a danzare nelle iridi del francese «perché no, tanto ormai che male può fare» che male può farmi, che non hai già fatto? Si alzò dalla sedia in un movimento che aveva poco di aggraziato, e si dovette reggere per qualche attimo al bordo del tavolo per riallineare la sua visione del mondo. Forse doveva smettere di piangersi addosso, rifletté lontanamente, pensiero che fu rapidamente sostituito dalle sue dita che si chiudevano intorno al polso dell’Hamilton per tirarlo dietro a sé. Momento in cui la scelta della musica ricadde su un lento, ovviamente. (E ve lo linko anche.) «volevi ballare con me, tutto qui?» domandò una volta che si trovarono sulla pista, le dita a scivolare naturali sulla spalla dell’Hamilton, mentre l’altra mano si stringeva alla sua «avrei dovuto bere di più» mormorò tra sé e sé quando la distanza tra lui e Jamie si accorciò inevitabilmente, la sua attenzione a passare dal suo sguardo alle sue labbra. Non era mai stato bravo a dare retta alla parte più razionale del suo cervello, non quando aveva dell’alcol in circolo «mi manchi anche te» strinse appena le dita sulla stoffa della camicia dell'Hamilton, un appiglio al quale sorreggersi per evitare di cadere nella spirale di verità scomode che non era pronto a divulgare «ma mi fa più male stare qui, vicino a te, quando so quello che hai fatto» niente da fare, ci aveva provato per quel battito di ciglia, ma stava fallendo miserabilmente- erano in ballo, tanto valeva ballare «ma soprattutto, mi odio per volerti ancora nonostante tutto» dovette resistere all'urgenza di premere la sua fronte contro quella di Jamie, a cercare un contatto che avrebbe placato le spine attorno alle sue corde vocali, e la vergogna a pesare sulla sua coscienza.
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    WILLIAM: parla con jamie
     
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    C’era da dire che le cose, fino a quel momento, fossero andate alla grande: lo scambio dei voti era stato bellissimo e commovente, e Dylan aveva singhiozzato commossa mentre il suo capo giurava amore eterno al suo vero amore, nella maniera più asdfghjkl possibile; lo aveva fatto stringendo la mano di Gaylord nella sua, emozionata e grata all’idea di averlo al suo fianco in quel momento — e, sperava, mossa dal momento e da tutto l’amore che girava nell’aria, molto a lungo.
    «quindi insomma»
    «hhhh»
    Con i pugnetti stretti al petto, Dylan stava ancora vibrando a frequenze altissime per quanto appena testimoniato con i propri occhi.
    «bella cesta*»
    «bel-lis-si-ma!!!»
    «non sento assolutamente il bisogno di tornare a casa»
    «OTTIMO!!» E, visto che era Ty, e visto che lei era Dylan, e considerando che fossero anime gemelle, la rossa non ci pensò due volte prima di prendere la mano dello special tra le sue e stringere forte. Forte. «perché la festa è appena iniziata e non puoi perderla!! è bellissimo ci sia anche tu!! non sapevo conoscessi Akelei, o William!! cioè,» liberò la mano di Ty solo per agitare la sua a mezz’aria, «oltre al fatto di essere stato nostro prof, ovviamente, duh» duhhh!! «perché non vieni con noi?!?» indicò se stessa, e poi subito dopo Gaylord al suo fianco, «casta anime gemelle!!!» STAN!!! Tanto Dyl non l’ha ancora capito con chi sei venuto al matrimonio, Ty, perciò acab. E se vuoi, puoi portare Joe tanto the more the merrier.

    «vino?»
    Per un attimo dovette rifletterci, la Kane, sul poter accettare o meno quell’invito: ok, non era più una studentessa, e okay aveva raggiunto l’età legalmente adulta per i maghi ma… era buon costume bere al tavolo con i propri prof?!
    Va bene, ex prof, ma comunque!! Era passato troppo poco tempo, nella sua testa era ancora fresco il ricordo delle lezioni ed assurdo il pensiero di non essere andata a prendere il treno due mattine prima. SHOCK!
    Cercò lo sguardo di Gaylord per supporto morale e per capire cosa fare, lui di sicuro lo sapeva, era più grande e non era il suo primo evento!! Dylan, invece, fino a quel momento aveva sempre presenziato come figlia di Mercutio Kane, e figurarsi se sua mamma le avesse mai lasciato toccare un goccio di vino in pubblico, mpf!!
    «Io sì, grazie»
    Nella disperazione, provò anche a creare un contatto visivo con Ty — quindi sì, era proprio disperata.
    «come va la vita da diplomata, Kane?» uh??!! Oddio. Kane era lei, giusto? Ma sì che era lei. «non si preoccupi, faccio io!» Troppe cose tutte insieme, momento!!
    «Ti vedo diversa» «saranno i capelli.» *nervous giggling*
    «Se hai pettegolezzi interessanti sul tuo capo, li possiamo aggiungere come aneddoti al brindisi»
    Aiuto??
    «Non so se è il caso,» ma in che senso pettegolezzi sul suo capo, NO!! La ex tassorosso abbassò lo sguardo sul bicchiere ora pieno, pensando, as the wise man would say: fuck it. Afferrò il calice pieno e ne assaggiò il contenuto, come scusa per prendere un attimo di tempo. Non voleva deludere la sua audience (.) ma non poteva nemmeno… spettegolare su Akelei Beaumont, no? Non voleva perdere il posto di lavoro dopo nemmeno quindici giorni.
    Tra l’altro. Come li doveva chiamare? Profs? Lydia e Arci??? HHHHH.
    (Chissà come li chiamava quando era ad Hogwarts, mah.)
    All’intero tavolo, sussurrando piano e con complicità, confessò che «ci tengo alla mia vita» vi prego ridere è una specie di battuta aiutoooo.
    Dov’erano le furie?!?!
    «Buono questo… pasticciotto…» o qualunque cosa avesse appena inforchettato.
    No, davvero: FURIE DOVE SIETE?
    Non si direbbe che proveniate anche voi da famiglie benestanti eh. MALEDETTE.
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    ruba ty e lo porta con sé (e gaylord) e poi parla al tavolo con loro due + lydia e nate!! scusate non dice molto, è a disagio UNA NOVITA' LO SO #adulthood
     
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    Nice aveva assistito alla cerimonia da sola, seduta tra le prime file ma in disparte, costringendosi a non immaginare i suoi genitori al posto di William e Akelei. Era stato uno sforzo enorme, per il quale aveva dovuto stringere i denti e tenere lo sguardo chiaro concentrato sulla figura degli sposi davanti a sé, ricordandosi che fosse lì per loro, e non per veder realizzata qualche sua stupida fantasia.
    Onestamente, era contenta di non avere nessuno accanto a sé, nessuno che la conoscesse, non Renée impegnato ad assolvere i suoi doveri di testimone, non Chelsey o Hyde, non Albert, e non di certo Dominic; sarebbe stato ancora più difficile nascondere la mascella serrata o i pugni stretti, al punto da sentire le unghie smaltate di verde e oro lasciare rosse mezzelune sul palmo della mano.
    Da mesi, ormai, Nice era tornata a chiudersi in se stessa e pensare solo alla carriera, e alle soddisfazioni personali che quello poteva donarle: così facendo, non aveva il tempo per pensare a nient’altro, e al suo rientro a casa era sempre troppo stanca per riflettere o affrontare i fantasmi delle cose non dette che abitavano quel misero appartamento più di quanto non facesse la stessa Hillcox. Andava bene così.
    Si unì diligentemente all’applauso finale, muovendosi più per inerzia che per propria volontà, rendendosi conto di non aver davvero prestato attenzione alle parole degli sposi, né del fatto che la funzione fosse ormai finita. Rimase al suo posto, in attesa che Renée terminasse di parlare con Joe, e solo quando il generale fece per avvicinare i suoi genitori, allora lei lo raggiunse.
    «Congratulazioni,» sorrise ad entrambi, cercando di incanalare quanta più sincerità possibile nella sua espressione; era davvero felice per gli akerrow, quello senza dubbio, e voleva che almeno loro lo sapessero. «È stata una bellissima cerimonia, ancora tantissimi auguri.» Non si azzardò a fare nulla più di stringere le mani della sposa tra le sue, prendendo nota di quando fossero entrambi splendidi nei loro abiti (scelti dalla sottoscritta, modestamente), prima di passare ad accarezzare la schiena di Renée ed invitarlo ad allontanarsi, un stai facendo la fila divertito a piegare le labbra della stilista.
    «Fin’ora tutto bene, no?» A fatica, ma avevano superato il primo scoglio.
    Si fermò con il generale nei pressi del buffet, ignorando il resto degli invitati il più possibile. «Cos’hanno detto della cena?» Certo che lo sapeva anche lei, duh, Nice sapeva tutto. Così come sapeva che ci fosse qualcuno molto interessato dalla loro presenza, che con intensità lanciava sguardi nella loro direzione; Nice era decisa a fingere il più possibile di non vederlo, perciò quando il Barrow si voltò per cercare la fonte di tale fastidio, non molto distante da loro né difficile da individuare, Nice tenne lo sguardo fisso sul profilo del suo accompagnatore e fece la buona grazia a tutti quanti di rimanere in silenzio.
    Silenzio che, a quanto pareva, quel giorno volevano tutti mettere a dura prova.
    Non vedeva Albert da mesi, ma non avrebbe avuto bisogno di sentirne la voce o coglierne le parole per capire che fosse lui: lo vedeva nello sguardo, ora di qualche sfumatura più azzurra, e nella piega schifata delle labbra.
    E poi, quel viso Nice lo aveva già visto la notte del suo ultimo prom, anni prima.
    «Per fortuna Akelei può contare sul suo splendore naturale, perché quel vestito è davvero… insulso.»
    «O forse sei te a non avere gusto»
    Portò una mano a accarezzare distrattamente il petto del generale, e con una singola occhiata (ad Hyde, di supporto.) a Renée, gli ricordò che non c’era bisogno che combattesse le sue battaglie per lei.
    «non lo so, a me il vestito pare perfetto»
    Poteva fare da sola.
    «Lo è, non sprecare fiato con chi non ha le competenze per poter giudicare.» Già solo la scelta dell’abito fatta da su* cugin* la diceva molto lunga. Stava chiaramente brancolando nel buio, senza di lei.
    (In più modi di quanti Nice potesse immaginare.)
    Alzò lentamente lo sguardo in direzione del Capo del Consiglio, poi, trattenendo a fatica un sorriso a metà; un gesto con la testa fu l’unico salutò che affidò all’ex coinquilino, sapendo che sarebbe bastato ad entrambi. «Ora se volete scusarmi,» non aveva voglia di affrontare Albie in quel momento, fra tutti quelli possibili. Indicò con un cenno del capo un gruppo di ministeriali più in la, «con permesso.»
    E senza attendere un loro saluto, e senza nemmeno portare con se Renée, Nice si allontano in fretta prima di cedere alla tentazione di prendere a sberle il Behemoth.
