'cause I'm feeling like I'm killing all my time In this waiting line

stiles ft. dominic

« Older   Newer »
 
  Share  
.
  1.     +2    
     
    .
    Avatar

    in ciao treno i trust

    Group
    Neutral
    Posts
    1,266
    Spolliciometro
    +1,185

    Status
    Offline
    andrew stilinski
    I’m tryna stay sane
    When the world has gone mad
    I’ve been looking down the tunnel at the light at the end
    Gustav Rogers era un uomo pragmatico e di poche parole.
    Come prevedibile da chiunque conoscesse lo sfortunato ex Tassorosso morto e risorto, Andrew Stilinski ne era terrorizzato. Non aveva mai avuto un buon rapporto con le autorità, pur non avendo mai – o quasi; non per scelta, di solito – infranto la legge. Sedeva sulla sedia di plastica della sala riunione con le mani premute sotto le cosce, costringendosi a non dondolare nervosamente il ginocchio per non suggerire agli strizza cervelli, ovverosia i suoi colleghi, cosa gli stesse passando per la testa. Loro non avrebbero potuto fare a meno di analizzare il suo comportamento, deformazione professionale, e Stiles non voleva pensassero che fosse inadatto a portare il camice.
    Lo era?
    C’erano giorni in cui pensava di no. Non si era mai sentito propriamente a suo agio con il resto degli psicomaghi del San Mungo, forse perché uno dei più giovani, ma il suo lavoro gli piaceva. Sentiva che per quanto fosse complesso, e straziante, e rubasse ogni giorno una parte di ottimismo artificiosamente costruito negli anni, fosse il lavoro adatto a lui. Gli piaceva connettersi con le persone, ed allungare una mano finché loro non sceglievano di stringerla. Aveva bisogno di sentirsi utile, sapere di aver fatto la differenza. Non chiedeva di essere l’eroe di cui non sapevano di aver bisogno, solo il sollievo momentaneo che permetteva di affrontare un’altra giornata.
    C’erano giorni in cui pensava di sì, perché dopo anni nell’ufficio dell’ospedale e di Hogwarts, ancora faticava a scollarsi le parole dei suoi pazienti. Avrebbe dovuto essere più distaccato, lo sapeva. Nel suo mestiere era importante mettere dei limiti e dei paletti invalicabili, se non si voleva rischiare di rimanere incastrati nei troppi drammi altrui, ma se riusciva ad essere quella persona al San Mungo, lo stesso non poteva dire di Hogwarts. Non aveva mai, mai pensato che gli adolescenti – terrificanti, mostruosi adolescenti – avrebbero messo a dura prova la sua risoluzione, ed invece era proprio così. C’era qualcosa di disturbante e crudele nei ragazzini di undici anni che tremavano incapaci di proferire parola, qualcosa che andava contro tutto ciò che la natura umana li addestrava ad essere. In quanto parzialmente animali, avrebbero dovuto proteggere i cuccioli, tutelarli; Stiles ne teneva le parti fra le mani sapendo che unirle fosse impossibile, e dovessero solo imparare a convivere con la consapevolezza che non sarebbero mai più stati quelli che erano. Gli ricordavano se stesso; gli ricordavano che peggiorava sempre, prima di migliorare. E tutta quella rabbia, che di anno in anno avanzava per le file dello studentato come una tossina o una malattia, avvelenando sguardi e mani strette a pugno. Tutto quell’odio. Crescere dava tutta un’altra prospettiva su quello che era avere tra gli undici ed i diciassette anni, un senso concreto al potenziale non sfruttato che infestava i ricordi di chiunque in quell’età. Lo rendevano triste, melanconico. Gli spezzavano il cuore senza neanche saperlo, obbligandolo a rincollarlo ogni sera con un sospiro nel vuoto ed un bicchiere di aranciata.
    Quella era stata la sua vita fino a qualche mese prima.
    Abbadon. La Guerra.
    Ad Hogwarts la situazione era peggiorata, sì, ma nulla di paragonabile al picco astronomico di appuntamenti nell’ufficio del San Mungo. La parte peggiore, era che meno della metà dei nuovi pazienti si presentasse volontariamente ai loro uffici, e perlopiù si trattava di richieste obbligatorie del Ministero che andavano oltre alla prima perizia demandando un percorso di riabilitazione. C’erano anche caldi suggerimenti di altri enti, pubblici e privati, che suggerissero ai propri dipendenti di cercarsi uno psicomago. Tutti reduci di guerra, fossero civili o soldati. Tutti con racconti reali e concreti di sangue, e polvere da sparo, e era vicino a me, e poi non c’era più, ed era lì, ma non c’era più, ed io non ho potuto fare nulla -