    Aveva visto Albert, aveva persino intravisto i suoi zii tra le centinaia di facce radunate quel giorno, ma l’unica coppia che avrebbe voluto vedere in quel momento non era lì. Dove diamine erano i suoi genitori? Perché… perché non erano lì? Nice avrebbe pagato oro per vederli, anche solo da lontano, felici e spensierati, a mettersi in ridicolo sulla pista da ballo come in tante altre occasioni precedenti.
    Affidò la morsa che sentì stringere al petto ad un bicchiere di champagne, mandandone giù il contenuto con foga ma allo stesso tempo con una certa eleganza, lungi da lei dare l’impressione di volersi affogare con le bollicine.
    (Tentazion spericolata.)
    Il gruppo di ministeriali, comunque, lo aveva raggiunto davvero – per dare contesto e veridicità alla farsa – pur senza partecipare attivamente alla loro conversazione. Cosa stavano dicendo? Nice non ne aveva idea, era lì solo per non dover essere da nessun’altra parte. Soprattutto per non essere da nessun’altra parte.
    Eppure.
    «lo so che è uno sbaglio, lo so che sono uno sbaglio»
    Si girò lentamente, flute stretto tra due dita come se ne andasse della propria vita; si girò lentamente, e pur avendone riconosciuto la voce, non si era davvero aspettata di vedere Dominic lì, di fronte a lei. Era fottutamente sorpresa avesse trovato il coraggio di affrontare i propri demoni e avvicinarsi.
    Era quasi certa di star immaginando tutto, per questo motivo si limitò ad abbassare lo sguardo sul braccio allungato dal guaritore, domandandosi distrattamente se, toccandolo, avrebbe finito solo per tentare di stringere tra i propri palmi solo aria.
    «ma vuoi ballare con me?»
    Quel maledetto sorriso, e quegli occhi sinceri nei quali Nice si era persa fin troppe volte, anche a discapito del buon senso. Faceva troppo male, in aggiunta a tutto il resto.

    «sono tre anni che mi esercito aspettando questo momento»
    Non c’era bisogno che Dominic specificasse altro, Nice aveva ben chiara nella mente l’immagine di loro nella stanza in infermeria, nudi e accarezzati dalle prime luci di quella fatidica alba, il giorno in cui erano cambiate per sempre le cose tra loro.
    Ancora una volta, quel pomeriggio, il ricordo del suo ultimo prom tornava a bussare con prepotenza.
    «sbaglia con me»
    Cosa fare se non sostenere lo sguardo dell’altro, cercandovi all’interno, involontariamente, la promessa che non l’avrebbe più fatta soffrire come in quegli ultimi, terribili, mesi?
    Difficile, impossibile, non pensare ancora una volta al Dom di quella mattina, al quale aveva affidato completamente se stessa pur sapendo di star commettendo un errore; quel Dominic che l’aveva amata come la prima volta, e di più, e che lei aveva lasciato senza risposte e senza rimorsi, nella penombra di una stanza le cui pareti erano ancora impregnate di ogni loro istante d’amore.
    Abbassò appena le palpebre, la stilista, decisamente non così forte come aveva creduto di essere.
    Perché, al contrario di quanto aveva cercato di dirsi, Dominic le era mancato tantissimo. Le mancava tutt’ora. Sapeva che perdonarlo sarebbe stato difficile, perché lui aveva scelto volontariamente di partire per il fronte ben due volte, quando sapeva che fosse l’unica cosa in grado di terrorizzare la Hillcox in maniera impensabile, l’idea di perdere di nuovo qualcuno di caro — era lo stesso motivo per cui non poteva perdonare Albert. Loro avevano perso tutto, in un’altra vita; lo avevano perso insieme. Come poteva non capire?
    E Dominic.. Dominic, ad un passo da lei, con il braccio teso in sua direzione, e la speranza a piegare timidamente gli angoli della bocca in un sorriso incerto.
    Nelle notti più difficili, quando ogni certezza era venuta a mancare, e lei si era ritrovata sola in un appartamento nuovo con l’unica compagnia del gatto, aveva desiderato intensamente potersi rintanare tra le braccia del guaritore e lasciare che lui le accarezzasse i capelli e le ripetesse che andava tutto bene. Perché, nonostante tutto, amava Dominic Cavendish. E non c’era verso di cambiare quei sentimenti.
    Né voleva farlo.
    Allungò il braccio per lasciare il flute, pieno a metà, sul vassoio di un cameriere, e poi offrì la propria mano al biondo. «Spero tu ti sia esercitato parecchio, Cavendish.»
    Potevano ancora provare a ricostruire… qualcosa? C’era ancora speranza per loro?
    Nice si domandava se sarebbe stata in grado, prima o poi, di guardare Dominic negli occhi e non sentire il cuore rompersi come la mattina in cui aveva trovato il biglietto sul cuscino, o come quando avevano litigato nella cucina del loro appartamento, e si erano fatti male a vicenda — sarebbe stato molto difficile, pensò, mentre il lento (scelto da elisa per i gugel, quindi ce lo becchiamo anche noi zia), cresceva e riempiva la sala, e Nice sceglieva ancora una volta di sbagliare, nella speranza di non doversene pentire di nuovo.
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    Hold si era aggrappata alla manica del completo di Sinclair come se fosse l'ultimo baluardo per rimanere in vita o, peggio ancora, evitare di cedere all'impulso di scappare a gambe levate e non farsi mai più vedere in giro.
    Domandarsi se fosse possibile che avesse letto tutta la situazione in modo errato non fu nemmeno necessario — era certa fosse così; dopotutto, si trattava di Hold May Beer, no? Quella che non capiva i social clues o anche solo banalmente le persone: che si fosse fatta un film tutto suo non era solamente probabile, era anche altamente possibile. Praticamente una certezza.
    Era troppo tonta per capirlo da sé, e forse era anche troppo ottimista per rendersi conto che non c'erano speranze, ma sapete cosa? Non sarebbe stata Hold se si fosse arresa, o se non avesse fatto le cose alla sua maniera. Ma aveva bisogno di aiuto; tutto l'aiuto possibile.
    Oh grandpa Sin, give me strength.
    O, come in quel caso, give me lezioni di ballo.
    «vieni che ti insegno a ballare come…» sollevò le sopracciglia con curiosità, la special, in attesa di sapere come cosa, e trasformò l'espressione in una di sollievo quando Sin finì con quel «come si deve»
    Lo sapeva che poteva contare sul vecchio!
    Si lasciò guidare, posando le mani esattamente dove Sin indicava, sperando forte forte di non avvelenarlo accidentalmente, nell'ansia. «non è per niente facile» stare al passo con la musica, specialmente per una che il ritmo non ce lo aveva nemmeno sull'unghia del mignolo. «ho subito torture più divertenti» cosa di cui il dottore era ben più che informato, ma dovette ricordarsi che lo stava facendo per un fine più grande; perché anche se nella sua delulu era, Hold ancora ci credeva forte. Oh, poi al massimo avrebbe beccato solo un palo in faccia e amen.
    «credi che–» no, sai cosa? C'erano dei limiti che non poteva superare, e chiedere a Sin se credeva avesse qualche possibilità con sua nipote era un po' troppo audace persino per la Beer.
    Chiuse quindi la bocca, lasciando che fosse Sin a guidare ballo e conversazione.
    «come va? ti stai divertendo? prima ti ho visto parlare con kieran, sembravate…affiatate»
    Oh no.
    L'aveva notato anche lui?!
    Nella confusione (soprattutto mentale.) sbagliò nuovamente tempo e finì col calpestare il piede di Sin con i propri mocassini. «ah ah. Sì, siamo affiatate... siamo grandi amiche!1!1» Quasi un trillo, la voce della legionaria, quando trovò il coraggio di confermare quanto velatamente sospettato dall'altro; se anche lui percepiva quelle vibes "amichevoli", voleva dire che non fosse tutto nella testa di Hold. *sad face emoji*
    (No, ovviamente non aveva capito un bel niente.)
    «siamo venute insieme!! Come amiche!!» meglio specificare? Magari… magari all'Hansen piaceva Hold come kindish figlia adottiva di cuore, ma non abbastanza come possibile nipote-in-law; meglio non tirare troppo la corda!
    Quando pestò per l'ennesima volta i piedi di Sin, si inchiodò sul posto sbruffando. «non fa per me, ci rinuncio.» Aveva sempre creduto che, se le avessero dato la possibilità di frequentare Hogwarts come Just, sarebbe finita in grifondoro anche lei — ma in momenti come quelli, perdeva anche quelle certezze.
    «forse non sono l’insegnante adatto»
    «nah, il problema sono io» lo diceva anche Taylor Swift. Cosa che non disse al vecchio, perché dubitava la conoscesse (lei per prima a malapena sapeva chi fosse, e solo per vie traverse.) (Le vie traverse: Kieran)
    «sai chi è un'insegnante migliore di me?»
    «alessandra celentano?» cosa? Cosa.
    Lasciò che Sin la facesse piroettare come una ballerina volante in mano ad una ragazzina di quattro anni, e se ne pentì quasi immediatamente nel vedere tutta la stanza ondeggiare.
    Quando poi decise di fermarsi, fu ancora peggio.
    «kier, ti dispiace? hold mi stava giusto dicendo che voleva ballare. credo tu sia libera, no?»
    Oh no. OH NO.
    Nonno Sin?!?!? TRADIMENTO!!
    Hold cercò subito lo sguardo dell'uomo, tutto pur di non specchiarsi nella stessa espressione confusa e imbarazzata della mimetica, e mimò con le labbra un non mi lasciare ti uccido silenzioso.
    Ma in un battito di ciglia, Sinclair non era più lì.
    Aiuto?!?!?
    All'acidocineta non rimaneva dunque che voltarsi, e affrontare la Sargent. «io… uhm… faccio davvero schifo, eh, te lo dico.» alzò subito le mani, e le difese, pronta al rifiuto dell'altra special, ma trovò comunque il coraggio di allungare la mano verso la sua e stringerla delicatamente. «kieranvuoiballareconme? aiuto. AIUTO.
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    balla con si, poi chiede a kier se vuole ballare con lei
     
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    Lance avrebbe voluto essere una persona migliore di così.
    No, non migliore nel senso di meno egoista, meno falsa, meno ambiziosa; no, migliore nel senso di più forte. Perché non c’era nulla di adulatorio nell’essere così debole da ritrovarsi, suo malgrado, a tenere traccia dei movimenti di un certo dottore, e seguirli con ancora più attenzione nel vederlo muoversi sulla pista da ballo.
    Fosse stato migliore (non sarebbe stato Lawrence) non si sarebbe trovato affatto in quella situazione, tanto per cominciare; e non avrebbe tirato in mezzo nemmeno il povero sconosciuto che aveva avvicinato. Fosse stato migliore, sarebbe stato molto meno divertente vivere la sua vita.