    Battè le palpebre tornando presente alla riunione. Gli occhi bruni scivolarono sulle sedie libere, più di quante non fossero qualche settimana prima. I loro numeri non erano mai stati fra i più alti della struttura, ma erano scesi a picco negli ultimi tempi, fra morti e chi avrebbe voluto esserlo, o chi semplicemente – come Sin – aveva approfittato della nuova politica aziendale per cambiare lavoro. Sollevò lo sguardo su Idem, sorridendole a metà quando lei ne ricambiò perplessa l’occhiata. Rogers stava parlando, e non aveva bisogno di ascoltarlo per sapere quale fosse l’argomento del giorno, identico a quello della settimana precedente e quella prima ancora. Se ancora non l’avevano fatto – e l’avevano fatto – dovevano aggiornarsi sui disturbi da stress post traumatico ed il lutto; chiedeva loro gli straordinari, facendoli fermare ben più di quanto il monte ore settimanale chiedesse, promettendo che sarebbero stati retribuiti – raramente lo erano, ma non diventavi psicomago per lo stipendio -; diceva che se avessero avuto problemi, avrebbero potuto rivolgersi a lui, e che li avrebbero affrontati insieme.
    Bla, bla, bla.
    Qualcuno, non Stiles di certo, suggerì che dovessero ampliare la fascia d’orientamento, così che potessero rimpolpare le loro fila. Che dovessero abilitare al lavoro con corsi specializzati offerti gratuitamente agli adulti. Con quali fondi, suggeriva l’occhiata rigida di Rogers, mentre con voce calma e piatta assicurava che ci stessero già lavorando.
    Altri bla, e bla, e bla.
    Quando congedati, non fu il primo a scattare sull’attenti solo per principio. Attese che i colleghi si alzassero, rimanendo fra gli ultimi a lasciare il tavolo. Borbottò un arrivederci ed un buona giornata e buon lavoro al loro responsabile, rallentando poi il passo per trovarsi al fianco della Withpotatoes.
    «sta facendo del suo meglio»
    Il suo meglio avrebbe potuto essere alleggerire il loro carico prendendo alcuni dei loro appuntamenti. Morse l’interno della guancia, studiando la mora da sotto le ciglia. «sicuro», perché che altro avrebbe dovuto dirle? Non aveva voglia di fare polemica, ed in parte pensava avesse ragione.
    In parte. Una piccola, parte.
    Ma dai, chi mai nella storia dei lavoratori dipendenti subordinati pensava che i propri superiori stessero facendo il loro meglio? Giusto Idem, e solo perché era un’inguaribile ottimista. Stiles era più sul lato pragmatico, voce del popolo rispetto all’ideale. Insomma: una basic bitch. «vieni alle macchinette?» aveva smesso di offrirgli il tè, grazie a Dio. Le macchinette significava, nel suo caso, un pacchetto di patatine ed una bevanda gasata e chimica che pur deteriorandolo dall’interno, lo tenevano in piedi quanto bastava ad arrivare alla fine della giornata. Picchiettò il dito sull’orologio digitale da polso, grugnendo all’ora quando lo schermo si illuminò al tatto. «nah, ho un appuntamento» strano, non ne avevano mai. Massaggiò una palpebra, sospirando nella manica del camice, nel dondolare verso il proprio ufficio. Passando superò una testa bionda che avrebbe potuto essere Dominic – o Franklyn Daniels, o Daveth Gallagher, o il fabbro sotto casa tua – a cui rivolse un cenno di saluto solidale. In ospedale funzionava come in alta montagna, o nei pokèmon: salutavi chiunque. Non sempre allegramente, ma lo facevi. Entrò lasciando la porta aperta, sistemandosi dietro la scrivania e prendendo il materiale con cui di solito fingeva di essere professionale: quaderno, penna, ed una variegata raccolta di fidget da offrire ai pazienti di cui andava molto fiero.
    Guardò l’agenda, che compilava – confidiamo tutti – qualcun altro per tutti gli psicomaghi del piano, organizzando i loro appuntamenti. Una receptionist, come quelle dai dentisti.
    Cavendish, D.
    «ma pensa. come dominic»
    Assurdo!
    gif code
    26 y.o.
    former huff
    psychowiz
     
    .
  2.     +2    
     
    .
    Avatar

    maybe in your eyes.