    Dovette ricordarsi che, tutto sommato, essere com’era gli piaceva moltissimo, e non aveva alcun rimpianto; l’aver ceduto ad uno sguardo di troppo non significava assolutamente nulla. Aveva imparato la lezione, Lawrence, l’aveva imparata molto bene; aveva smesso da tempo di correre dietro qualcuno che, sin dal principio, non avrebbe dovuto cercare. Per Sinclair Hansen, Law aveva infranto tutte le sue regole: aveva fatto ciò che aveva giurato di non fare mai – tornare due volte dallo stesso uomo – e si era reso ridicolo, dimostrando di avere qualcosa a battere nel petto, nonostante avesse cercato comunque di nasconderlo dietro (inutili) tentativi di negoziare qualcosa che, lo aveva assicurato lui, avrebbe favorito entrambi.
    Sapeva di star mentendo, che quel “un’ultima volta, come addio?” era poco credibile anche se accompagnato da una postura disinvolta e da un sorriso morbido a piegare le labbra. L’aveva saputo anche Sinclair, e aveva deciso di smascherare il gioco di Lance, dandogli quello che mai nessuno prima di quel momento aveva osato: il benservito.
    «credevo che la scorsa volta fosse l’ultima volta.»
    Lance, quelle parole, se le ricordava ancora.
    Così come ricordava le venature nel legno della porta che il vecchio bastardo gli aveva sbattuto sul naso subito dopo.
    Perciò sì, Lawrence aveva chiuso con lo special, e avrebbe davvero voluto essere più forte di così e non cedere alla stupida tentazione di vedere cosa facesse, con chi lo facesse, e se fosse felice della situazione.
    Raphael (dai, nel frattempo si è presentato, ho deciso io) sembrava esattamente ciò di cui il Matheson aveva bisogno: un passatempo. Un ripiego. Avrebbe potuto dire che gli dispiacesse per l’uomo, che oggettificarlo in quel modo era sbagliato da parte sua, ma non era così; Lawrence Matheson non si poneva quel genere di problemi morali. E stando ai sorrisi ricambiati dal Vaughan, sembrava disponibile a starci — perfetto per entrambi, no?
    Così, seppur a fatica, si era costretto a distogliere l’attenzione dall’Hansen e riportarla sull’altro, già stufo delle chiacchiere vuote e smanioso di passare ad altro; leggenda narrava che ci fossero un sacco di stanze disponibili, nella struttura, e che stessero già andando a ruba.
    «quindi, raph –»
    «ah lawrence, eccoti. ti stavo cercando»
    Non lo aveva perso di vista, oh no; era perfettamente conscio di ogni spostamento dell’altro. Ci aveva provato a non farlo, ma aveva fallito, e anche se in maniera marginale, ne aveva comunque registrato ogni movimento e ogni espressione. L’aveva saputo ancora prima di sentirne la voce così vicina che Sinclair sarebbe stato il primo a cedere, e aveva avuto ragione.
    Sfarfallò le ciglia in direzione di Raphael, fingendosi mortificato per quell’interruzione, e poi si voltò lentamente verso l’Hansen. «eccomi, sono qui.» sono sempre stato qui, avrebbe voluto urlare; ma era – un cazzo di falso. – un signore, e si limitò a sorridere mentre Sin gli sfilava il calice dalle mani, attento a non sfiorare nemmeno per sbaglio le sue dita.
    Sapeva benissimo a che gioco stesse giocando lo special, e non era disposto ad abboccare. Così si limitò a mantenere il sorriso sulle labbra, sereno e docile, e a scuotere piano la testa. «oh no, ci stavamo giusto conoscendo.» Una mezza occhiata di sbieco al prof, e il sorriso a farsi più imbarazzato, come se lo avessero colto sul fatto.
    Si permise di indugiare un po’ sulla figura del Vaughan, prima di tornare a guardare Sinclair.
    «c’è qualcosa che deve dirmi, doc?»
    Credevo che la scorsa volta fosse l’ultima volta.
    Quell’immagine bruciava ancora nella sua mente, e sperava che almeno un po’ Sin riuscisse a scorgere parte di quel rancore che bruciava nello sguardo castano, ora tutto per l’Hansen.
    Alzò un sopracciglio quando l’uomo lo informò che forse quello non era il posto giusto, e dovette pensare un attimo sul da farsi: una parte di lui era già pronta a scattare e seguire Sinclair, perché aveva preso certe abitudini che erano difficili da perdere; mentre l’altra, quella più infida, avrebbe voluto avvinghiarsi al Vaughan e vedere Sinclair Hansen diventare verde d’invidia e mangiarsi le mani.
    «ok.»
    Disse semplicemente, riprendendosi il calice dalle mani di Sin e allontanandosi, offrendo le sue più sentite e sincere scuse al povero professore.
    Lo sapeva che era uno sbaglio.
    Lo fottutamente sapeva.
    Si era già bruciato una volta negli ultimi mesi, che era più di quanto non avesse mai fatto nella vita, e anche se sapeva che a soffrire fosse stato unicamente il suo orgoglio (e nient’altro, parola di scout), non voleva essere preso in giro un’altra volta. Gli venne in mente quella stupida canzone dell’ultimo film Disney visto con Bollywood, e una smorfia di scherno rivolta a se stesso si fece largo sul viso dolce, mentre attraversava la sala del ricevimento e imboccava il corridoio che portava ai bagni e alle cucine; non era quello il momento di pensare a come anche il mondo di Law e quello di Sin avrebbero fatto meglio a non incrociarsi mai, a come la sua vita fosse andata liscia come l’olio fino alla guerra – e subito dopo –, a come cercare conforto nell’uomo fosse stato stupido, infantile e francamente ridicolo.
    A come, persino alle sue orecchie, le sue scuse fossero suonate vuote.
    Ed infondo se Sin l’avesse detto, se avesse ammesso che fosse reale, forse sarebbe stato peggio; nessuno dei due poteva permettersi… quello, qualunque cosa “quello” fosse. Era stato il primo, e forse uno dei pochi, argomenti su cui erano stati d’accordo.
    Non li aveva comunque fermati.
    Soddisfatto della nicchia nel muro, nascosti dietro una colonna, vicini alle scale che portavano alla taverna in disuso, Lance finalmente si fermò, e incrociò le braccia prima di rivolgersi a Sin, ogni espressione di finta cordialità o morbidezza spazzata via dai lineamenti giovani. «quindi ora vuoi parlare?» lo fissò con intensità, senza cedere terreno, «oppure eri solo geloso e volevi evitare che qualcun altro potesse avere quello che tu non hai voluto?» non un comportamento maturo, per uno della sua età, duh. «perché io l’ho accettato, sai?» bugiardo; ma si era ripetuto così tante volte che infrangere le sue regole per un uomo qualsiasi non valesse la pena da finire quasi col crederci.
    Quasi.
    «forse dovresti fare lo stesso.»
    Credevo che la scorsa volta fosse l’ultima volta.
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    SPOILER (click to view)
    puramente self-indulgent, parla solo con sin, potete non leggere, interessa solo ad elisa ciao
    ah si, la canzone menzionata è questa
     
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    Quindi, l’ex corvonero non aveva mangiato, e incredibilmente aveva fallito anche nel bere; in pratica aveva passato l’intera cerimonia a registrare i movimenti delle sue persons of interest? Sì, e stigrandissimicazzi se di tanto in tanto era stato fin troppo plateale nel guardare, e se le occhiate lanciate al biondo non erano state del tutto gentili. Non era bravo a nascondersi, Dominic, e di certo prender parte alla guerra non lo aveva trasformato in un Rambo provetto capace di mimetizzarsi tra i cespugli. Ci aveva provato, ma davvero non era riuscito a non prestare attenzione a qualsiasi movimento della sua ex ragazza, e di certo non a toglierle gli occhi di dosso – non ci era mai riuscito nemmeno in circostanze più favorevoli, figurarsi in quel momento. E come se quello non fosse abbastanza, per la nuova fiera della tortura, una volta che i suoi occhi avevano preso nota di quelle immagini, non era più riuscito a eliminarle dalla sua testa, ma le rivedeva e riviveva in loop, quasi come se il suo cervello si divertisse a tormentarlo e a prendersi gioco di lui.
    Il solito, crudele, promemoria che era stato lui l’artefice del suo destino e che se c’era un altro ragazzo al fianco della Hillcox quella sera, la colpa non era che la sua.
    Bel lavoro, Cavendish – ma quella non era di certo tra le espressioni che la vocina della sua coscienza continua a ripetergli, che invece prevedevano sfumature più colorite che facevano parte del campo semantico di “idiota” e altri epiteti poco carini.
    Ma il vocabolario con l’etichetta vietato ai minori era solo la punta dell’iceberg, e pertanto la parte meno dolorosa di tutta quella situazione.
    Era geloso, il Cavendish, e non nel modo (un po’) teneramente adolescenziale, quello non era un capriccio, e non era una questione di orgoglio personale. Non sentiva il bisogno di affermare che fosse arrivato prima di qualcun altro, che le dita accorte di Nice avevano compiuto lo stesso percorso sulla sua schiena prima di farlo su quella di un altro; non sentiva la necessità di asserire una certa superiorità rispetto all’altro ragazzo – benché più di una volta il pensiero di marcare il territorio con un pugno dritto dritto sul naso del Calloway gli fosse saltato in mente, è giusto che tu lo sappia Zelda.
    La gelosia che stava provando in quel momento era ben diversa da quella che aveva provato da diciassettenne, quando si era visto soffiare la fidanzata da sotto il naso, e in questo caso aveva anche ben poco a che vedere con l’altro ragazzo. Quello che sentiva più di tutto era una nostalgia viscerale e quasi distruttiva, una mancanza che si manifestava sul piano fisico – e quei sentimenti non riguardavano nessun altro se non Nice Hillcox.
    Sì, era vero che, tra le altre cose, ci era passato prima lui, ma non pensava che quel dettaglio lo rendesse il detentore di un qualche premio o permesso speciale; tuttavia, proprio sulla base di quello, sapeva perfettamente quale potessero essere gli effetti di quelle attenzioni, lo ricordava fin troppo bene – ed era quello che lo teneva con lo sguardo incollato alle due figure vicine. Non riusciva a fare finta di niente.
    Aveva percepito la tranquillità che quella carezza sulla schiena doveva aver trasmesso a Zelda perché c’era stato prima lui, e aveva sentito i suoi muscoli rilassarsi ogni volta che le dita affusolate della stilista avevano percorso la sua pelle; aveva percepito la sicurezza e la fermezza della mano della mora sul petto perché lui ci era passato già, aveva compreso ogni sguardo complice e ogni occhiata di rassicurazione perché era stato il primo a rifugiarsi negli occhi chiari dell’ex serpeverde, cercando dietro il gelo apparente quel velo di inaspettata morbidezza. E ad ogni scenario di quel tipo, a ogni ricordo, aveva sentito la voragine nel suo stomaco farsi sempre più grande, e il cuore sprofondare lentamente nelle viscere del suo corpo. Dominic era geloso, sì, ma lo era di tutte quelle attenzioni che la ministeriale non gli avrebbe mai più rivolto (a ragion veduta, ma questo era un altro discorso), di chiunque fosse il ragazzo che l’accompagnava quella sera perché sapeva che sarebbe stato migliore di com’era stato lui – come amico, come fidanzato, come conoscente, o qualsiasi fosse il loro status. Era geloso dello sguardo privo di rancore e del tocco morbido e delicato, ma ancor più che geloso, Dominic si sentiva perennemente in apnea, e sapeva che ci fosse un solo modo per tornare a respirare.
    Era quindi rimasto col braccio teso verso Nice, il respiro bloccato nell'attesa, e solo quando — finalmente — lei gli porse la mano poté svuotare i polmoni e lasciarsi andare a un accenno di sorriso; perché quel tocco morbido era così familiare da farlo sentire immediatamente a casa per la prima volta dopo mesi, perché l'aveva desiderato per così tanto tempo che gli sembrava che il palmo della mano bruciasse a quel contatto, e aveva paura di lasciar andare la presa e rovinare tutto.
    Strinse allora con decisione ma delicatezza le dita della mora nella sua mano, azzardando solo a una leggera carezza sul dorso di lei con il pollice, e poi fece un passo indietro, trascinando Nice con sé verso la pista da ballo, ma dopo aver lanciato dopo una veloce occhiata alla sala cambiò repentinamente idea. Si fermò, allora, e fece mezzo passo avanti verso la ministeriale, diminuendo quasi completamente la distanza tra i loro corpi e i loro visi, senza mai lasciare la presa dalla sua mano. «so che ti sto chiedendo tanto» abbassò appena lo sguardo sui suoi occhi «ma fidati di me» era consapevole anche lui di quanto pesassero quelle parole, ma strinse con un po' più di convinzione la mano nella sua, e poi li smaterializzò.

    [stacchetto? Stacchetto.]

    Freddie poteva non sapere l’anno in cui si era diplomato Nate (ma avevano trent’anni, ancora a pensare all’anno del diploma? Eddai Nathaniel, gli amici adulti non parlano di queste cose!!1) o che Piz avesse frequentato proprio la stessa scuola e la stessa casata del sopracitato collega negli stessi identici anni (ma come poteva saperlo se avevano scambiato in tutto dieci parole, sette di cui agli incontri scuola famiglia, e per la maggior parte del tempo il Faustus era stato distratto dalla circonferenza spropositata dei suoi bicipiti?), ma sapeva ballare. Eccome se sapeva farlo, incredibile ma vero.
    Casa Faustus poteva anche esser stato un inferno per lui da bambino – e lo era stato – ma a certe tradizioni nobili non si poteva rinunciare neanche quando non si aveva più un soldo e la famiglia era allo sfascio. Le lezioni di balli classici (e tradizionali, duh) non ammettevano repliche, e nemmeno sua madre, ma Fred non aveva mai pensato di essere davvero portato per quel genere di cose, era troppo rigido e impostato e… ora che ci pensava bene l’ultima volta che aveva ballato con qualcuno era stata…
    (lo sapete tutti quando è stato, non c’è bisogno che lo dica .)
    si voltò verso il bancone e ordinò un calice di champagne, «due» si corresse, perché l’alcool non era mai abbastanza quando il letterinegate tornava a tormentarlo; e poi erano (quasi) tutti lì, difficile non pensarci. Prima o poi avrebbe smesso di fingere che quel giorno non fosse mai esistito e avrebbe preso la situazione di petto, ma quello non era ancora il momento giusto per farlo. E allora mentre il centro della sala veniva pian piano occupato da coppiette – e non – che accompagnavano Will e Akelei nel loro primo ballo, lui se ne stava lì in disparte, felice di non dover ballare, e pronto a mandare giù anche quel bicchiere di alcool, scansionando distrattamente la sala; esattamente la stessa cosa che stava facendo, dall’altra parte della stanza, Nelia Hatford. Le cattive abitudini erano dure a morire, e pure vestiti di tutto punto per la cerimonia non riuscivano a svestirsi completamente dei panni di professori (e quindi supervisori).
    Sigh.
    Gli toccava davvero affrontare quella situazione di petto, prima o poi, quindi quando il cameriere gli consegnò i sue due calici di champagne, prese un respiro profondo e senza pensarci due volte attraversò la sala a grandi passi per andare ad affiancare la Prof di Corpo a Corpo.
    «mh, penso tu possa rilassarti per il momento» si avvicinò cauto e a passi lenti «non ci sono bambini da sorvegliare oggi – nemmeno Eugene, la gravidanza deve avergli fatto bene» lanciò un’occhiata al Professore di AO e alla sua famiglia, poi tornò a posare lo sguardo sulla Hatford, quindi le offrì uno dei calici. Cosa avrebbe dovuto dirle? cosa si diceva in quei casi?
    Quella situazione lo metteva a disagio e in imbarazzo, e credeva che fosse più che evidente, ma per una volta tanto decise che quello poteva passare in secondo piano, perché poteva solo immaginare quale scene avevano tormentato la fu Meisner in quel giorno, e se anche non sapeva quali parole fosse meglio usare, poteva accogliere il consiglio dell’Henderson e semplicemente provare ad essere un amico.
    Prese solo un sorso dal suo flute e guardò distrattamente la sala muoversi a ritmo per quel ballo «è stata… una bella cerimonia» tornò a prestare attenzione alla collega al suo fianco «sta per finire» continuò stirando appena l’angolo delle labbra all’insù in un sorriso più morbido, con il sottotesto nemmeno troppo nascosto che tra un po’ avrebbe potuto rilassarsi e lasciarsi andare anche lei. E poi, perché all’imbarazzo non c’era mai fine: «stai molto bene comunque, complimenti» dai, era stato abbastanza amico?? quanto su una scala da brofist a bacio in fronte? hhh

    [stacchetto n.2? stacchetto n.2]

    Avrebbe potuto scegliere tanti posti; sarebbe potuto tornare a Firenze e rivivere il primo vero appuntamento ufficiale, o andare in cima alla Torre Eiffel, nella città degli innamorati per eccellenza, nella stanzetta dell'infermeria di Hogwarts o nel salotto di casa loro, posti privati e pieni di significato; ma la verità era che quello era il posto perfetto, e non c'era nulla che potesse competere con l'atmosfera di un matrimonio; ma sentiva anche di aver bisogno di un momento solo per loro per potersi dare l'opportunità di essere vulnerabili.
    Il viaggio fu breve e indolore, e atterrarono con i piedi sul prato poco lontano dalla sala della cerimonia. Potevano sentire la musica riecheggiare in lontananza, gli applausi e i cori di incitamento per il primo ballo della coppia di neosposisini, e le luci delle decorazioni li illuminavano fiocamente, ma erano solo loro due, e questa era l'unica cosa che importava al Cavendish.
    Si schiarì leggermente la voce, mentre si prendeva solo un attimo per cercare sul telefono la canzone giusta (la numero 3, secondo il sondaggio, ma visto che sono comunque ascendente bilancia le metto tutte); almeno quello non era un compito troppo difficile, ce l'aveva pronta da ben tre anni.
    Solo allora, con un sorriso un po' timido, strinse più saldamente la mano della ragazza nella sua e poi l'avvicinò a sé, tenendola stretta al suo corpo con l'altra mano alla base della schiena.
    Se gli era bastato il leggero contatto di prima per tornare a sentire l'aria nei polmoni, quella vicinanza, d'altra parte, stava per regalargli l'effetto opposto, perché sentiva che un infarto era più che vicino; e credeva che anche Nice lo sapesse, perché il tumtumtum del suo cuore era fin troppo veloce e assordante perché l'ex serpeverde non se ne accorgesse. Ma la tensione sembrava essere accumulata tutta lì, e fortunatamente pareva avergli risparmiato le gambe, perché sebbene più che un ballo vero e proprio fosse più simile a un lento e cadenzato ondeggiare, non si tirò indietro da quei movimenti, e piuttosto ne prese la guida — si era allenato davvero, mica aveva esagerato.
    Inspirò profondamente e lasciò che il profumo della Hillcox gli penetrasse nelle narici, come se bastasse quello a infondergli la calma, e poi abbassò appena il viso per sfiorare con la punta del naso l'orecchio della ragazza — perché nonostante fossero vicini e fossero da soli, parlare a bassa voce era comunque una delle regole base del lento. Again, aveva studiato, ve l’avevo detto. «spero che il tuo fidanzato te l'abbia già detto che sei bellissima» la sfumatura ironica nel tono non era così difficile da notare, così come non lo era il particolare accento posto su quella parola; certo che sperava in una smentita, ma non se l’aspettava nemmeno – conosceva abbastanza la ragazza da sapere che se poteva lasciarlo un po’ a soffrire, l’avrebbe fatto volentieri. «altrimenti mi toccherà dargli qualche consiglio» si concesse addirittura del sarcasmo e rise spontaneamente di se stesso, ma tornò serio dopo un attimo e si prese del tempo per apprezzare la musica prima di parlare di nuovo all’orecchio della minore «non sono la persona adatta a dare consigli» chiarì, a scanso di equivoci «ma se fossi il tuo fidanzato ti direi davvero che sei bellissima, che sono fortunato ad averti con me, che non farei mai niente che possa farti soffrire, e – esitò solo per istante, con le labbra appena dischiuse a pochi centimetri dal viso di Nice – e che ti amo tanto» spinse leggermente leggermente le dita sulla sua schiena e la strinse ancora un po’ al suo corpo, ma poi rimase in silenzio e lasciò che fossero di nuovo la musica e il suo battito irregolare a riempire il vuoto tra di loro – perché dopotutto lui non era più il fidanzato di Nice, e non poteva dirle niente di tutto quello.
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    Inutile dire che Mona avesse spento il cervello nel momento stesso in cui Lawrence e Cherry avevano iniziato a fare le loro solite cose, un po’ come faceva con i bens quando questi iniziavano a parlare tutti insieme, e minacciavano di abbassarle il QI solo con le loro chiacchiere.
    Di stare a sentire quanto i due amichetti avevano da dirsi, Mona non ne aveva proprio la minima intenzione; preferiva rimanere assente a tutto il discorso, lasciar correre le iridi zaffiro sulla sala che si riempiva e sperare di intravedere almeno un viso amico.
    E invece, pure a cerimonia iniziata e finita, degli altri bens nemmeno l’ombra.