    Group
    Death Eater
    Posts
    402
    Spolliciometro
    +835

    Status
    Anonymous
    dominic cavendish
    Another head aches, another heart breaks
    I'm so much older than I can take
    And my affection, well, it comes and goes
    I need direction to perfection
    Sapeva di aver bisogno di aiuto, ma non era stata una realizzazione ragionata e maturata spontaneamente quanto piuttosto una necessità che l’aveva investito improvvisamente, lasciandolo ferito – ma vivo – sull’asfalto a meditare come fosse arrivato a quel punto, ad aspettare che qualcuno lo andasse a raccogliere, senza nemmeno provare ad alzarsi con le proprie forze.
    Inconsciamente e molto in fondo sperava che nessuno arrivasse mai a tendergli una mano.
    Inconsciamente e molto in fondo sperava che prima o poi passasse un’altra macchina, un truck, un camion pieno di bombole di gas, magari addirittura un treno, a investirlo nuovamente, e questa volta in via definitiva.
    Sì, sì, un po’ troppo melodrammatico, ma era un bilancia, ed essere drama queen era parte della sua essenza.
    In verità non pensava seriamente alla morte come una soluzione, e nemmeno come un sollievo. Dominic non voleva morire, chiariamoci; tutt’altro, lui voleva tornare a vivere, ma si sentiva mortalmente stanco, e ritrovare la forza per riaprire gli occhi e alzarsi di sua spontanea volontà gli sembrava quasi un’impresa titanica in quel momento.
    E se “quel momento” fosse durato un giorno, una settimana, facciamo anche due settimane, non sarebbe stato un problema; ma “quel momento” andava avanti ormai da mesi e mesi, da quando a marzo aveva messo piede per la prima (e unica, sperava) volta sul gelido suolo siberiano. Quello era stato l’inizio, ma aveva provato ad andare avanti, e per quanto gli fosse sembrato difficile, c’erano stati momenti rilassanti dopo quei giorni terribili, c’erano stati momenti felici che lo avevano quasi convinto che le cose si potessero sistemare, che lui si potesse sistemare. Ma poi, puntuale come un orologio svizzero, era arrivato il crollo totale.
    Non era nemmeno una metafora – il crollo c’era stato davvero, e lui aveva visto con i propri occhi il terreno aprirsi sotto i piedi di amici e nemici a Stonehenge, e persone sprofondare, persone morire, e quella, incredibilmente, non era nemmeno stata la parte peggiore: tutto quello che era successo prima l’aveva già segnato nel profondo, e tutto quello che era successo dopo aveva solo peggiorato la situazione.
    Era tornato stanco e tumefatto dalla Siberia, aveva pianto, ma aveva comunque trovato la forza di combattere, di credere in qualcosa, di lottare per qualcuno. Dopo la guerra, invece, era tornato in una casa vuota una mattina di maggio, si era seduto sul divano e aveva fissato il vuoto per un po’, incapace di dare una forma ai suoi pensieri – gli sembrava, in effetti, che non avesse più pensieri, che la sua testa fosse stata improvvisamente investita da una coltre di nebbia e che non riuscisse più a pensare.
    Poi, tutt’un tratto, aveva semplicemente ripreso a fare le cose in modo automatico e senza mai elaborare quello che era successo, senza mai domandarsi come stesse veramente.
    «sto bene, devo solo…» e qualche volta era pulire casa, qualche altra cucinare, o comprare le crocchette per Chandler, qualche altra volta scrivere le ultime notizie sul fan club di Elwyn, molte volte era fare qualche straordinario in ospedale – tanto c’era sempre bisogno di qualcuno in più al San Mungo. Il piano del Cavendish per non soccombere, in sostanza, era semplicemente tenere mente e corpo impegnati in tante diverse attività. E quando non aveva niente da fare, quando il tempo libero minacciava di creare una breccia nella sua testa e di fargli rivivere momenti che avrebbe voluto cancellare per sempre, allora creava diversivi, decideva di avere impegni, di fare qualcosa, di uscire e andare in posti affollati; non aveva bisogno necessariamente di compagnia, ma aveva bisogno di stare tra la gente, di essere distratto, di avere le orecchie strabordanti di voci sconosciute e gli occhi vagabondare da un’immagine indifferente a un’altra.