    Da un lato, se lo era aspettato: aveva parlato di quel matrimonio con i suoi amici a lungo, sottolineando come fosse orgogliosa del fatto di esser stata invitata a quello che era, di fatto, il matrimonio del secolo — non le interessava tra chi fosse, ma solo che esistesse nello spazio e nel tempo e contasse la presenza di tutte le persone che contavano qualcosa nella società magica. Chi non c’era era uno sfigato — ben compresi. La rattristava solo la mancata presenza di Bennett, che almeno avrebbe potuto fare lo sforzo di presentarsi come accompagnatrice di sua sorella che, a detta della Benshaw, aveva un’aria misera; per essere la damigella d’onore, la prof Hatford sembrava più star partecipando ad un funerale.
    «hai visto qualche tuo amico?
    Quasi come a voler sottolineare la sua capacità di leggerle nella mente, Cherry scelse proprio quel momento per rivolgersi alla sorellina, distraendola dai suoi pensieri. Mona, dal canto suo, non si era nemmeno resa conto di cosa fosse successo fino a quel momento, perché aveva di nuovo spento il cervello e isolato la conversazione tra gli shade in favore della propia sanità mentale. «No.»
    Secca, una risposta che chiaramente non voleva avere un seguito: di parlare dei bens, in quel momento, non le andava.
    Accettò comunque il macaron offerto da Cherry, lanciando un’occhiata di sbieco al terzo incomodo. «Ah, è ancora qui.» E lei che sperava di averlo manifestato via. Una ragazza poteva sognare…
    «Ora che ci penso, potrebbe esserci anche Bennett da qualche parte»
    Solo a quel punto alzò le iridi turchesi verso Cherry, scostando con attenzione una ciocca rosa da davanti al viso. «No, non c’è.» Altrimenti Mona sarebbe già gravitata senza alcuno sforzo in direzione della concasata, lasciando a sua sorella e quella sottospecie di rappresentante del genere maschile alle loro cose. «Non sono venuti.» Se c’era rimasta male? Sì, ma solo un po’ e non l’avrebbe né dato a vedere, né confessato.
    E comunque, Cherry non era l’unica in grado di sapere leggere la mente della sorella. Buttò un’occhio alla coppia di neo sposi che salutava gli invitati al centro della pista, e scambiava due o tre parole con chiunque li avvicinasse: poveri cristiani, nemmeno la cena gli lasciavano godere in pace. Che cosa terribile, i matrimoni.
    «Uno spreco, eh.» Lasciato cadere così, con leggerezza, mentre mordeva quel che restava del dolcetto e puliva le dita con il tovagliolo. «Ne perdiamo un’altra per un penemunito.» E lo sguardo che poi andò a cercare, volutamente giudicante, la Benshaw maggior era tutto un dire: come qualcun altro.
    Che Mona sapesse o meno le specifiche della nuova relazione di sua sorella, non era importante – ma sì, sapeva molto più di quanto desiderasse –, rimaneva il punto che fosse delusa da Cherry perché aveva scelto – ugh!! – un uomo. «Non capirò mai come si possa scegliere un uomo detto con il tono più derogatory possibile, «quando al mondo ci sono così tante belle ragazze.» Beh, più per lei immaginava, no?
    Non si era nemmeno accorta che Lawrence si fosse allontanato, tanto il peso specifico che l’ex serpeverde aveva nella sua vita, ma era felice di avere Cherry tutta per sé e poterla roastare un po’ per le discutibili scelte di vita fatte nell’ultimo periodo. «Non lo pensi anche tu, sorellona
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    Mentre Nelia parlava, Mads faceva vagare lo sguardo sugli invitati, cercando le suddette minacce da cui avrebbero dovuto guardarsi. Quelli intorno a lei erano visi sconosciuti, per lo più - facce poco familiari che le ricordavano quanto dovesse sentirsi fuori luogo a quella cerimonia... e quanto tuttavia non ci si sentisse affatto. Non conosceva gli amici di William esterni alla resistenza, se non quelli che erano stati a Bodie o in guerra; non sapeva quasi niente di Akelei. Lì c'entrava poco e niente eppure, eppure, era nel posto giusto, al momento giusto.
    E dire che non pensava di essere una grande fan dei matrimoni. Anche quando stava con Dimitri, e pensava ci sarebbe rimasta per il resto della propria vita, non gli aveva mai permesso di parlare di sposarsi (dicendogli di ritirare fuori il discorso finita la guerra).
    «-...conoscendomi, rimarrò sul chi va la fino al taglio della torta» Mads ridacchiò, allungandosi per afferrare un bicchiere da un vassoio che passava (ringraziando con un cenno del capo e un grazie il cameriere).
    «Se stiamo attente noi, non dovranno farlo gli sposi, godendosi la festa» e quanto voleva se la godessero. Che continuassero a potersi guardare con quegli occhi innamorati, i sorrisi segreti. Non conosceva tutta la loro storia, ma se lo meritavano - di questo ne era certa.
    «tu ti stai divertendo? è stata una bellissima funzione, non trovi?»
    «lo è stata» portò il bicchiere alle labbra, lo sguardo incantato sulla sposa. «non ero mai stata a un matrimonio simile. Penso mi abbia un po'... scombussolata» Non raccontò dei matrimoni del '900 russo, o di Bodie, perchè non era quello il luogo e il momento - e sperava comunque Nelia capisse l'antifona -, ma si disse che dovesse essere quello ad averla fatta sentire tanto spaesata ma felice ma confusa. Cos'altro, sennò? «qui sono tutti così?»
    Nonostante i suoi occhi continuassero a cercare per un qualche istinto inspiegabile sempre gli stessi visi nella folla (William e la Beaumont, l'amico biondo di CJ, Sersha, il generale dell'esercito, l'altro ragazzo incontrato in guerra - Joe, Ellis...), notò comunque l'uomo che veniva verso di loro. Uomo che, a quanto pareva, aveva occhi solo per Nelia.
    Mads le posò una mano sulla spalla, sorridendole.
    «Vi lascio parlare» sarebbe rimasta se lei le avesse chiesto di farlo, ma non le pareva il tipo avesse... cattive intenzioni, non pareva neanche abbastanza ubriaco per mettere in imbarazzo sè e la ribelle.
    Forse Mads si presentò, forse no, chissà.
    Si allontanò dai due, pensando di tornare a cercare Nate, ma finì per dirigersi di nuovo ai tavolini, passando accanto a Ptolemy e alzando un flute in sua direzione in saluto.
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    MADS: risponde a nelia e poi si sposta per lasciarla parlare con freddie #fine
    volevo parlare con gente ma è passato troppo tempo e anche cercando di guardare i post non so più chi è dove, e tanto non penso risponderete ancora molto qui
     
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    Immune a tutti i colpi. Impassibile, perché sapeva incassare, e sapeva di meritarsi le occhiate bieche che non indugiavano mai troppo a lungo; il tono asciutto, e le parole avvolte al collo di una bottiglia. Guardò il pomo d’Adamo che si alzava ed abbassava ad ogni ampio sorso di vino, e si sentì il mostro che effettivamente era, e che Gugi non aveva mai creduto fosse: odiava fosse la causa di quel malessere, ed al contempo non poteva che esserne terribilmente, egoisticamente, sollevato. Se non felice, qualcosa che comunque ci andava molto vicino; poco lusinghiero ammetterlo, ma non meno onesto.
    Se fosse stato una persona migliore, non avrebbe voluto che la propria vicinanza facesse così male.
    Non lo era, e quel dolore era meglio del niente. Preferiva ferirlo, che lasciarlo indifferente; non aveva alcuna intenzione di rimuovere la lama che negli anni, in tutta la loro vita, aveva affondato fino ad incastonarla nella carne. Abbastanza crudele da smuoverla e far sanguinare, se significava trovarsi un nuovo incastro. Farsi posto dove bruciava di più, ed imprimere la forma delle proprie labbra dove nessuno avrebbe potuto toglierla. Non gli avrebbe mai augurato di sentirsi miserabile, ma non significava che fosse dispiaciuto nell’avere la conferma lo fosse.
    Che bastardo, Jamie Hamilton.
    Lo pensavamo tutti, qualcuno doveva dirlo.
    Portavano la propria rabbia ed il proprio dolore in maniera diversa, Jamie e Gugi. Si diceva che il profumo acquisisse note personali a seconda di chi lo indossasse, e lo stesso di poteva dire di un cuore spezzato. Era vetro, quello di Jamie. Tagliava se stesso dall’interno, e gli altri solo quando avevano la brutta abitudine di affondare le dita per toccarlo. Apparentemente, Jamie era perfetto: non aveva perso peso, non aveva occhiaie, e lo sguardo non portava traccia del vuoto a forma di William lasciato dalla sua assenza. Teneva quel ritaglio privato ed intimo; un quadro insalubre e scorticato solo per sé. Gliene lasciò un po’, quando cercò i suoi occhi. Era l’unico a cui avrebbe permesso di vederlo, indipendentemente da quale parte della barricata si trovassero – compagni d’armi, o nemici. Will non era la parte migliore di Jamie, sarebbe stata una visione alquanto banale e svilita della sua presenza nella vita dell’Hamilton, e meritava un ruolo migliore di quello. No: non aveva bisogno di lui per sentirsi più buono, più magnanimo, o meramente umano; era la parte per cui Jamie voleva essere migliore, e più buono, e magnanimo ed umano. Quello, signori miei, cambiava tutto quanto. Non Jamie, ma il resto sì. Rimase immobile pur non desiderando nulla più del passare le dita sulla gola del Barrow, delicate e familiari, e percorrere la linea della mandibola fino a perdersi nei capelli scuri. Per abitudine; perché fino a qualche mese prima avrebbe potuto farlo, e vincersi un sorriso imbarazzato ma felice. Glielo avrebbe ripetuto ancora che gli mancasse, se Will non avesse scelto quel momento per posare la bottiglia sul tavolo, e trascinare la sedia all’indietro. Allungò appena le mani per sostenerlo in quella che non sembrava affatto una posizione stabile, non era mai stato bravo a reggere l’alcool, ma non lo toccò. Non ancora. «perché no, tanto ormai che male può fare» Era più brillante di così, William Barrow; sapeva che potesse sempre fare più male, e gli stava di nuovo offrendo la parte più vulnerabile di sé lasciando che si armasse fino ai denti. Dio, se sapeva di non meritarselo. Avrebbe dovuto significare qualcosa che Jamie ne fosse consapevole, ed invece non cambiava nulla, perché era un egoista del cazzo ed una persona di merda. Non gli sorrise, mentre quello lo afferrava cercando d’essere il più impersonale possibile per trascinarlo in pista. L’avrebbe lasciato fingere, se era quello di cui aveva bisogno per tollerarlo al proprio fianco. L’aveva già fatto. Continuò a guardarlo senza dire nulla, lasciando perlomeno che fosse lui a gettare parte delle regole di quella partita. Aveva già scelto il gioco ed i partecipanti, poteva concedere al Barrow di tracciarne i confini – e scegliere in un secondo momento quando spingere, e quando rispettarli. Sospirò appena quando il palmo di Will scivolò sulla sua spalla, le dita nelle proprie. La sua mano libera la strinse al fianco del Barrow, e se lo tirò un po’ di più vicino a sé, non fu solo per assicurarsi che mantenesse l’equilibrio; se i polpastrelli scivolarono appena sotto la giacca, cercando il contatto più sottile della camicia e quello caldo della pelle sottostante, non erano affari vostri. Non chiuse gli occhi solo per il mero principio di non perdersi nulla – ma avrebbe voluto, così come avrebbe desiderato essere in grado di fingere che fosse ancora così, fra loro; che potesse farlo ridere con una pessima frase da rimorchio, e posare le labbra sul suo orecchio per suggerire in maniera dettagliata come sarebbe finita quella serata, e rubarselo lontano dal mondo. Tenerlo solo per sé. «volevi ballare con me, tutto qui?» Si lasciò guardare a sua volta, perché glielo doveva. Intinse solo un angolo della bocca nella parvenza di un sorriso, perché non era il momento né di ricordargli quanto lo trovasse adorabile perso nei fumi dell’alcool, né che il tutto qui fosse alquanto superfluo. Voleva le sue pigre mattine con lui. Voleva le sere passate a guardare stronzate in televisione, e quelle a scambiarsi bicchieri di vetro fino a che né l’uno né l’altro avevano vaga percezione del proprio corpo – ma riuscissero comunque a sentirsi a vicenda, perché non credeva esistesse stato di alterazione che gli avrebbe permesso di non sentire, fisicamente, la presenza di Will. Voleva ricordare quand’erano ragazzini, e rendersi conto ad ogni sobbalzo sorpreso che davvero il Barrow non si fosse mai accorto di quanto cazzo ne fosse stato innamorato sin quasi dall’inizio. Aveva ricordi specifici e vividi, Jamie, che gli piaceva raccontare in maniera diversa, suggerendo in bisbigli che quello avrebbero potuto averlo molto prima. Feste che Will a malapena ricordava, e di cui Jamie descriveva ogni piega dell’abito della ragazza aggrappata al suo braccio; di come il viso del Barrow, quando infine l’avesse visto nel resto degli invitati, si fosse illuminato, si, ma non nel modo giusto, e Jamie aveva ricambiato il sorriso pensando che morire non dovesse essere poi così diverso. «mi manchi anche te» Fu naturale, più istintivo del manipolare il tempo o respirare, stringerlo un poco più a sé. Fiati sottili e misurati, occhi densi del già detto e quello che non c’era bisogno di dire: non devo mancarti per forza. Dopotutto, in nessuno di quei mesi l’aveva mai perso. «ma mi fa più male stare qui, vicino a te, quando so quello che hai fatto» Deglutì. Di nuovo: avrebbe voluto, ma lo sguardo non lo spostò neanche di un millimetro dal volto del francese. Lo tenne lì, a pesare e pesare e pesare, perché non poteva cambiare il passato. Poteva solo riscrivere il loro futuro, ed avrebbe sgretolato il mondo sotto il tallone per molto meno che non riavere William Barrow nella propria vita. Lo avvicinò impercettibilmente a sé. La fronte ormai a pochi centimetri dalla sua, e così poco spazio per condividere parole, che Jamie voleva solo lasciargli i propri fiati, e che Gugi ne facesse quel che voleva. «ma soprattutto, mi odio per volerti ancora nonostante tutto» L’Hamilton era un soldato, ma non il più forte. Cedette, lasciando la propria fronte sulla sua. Spinse appena, scivolando fino ad avere le labbra sulla sua guancia, dove lasciò il fantasma di un bacio. Un contatto che poteva esserci stato, o forse se l’era solo immaginato.
    «lo so» mormorò, soffiando caldo sulla sua pelle. La presa sul fianco divenne più decisa, più un ricordo che una stretta. «odia me, non te.» la voce bassa, e la mano ad insinuarsi sulla base della schiena. Un’offerta; non di pace, Jamie conosceva solo guerra, ma un’offerta comunque. Stava facendo un gioco molto, molto sporco, ma nella maniera più trasparente ed univoca possibile. «puoi avermi, e odiarmi comunque» il cuore in gola, e la bocca asciutta. Sentiva di essere molto vicino a rompere almeno un paio di regole, ma non sarebbe stato lui ad infrangere quel tacito patto – non avrebbe fatto nulla per impedire il contrario. «puoi amarmi, e odiarmi comunque» suggerì al suo orecchio, perché era vero. Si allontanò quanto bastava a cercarne lo sguardo; non rideva, Jameson Black Barrel Hamilton. Negli anni aveva mentito a William, più volte, ma era l’unica persona con cui fosse anche stato sincero. Sapeva che fosse in grado di riconoscerla, quell’onestà cruda e poco abituata a sgusciare fra denti serrati ed affilati.
    «puoi odiarmi e basta. Ti aspetto comunque, gugi»
    L’aveva sempre fatto.
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    Sinclair era un uomo che aveva sbagliato innumerevoli volte nella sua vita, e altrettante aveva saputo la decenza di ammetterlo a se stesso. Ad alta voce, un po’ meno, ma ne andava del suo orgoglio. Era proprio quest’ultimo ad aver giocato un ruolo importante nelle decisioni che aveva preso negli ultimi mesi di vita, mesi che erano stati un turbinio di emozioni complicate e nuove opportunità che gli erano state precluse fino a quel momento. Insomma, come avrebbe detto Kieran: era nella sua struggle era. L’ultima cosa che aveva bisogno di quel momento era ritrovarsi sbattuto di fronte uno di quegli sbagli. Uno sbaglio per molteplici motivi e secondo altrettante definizioni, uno sporco segreto –non così segreto, ormai– di cui non andava fiero. Non fraintendetelo, non era Lawrence ad essere il problema (said no one ever) ma la natura della loro relazione. Sin non stato nel giusto stato mentale quando aveva deciso di perseguire qualsiasi scintilla fosse scaturita tra di loro, dopoguerra e possessioni sapete com’è, ma quando aveva deciso di porre un freno a quella cosa era stato ormai troppo tardi. Troppo tardi per molte cose, ma soprattutto per la sembianza di affetto che provava per Lance. E l’idrocineta era già stato bruciato troppe volte per permetterselo l’ennesima volta. Quindi cosa gli era saltato in mente ora? Un’ottima domanda, persino lecita. Vedere quell’uomo danzare sul palmo della mano del Matheson, sapere che avrebbe potuto avere chiunque avesse voluto– non poteva spiegarlo se non con una semplice e primordiale emozione a corrodere il fegato: gelosia. Non aveva idea di quando fosse diventato un gioco, gli sguardi mantenuti per più tempo di quello che era lecito tenere e i tocchi fugaci ma lo era diventato a suo malgrado. Quello di cui era ben conscio, tuttavia, era di aver perso. Era stato il primo a cedere ed avvicinarsi, ad oltrepassare la linea immaginaria che lui stesso aveva tracciato. Un confine ben definito da una porta sbattuta in faccia settimane prima. «eccomi, sono qui» lo sguardo dell’Hansen si fece più duro premendo le labbra tra di loro, una linea sottile e disappointed: quell’espressione di falsità da parte di Lawrence non gli era nuova, ma non voleva dire che gli piacesse. Era difficile vedere la maschera al suo posto, quando aveva imparato a conoscere un’altra persona. «oh no, ci stavamo giusto conoscendo» al che Sinclair, uomo di grande cultura e acume, non poté che fargli notare un dettaglio importante «sono sicuro che avrai altre occasioni» o forse no, chissà. Rivolse un sorriso (poco) affabile al Vaughan, trattenendo a stento una risata dallo scoppiargli nel petto– cristo, un po’ gli dispiaceva per lui. L’americano non gli dispiaceva, era solo stato la sfortunata vittima delle grinfie del Matheson. «c’è qualcosa che deve dirmi, doc?» per quanto possibile, tentò di mantenere l’espressione serena di prima per non dare a vedere come le parole del ragazzo lo avessero toccato. Bastardo, sapeva esattamente quello che aveva fatto. Peccato che Sinclair fosse troppo concentrato sui suoi cazzi, per notare il rancore negli occhi di Lance. Lo seguì attraverso la sala e dentro la struttura che ospitava il matrimonio senza farsi domande, grato di mettere distanza tra sé e il resto della festa. Prima di scomparire lungo il corridoio, volse lo sguardo alle sue spalle per accertarsi che la sua famiglia non stesse facendo cazzate. Al suo contrario. Ma era adulto e vaccinato, e aveva avuto la reazione che aveva sperato di suscitare quindi non poteva che go with the flow. Non si era aspettato di arrivare a quel punto, nascosto in una nicchia dietro a una colonna con Lawrence, non quando lo aveva cacciato da casa sua. Sapeva quanto fosse orgoglioso e cocciuto, il fatto che avesse deciso di dargli retta non aveva senso. «quindi ora vuoi parlare?» oh, quello era il ragazzo che conosceva. Non la versione saccarina e stopposa che aveva incontrato in compagnia del Vaughan. «oppure eri solo geloso e volevi evitare che qualcun altro potesse avere quello che tu non hai voluto?» touché, ma non glielo avrebbe dato a vedere. Aveva ancora una dignità, nonché una discreta quantità di anni sul Matheson su come comportarsi. «potevi non darmi corda e rimanere di là con il professore, eppure hai deciso di trascinarmi qui. forse sei te che hai una questione in sospeso?» poggiò la schiena alla parete, mimando le braccia strette al letto di Lance, ma mantenendo la postura rilassata. All’apparenza, almeno. «perché io l’ho accettato, sai?» di certo non suonava così convincente come voleva venderglielo, e infatti: «oh, lance» cadde dalle labbra senza alcun pensiero conscio, a metà tra il derogatory e l’affectionate– insomma un po’ come il pendolo della vita. Sciolse la presa delle braccia per sollevarle placating, come a rassicurarlo. Un po’ accondiscendente da parte sua, un po’ da merda. «non sei nemmeno un po’ convincente» catturò il mento del ragazzo tra le dita, premendo appena con il pollice sulla carne e rivelando una fila di denti– denti familiari e che avevano lasciato la loro impronta da qualche parte sulla sua pelle più di una volta. «speravi di attirare la mia attenzione parlando con quello lì?» si concesse un’ultima carezza al labbro, prima di far cadere la mano: c'erano limiti che era disposto a superare, ma non a costo di bruciarsi «ci sei riuscito. hai intenzione di fare qualcosa a riguardo?» difficile dire se fosse un invito o una sfida, ma Sinclair sapeva che non avrebbe ceduto per primo.
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    «Se stiamo attente noi, non dovranno farlo gli sposi, godendosi la festa»
    Già, e non era proprio per quello che Nelia aveva passato tutta la cerimonia sul chi va la, occhi attenti e vigili a perlustrare ogni centimetro della villa, e del giardino, e di tutta la zona circostante, per assicurarsi che i suoi più cari amici potessero godersi quel giorno senza altri pensieri? Will, in particolare, che non staccava mai la spina e non dismetteva mai completamente gli abiti di capo ribelle: Nelia lo amava per quella sua dedizione alla causa, per essere sempre stato il leader di cui avevano bisogno anche quando non volevano capirlo, o accettarlo, ma si meritava di essere felice e spensierato almeno il giorno delle sue nozze. Aveva sposato Akelei, per Morgana! La donna della sua vita, la persona che più di tutte al mondo lo rendeva felice: si meritava di non pensare a nient’altro, e se Nelia doveva accollarsi ogni responsabilità e fingere di godersi la festa quando in realtà si preoccupava di altre mille cose, lo avrebbe fatto.
    Così non dovranno farlo gli sposi.
    Era grata a Mads per il supporto — e anche agli altri ribelli che avevano acconsentito a partecipare a quel matrimonio senza farne una questione politica. Le sorrise, annuendo, quando confermò che era stata una bella festa: lo era stata per davvero. Non che avesse temuto il contrario: con Akelei a supervisionare i preparativi, nemmeno Eugene Jackson avrebbe potuto fallire, o infilare un twist personalizzato all’organizzazione.
    «non ero mai stata a un matrimonio simile. Penso mi abbia un po'... scombussolata»
    Inclinò leggermente il capo verso Mads, studiandola. Immaginava dovesse esser stato un po’ troppo per lei, ma sperava che almeno il ricordo che quella giornata le aveva lasciato impresso sarebbe stato piacevole.
    «qui sono tutti così?»
    «oh, no» sorrise, scuotendo piano la testa, «questo è un evento raro. la crème de la crème» fece per dirle che il suo era stato molto meno sfarzoso, ma alla fine tenne le labbra serrate – in un sorriso, ma pur sempre serrate – e non disse nulla.
    Nel far vagare lo sguardo sugli akerrow, finalmente al loro primo ballo da sposi, incrociò solo per un attimo quello di Frederik, al bar, e lo salutò con un cenno del capo, tornando poi a parlare con Mads.
    «ci sono feste meno fastose, e con decisamente meno invitati, ma trovo che questa sia stata la cerimonia perfetta per loro.» beh, per Ake di sicuro, e Will avrebbe fatto qualsiasi cosa per sua moglie.
    Quando riportò lo sguardo sulla pista, notò un Fred in avvicinanmento armato di due calici di bollicine: per quanto l’idea di affrontare ciò che rimaneva della festa affogandolo nell’alcol un po’ la stuzzicava, aveva ancora una missione da portare a termine e non poteva permettersi di avere i sensi tutto fuorché lucidissimi. Aveva già concesso a se stessa un paio di bicchieri prima della cerimonia, per calmare i nervi, ma era tutto quello che era disposta a mandare giù fino alla fine della serata.
    Ricambiò il sorriso di Mads quando si congedò, e le fece un cenno con la testa, bisbigliando che l’avrebbe cercata più tardi — e lasciandole capire che desiderava facesse lo stesso, per qualsiasi cosa, conscia che la special avrebbe capito a cosa si riferiva.
    A Fred, elegante nel suo abito di pregiata fattura, rivolse un sorriso di benvenuto accettando, anche solo per apparenza ed educazione, il calice che le veniva offerto. «faustus c’era una punta di divertimento nella sua voce – a mascherare un sacco di altre cose alle quali in quel momento Nelia non voleva pensare – quando salutò il docente di Trasfigurazioni, distogliendo lo sguardo in fretta e riportandolo sulla coppia festeggiata.
    «mh, penso tu possa rilassarti per il momento» non lo avrebbe corretto dicendogli che non poteva permettersi di rilassarsi, che il suo compito non era ancora completato, ma allargò appena il sorriso per dimostrare che avesse capito, che sapesse esattamente dove voleva andare a parare. «non ci sono bambini da sorvegliare oggi – nemmeno Eugene, la gravidanza deve avergli fatto bene»
    Seguì lo sguardo di Fred verso Eugene, e l’espressione si fece più dolce; era vero, la gravidanza lo aveva cambiato: in meglio? in peggio? chi poteva dirlo. Lo avrebbero preso così com’era, a prescindere.
    «gli studenti potrebbero dirti che uno dei miei primi insegnamenti è: mai abbassare la guardia» piegò leggermente il capo sulla spalla, fingendo che quelle chiacchiere con il suo ex non fossero estremamente imbarazzanti; cercava di non darlo a vedere, di non lasciare che il disagio si impossessasse di lei e rendesse più incerti i suoi gesti, ma non poteva negare che quel giorno in particolare stava avendo un effetto disastroso sulla sua psiche, e non vedeva l’ora finisse per sparire dalla faccia della terra e rifugiarsi nel suo appartamento silenzioso. «dovresti saperlo anche tu.» Glielo aveva ripetuto molte volte, perché infondo la vita di Nelia era sempre stata un continuo guardarsi oltre le spalle per evitare spiacevoli sorprese: non si era mai rilassata un solo giorno nella vita. Solo Justin era stato in grado di farle dimenticare, almeno per brevi ma intensi momenti, tutto il peso di una vita fatta di bugie che gravava sulle sue spalle.
    «è stata… una bella cerimonia»
    Tenne ancora lo sguardo lontano, un punto fisso nella folla, pur sentendo il peso dello sguardo di Fred addosso, ed annuì con un sorriso. Come aveva detto poco prima Mads, «sì, lo è stata.»
    «sta per finire»
    Sapeva perfettamente cosa stava cercando di fare il Faustus, e un po’ gliene era grata: ma non bastava comunque ad alleviare quel macigno che si era posato sul suo petto il giorno stesso in cui Akelei le aveva detto che si sarebbe sposata, e che negli ultimi giorni si era fatto via via più difficile da sostenere.
    E proprio perché sapeva quanto al collega costassero quelle parole, finalmente si degnò di portare lo sguardo nocciola verso di lui, occhi morbidi e comprensivi a cercare quelli chiari dell’uomo. «grazie Tutto sommato, era davvero davvero molto felice per Will e Ake, ma non poteva mettere completamente a tacere certe voci che si ripetevano nella sua testa, così come non poteva scacciare del tutto i ricordi che si accalcavano nella sua memoria.
    Alla fine, un sorso di quello champagne offerto da Fred, lo mandò giù comunque.
    E di poco non vi si strozzò.
    «stai molto bene comunque, complimenti»
    Una risata, leggera e imprevedibile, le permise di sciogliere un po’ la tensione sulle spalle e di rivolgere un sorriso a Fred che fosse divertito sul serio, ma quando parlò, lo fece nascondendo la piega delle labbra e le parole dietro il bordo del calice. «ti ringrazio, ma stavolta per favore nessun bacio in fronte, eh.» avevano evitato di parlarne per mesi ma andava detto, ed era stato detto.
    Non sapeva ancora bene su che genere di terreni camminassero, loro due, ma credeva di potersi permettere di tornare a quelle piccole battute, finalmente, no? Era passato così tanto tempo, non dovevano per forza rendere tutto ancora più imbarazzante di quanto non fosse, no? «ti stai divertendo?» erano stati molte cose, Nelia e Fred, ma le piaceva pensare che in quel preciso momento nella loro storia potessero essere amici, e Nelia si interessava del benestare di tutti i suoi amici, Fred incluso.
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    ancora, dopo tutti questi mesi? sì.
    nelia: parla con mads e poi con fred
     
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    William era un uomo debole, fin troppo incline a cedere agli istinti più basilari quando la presa ferrea sul proprio raziocinio veniva meno. Non era la prima volta che accadeva, e non sarebbe stata l’ultima. Eppure, in quell’occasione più di mille altre, avrebbe dovuto riconoscere la necessità di mettere un freno alle proprie pulsioni. E invece, aveva deciso di prendere la strada più facile e lasciare che fosse il vino delle proprie vene ad animare i suoi fili. Almeno, quando la mano di Jamie si strinse un po’ di più al suo fianco, William ebbe una scusa per crogiolarsi in quel contatto dopo mesi di distanza. Gli erano mancati, il peso e il calore dei polpastrelli dell’Hamilton a premere sulla sua pelle. E forse avrebbe preferito non averlo avuto affatto, perché il pensiero di perdere quel contatto era devastante. Il fiato si mozzò quando il capo di Jamie si avvicinò, un movimento impercettibile, se non che William era ormai consumato da ogni centimetro guadagnato. Fu costretto a chiudere le palpebre, le labbra dischiuse in una preghiera, quando quei centimetri furono annullati e poté sentire la sua fronte poggiata contro quella di Jamie. Era un uomo debole, Will, era ormai un fatto appurato, ma ne veniva ricordato a ogni respiro che avrebbe potuto rubare allo special. «odia me, non te» notizia flash: il Barrow era multitasking, e poteva benissimo odiare entrambi. Contava poco in quel momento, quando il concetto di odio sembrava così astratto, lenito dalla vicinanza di una delle persone più care che aveva. Era inutile tormentarsi con scenari di cosa sarebbe potuto essere, non importava quanto l’idea fosse seducente. Forse doveva appellarsi a Vin per cercare consiglio su come essere meno sottone, buoni propositi per l’anno nuovo and all. «puoi avermi, e odiarmi comunque. puoi amarmi, e odiarmi comunque» pareva ormai lontana la musica, un rumore di fondo allo spartito su cui lo stava facendo danzare Jamie, uno spartito composto da carezze e parole che promettevano un encore tanto agognato «lo sai che non posso» un sussurro flebile contro il suo orecchio, una supplica che bruciava in gola più del whiskey incendiario, mentre le dita si arrampicavano sù per il collo di Jamie e si insuinavano tra i suoi capelli. «perché non sarebbe la stessa cosa» riflessa nelle iridi chiare di William vi era la stessa testarda e nuda onestà di Jamie, un rimpianto a cui non sapeva mettere parole, ma che sapeva l’Hamilton potesse percepire nelle ossa «voglio averti come prima, e amarti senza doverti condividere con qualcun altro. non posso fare finta di niente» ci aveva provato, un disperato tentativo di non vedere i marchi lasciati da un volto anonimo, una qualsiasi scusa a cui appigliarsi ma che Jamie aveva raso al suolo ancora prima che avesse fondamenta concrete. «perché non ti basta mai niente? perché non ti basto io?» la presa sulla camicia dello special si fece più stretta, la piega delle labbra distorta dalla rabbia e da un dolore che non aveva ancora abbandonato. «puoi odiarmi e basta. Ti aspetto comunque, gugi.»
    Ti aspetto comunque, gugi.
    Crudeli, quelle parole. Quella promessa ormai futile.
    «non–» si inumidì le labbra, la bocca improvvisamente asciutta «non c’è niente per cui aspettare» scosse la testa, e fu costretto ad abbassare lo sguardo per qualche attimo. Non voleva che Jamie gli leggesse dentro, quando era maledettamente chiaro ad entrambi che era a un passo dallo sgretolarsi. «non so più come fidarmi di te» ti prego dammi una ragione per farlo. Insegami di nuovo.
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    Era un territorio inesplorato, quello lì. Entrambi consapevoli, e circospetti, laddove un tempo lo era stato solo il cronocineta. Jamie Hamilton era stato guardingo tutta la sua vita nell’orbita di Will, ogni passo misurato al millimetro; perfino quelli troppo lunghi, non l’avevano fatto incespicare. Cauto nelle parole, nei sorrisi, negli sguardi più lunghi del dovuto posato sulle sue labbra, o il profilo della gola. Nel sangue sotto le unghie, e la violenza stipata fra ogni costola a tenere insieme lo sterno. Gli aveva concesso solo una parte, e gliel’aveva data tutta, e si era concesso solo una parte, sentendo la mancanza di tutto il resto ogni giorno. Anni passati a volere e non poter avere, ed a volere comunque perché era un gioco del cazzo di cui si era scritto le regole solo per masticarle: tenersi quella spina nel fianco gli aveva dato l’impressione di vivere per qualcosa. Un obiettivo, il premio alla fine della gara, uno stimolo ed un aggancio ad una realtà che troppo spesso sfilava davanti all’Hamilton come la tragedia di qualcun altro.
    Ma sarebbe stato troppo semplice se William Barrow fosse stato solo quello. Un qualcosa di cui riempirsi lo stomaco a fine giornata. Gli Hamilton del mondo nascevano affamati prima ancora che i denti bucassero le gengive, e quella fame la rendevano personale. Specifica. Jamie ed il suo digiuno forzato avevano avuto bisogno di qualcosa d’impossibile per contenere il vuoto allo stomaco, ed in una mensa scolastica qualsiasi, il dodicenne Hamilton aveva scelto il mago. Ossessivo, e compulsivo. Aveva mescolato le carte, le aveva offerte ad un giocatore ignaro, ed aveva aspettato il momento della vittoria senza mai ricordargli che fosse il suo turno, perché l’attesa era la parte più importante.
    No?
    «lo sai che non posso»
    Da ragazzino, Jamie non era stato così machiavellico. Era stato normale. Una passione smodata per il caos, ed il sorriso giusto per i guai, ma normale, con una sfida lanciata da sopra il piatto alla sorella, ed il bisogno di vincere sempre.
    Poi sua sorella era morta, e sua madre era morta, e Leonard aveva fatto del proprio meglio, ma il meglio di suo padre non era stato abbastanza. Si era scelto quell’ossessione , come chiodo a cui incastrarsi; quel Barrow che piaceva a tutti, come una giornata di sole nel gelo invernale. Non aveva smesso solo perché se n’era innamorato - quanto sarebbe stato banale - ed aveva piuttosto complicato tutto, perché i fili lineari piacevano solo a chi si dedicava al ricamo per la prima volta. Si era detto fosse solo una voglia, perché era un Hamilton, e non aveva fatto nulla in merito per anni, perché era Jamie, e non voleva perdere Will.
    Quello, aveva mandato tutto a puttane. L’inizio di una tragica fine. Una fottuta parodia, con il senno di poi.
    Lo sapeva?
    Guardò un punto fisso oltre le spalle di Will, stringendolo appena contro di sé. Sentendo il proprio cuore accelerare l’andatura, conscio che non fosse solo desiderio, e non fosse solo amore. Paura? Forse, anche se non aveva lo stesso preciso sapore del terrore – no. Sapeva più di qualcos’altro: la scelta di premere senza lasciare lividi. Di bisbigliare anziché gridare.
    Perchè poteva perderlo, e non solo metaforicamente. Jamie avrebbe potuto, avrebbe fottutamente potuto, prendere la bottiglia abbandonata sul tavolo, spaccarla contro il legno, e conficcarla nel torace del mago prima che chiunque degli ospiti potesse gridare l’allarme. Sparire prima che qualcuno potesse fare il suo nome. Posò lo sguardo sul vetro, il ricordo del sapore del sangue sul palato. Fisicamente, poteva. Mentalmente, poteva. Forse anche emotivamente, poteva - e sarebbe stata la scelta più semplice, anche se non la migliore. Toglierlo dall’equazione nel modo più permanente di tutti. Il contrario di un tatuaggio, e poi fosse fra Jamie e Dio.
    Ma non voleva, e volere era potere – o almeno, così narrava la leggenda. Avrebbe sempre scelto di stringerlo un po’ di meno, se significava mantenerlo in vita - non abbastanza da lasciarlo andare, che era la condanna di entrambi. Non sapeva che farsene, di una vita senza di lui. Non lo ricordava più, com’era stato.
    «perché non sarebbe la stessa cosa»
    E quindi. E quindi. Umettò le labbra, chiudendo gli occhi alla familiare - familiare, assurdo di per sé – sensazione delle dita di Will fra i capelli, il tepore dei polpastrelli sulla cute. Inconscio nell’offrirvi il proprio peso; spontaneo, cercare la gravità nel suo palmo. Respirò sulla sua tempia, soffiando aria sulla pelle. Abbassò anche lui la voce, perché quel genere di richiesta non era fatta per la luce del sole, o per esistere all’infuori del loro personale cosmo.
    «e se ti dicessi che non mi importa» solo alito caldo, senza timbro.
    «e ti dicessi che non dovrebbe importare neanche a te»
    Un per favore. Ed un andiamo.
    Se non poteva averlo né come compagno né come amico, come amante se lo sarebbe fatto bastare.
    Per un po’.
    L’avrebbe fatto bastare ad entrambi.
    Per un po’.
    «voglio averti come prima, e amarti senza doverti condividere con qualcun altro. non posso fare finta di niente»
    La rabbia, onnipresente rabbia, provò ad infiammarsi, perché ma che cazzo e vaffanculo e non lo vedi, non lo senti, non lo sai che non potrei mai essere di qualcun altro, ma respirò a bocca aperta e la mandò giù intera, rischiando di soffocarcisi. Era superfluo sottolinearlo un’altra volta; quello era il momento in cui incassava e basta, perché sapeva Will avesse ragione, ed avesse tutto il diritto di sentirsi così.
    Si irrigidì appena solo quando «perché non ti basta mai niente? perché non ti basto io?» perché sentì, fisico e concreto, il bisogno di ridere meschino e ruvido, e coprirsi gli occhi con i palmi. Manipolare quella conversazione, sarebbe stato istintivo farlo, e dirgli che dovesse decidere chi fra loro fosse il problema; che se lui era il loro capro espiatorio, allora non c’era motivo di inserirsi nella questione parlando di sé. Sarebbe stato egoista, e mendace, ma Jamie sapeva che se si fosse mostrato ferito, ed avesse spezzato qualche parola qua e là, avrebbe potuto vincere quella discussione. Magari mettere di mezzo come il crollo francese avesse sterminato la sua famiglia lasciandolo un reietto di se stesso; come sentisse sempre l’arto fantasma della metà del proprio cuore. Uno sguardo al cielo, forse; bisbigliare che senza Katie non fosse mai più stato lo stesso, e che si sentisse in dovere di vivere una vita doppia per bruciare anche la sua.
    In parte avrebbe anche potuto essere vero.
    «non lo so» mormorò invece, banale. Patetico. Perchè come glielo dicevi a qualcuno abbastanza stupido da amarti, che fossi semplicemente un cazzo di infame. Non era nato cattivo, ma lo era diventato, e non era sempre stato sadico, ma lo era. Almeno il masochismo, era un tratto che portava con sé dalla nascita.
    Come ogni fottuto Hamilton che si rispettasse. Ciascuno martire a modo proprio, ma la matrice non cambiava mai.
    Per la prima volta nella sua intera vita, di fronte al tono supplichevole e stanco dell’altro, Jamie abbassò le armi. Alzò bandiera bianca. «non lo so, will» si appoggiò a lui, respirando piano. Moderando ogni fiato ed ogni pensiero.
    Dimmelo tu.
    Lì lì per domandarglielo, in ginocchio come un peccatore ai piedi del parroco. Inspirò.
    «non– non c’è niente per cui aspettare»
    Al futuro piaceva cambiare, e Jamie lo sapeva bene. Ogni decisione, perfino quella che appariva più infima, cambiava l’intero corso della narrazione. Ogni secondo, qualcosa dell’indomani cambiava forma, e ciascuna parola plasmava il risultato del mese successivo. L’effetto farfalla, era reale. Jamie il loro futuro l’aveva visto, e l’aveva sognato, e l’aveva guardato.
    Si era sgretolato, e riformato, e sgretolato di nuovo, e spento in sangue, e soffocato in stanze buie, e stretto fra i palmi come qualcosa di vulnerabile e delicato. Tutti plausibili. Sapere che di quelli ne avrebbero avuto solo uno, non lo spaventava quanto avrebbe dovuto: se lo sarebbe fatto andar bene, finché un futuro lo avessero avuto. Il fatto che Will non fosse ancora nella posizione di vederlo, non significava che non l’avrebbe fatto la settimana successiva. Mese. Anno, se necessario.
    «non so più come fidarmi di te»
    Jamie Hamilton era la scelta peggiore. Davvero, davvero, William Barrow avrebbe meritato qualcun altro. Chiunque altro era meglio di qualcuno che a pigre palpebre socchiuse, valutava l’omicidio pur di non dover sopportare il bisogno, ed il volere. Più si rendeva conto di doverlo lasciare andare, meno sembrava in grado di farlo.
    Dimmi come
    e
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    morirono entrambi sulle labbra di Jamie, perché non era una responsabilità del mago. Aveva creato lui il problema, ed avrebbe trovato il modo di risolverlo. Lo faceva sempre. Così sospirò un sorriso triste, allontanandolo da sé di un passo e mezzo.
    «lo so»
    Avrebbe potuto fermarsi lì. Lasciare le sue mani, ed andarsene.
    Cambiare stato, magari. Rincorrere il sole e bruciarsi su spiagge dorate. Leccare la salsedine direttamente dall’incavo del collo di perfetti sconosciuti. Cambiarli ogni giorno come lenzuola ed umore. Una vita che non avrebbe dovuto farlo sentire così male.
    Portò la mano del Barrow all’altezza del proprio viso, premendo il più casto dei baci sul battito rapido del polso. «sono un cronocineta» bisbigliò, perché se l’aveva conquistato una volta, poteva rifarlo; potevano ricominciare, o riprendersi da metà. Il come non aveva importanza. Il quando?
    «il tempo è l’unica cosa che non mi manca, william»
    Non quella sera, perché lo lasciò lì, sulla pista da ballo. Che si godesse il resto della serata; che piangesse fino a che qualcuno non gli avesse asciugato le lacrime con il pollice (Jamie non gliel’avrebbe neanche staccato, e se non era maturità quella, non sapeva cosa la fosse.) se era quello di cui aveva bisogno. L’avrebbe lasciato stare, per un po’. Concesso di respirare aria che non fosse viziata.
    Per un po’.

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