    Non ne andava fiero, ma il luogo perfetto per provare quelle sensazioni (niente, in sostanza) era sempre il Lilum; gli sembrava di non aver mai sborsato così tanti soldi nelle tasche di Svetlana come in quel periodo: solito pacchetto premium, whiskey o vino di prima scelta, qualche volta si concedeva una cena, e una volta, cristosantissimo quanto se ne vergognava, aveva addirittura pagato per uno spettacolo privato, ma chiaramente non era resistito nemmeno un minuto nella stanza con la ballerina, le aveva lasciato una generosa mancia ed era scappato a casa, sentendosi misero e sporco. Quell’episodio l’aveva tenuto lontano dal locale solo per un po’, comunque, perché tornava lì almeno una volta a settimana, e la maggior parte delle volte continuava a non riuscire a posare lo sguardo sulle ballerine, ad arrossire quando si sentiva oggetto di una carezza (o anche solo di uno sguardo) di troppo, ma restava lì per molto tempo, ore, spesso fino alla chiusura del locale.
    Era quello il punto più profondo del baratro per lui, il momento in cui si accorgeva che una macchina stava per investirlo e decideva di non fare niente in proposito, e lo sapeva, ma non poteva farne a meno, perché era l’unica cosa che gli permettesse di non pensare.
    Quella mattina, come tante altre dopo aver toccato il fondo, al suono della sveglia era scattato sul letto e si era sentito frastornato e scombussolato, e grazie tante visto che aveva dormito solo un paio d’ore [c’ho la faccia di Briatore]. Eppure, non era stato nemmeno quello a far scattare l’allarme, ma era avvenuto comunque un paio di minuti più tardi, quando si era trascinato in bagno, si era guardato allo specchio e aveva – gasp, a child (a tragedy) – notato che la sua barba non era più curata come una volta, non era più morbida, non appariva più lucida, e che i suoi prodotti costosissimi comprati mesi fa fossero ancora inutilizzati sullo scaffale.
    Il punto di non ritorno – lì aveva capito di aver bisogno di aiuto.
    Ovviamente, sapeva di non poter andare da uno psicomago a parlare del dramma della sua barba lasciata incolta e poco curata; per quanto fosse davvero un dramma, sapeva che non fosse quello il punto. Il punto era – in effetti, c’erano tanti punti.
    Non era solo la guerra, e non era solo la Siberia, era qualcosa di più profondo, lasciato lì a marcire da tempo: era la rivelazione del 2043, era la sua relazione con i Cavendish, ed erano Joey e Hans, era Dakota, erano tutte le persone con cui sentiva di aver perso un’occasione, era il suo lavoro, e poi era la paura di perdere le persone che gli stavano vicino, e le persone che aveva perso, le persone che aveva allontanato, era la sua incapacità di pensare di essere abbastanza per Nice, era la sicurezza che non sarebbe mai stato degno della sua – ormai ex – fidanzata. C’erano tante cose che Dominic avrebbe dovuto affrontare, ma ogni volta che i suoi pensieri si posavano su una di quelle, si trovava irrimediabilmente a scuotere la testa e a scacciarli via come fossero mosche fastidiose.
    Conosceva le iniziative del Ministero, ma non le aveva mai prese in considerazione. Non è che non si fidasse degli psicomaghi del San Mungo, sapeva fossero professionisti preparati e in gamba, e aveva stima di loro – o perlomeno, della maggior parte di loro – ma decidere spontaneamente di prendere appuntamento era… una cosa.
    Non era più in questione se farlo o meno, il problema era quando l’avrebbe fatto.
    Benjamin Townsend non voleva sentire ragione: tutti i dipendenti che avevano preso parte alla guerra dovevano iniziare un percorso con gli psicomaghi dell’ospedale; Demetra Derwent era stata più ragionevole e aveva lasciato uno spiraglio di possibilità usando parole come “potete” e “sì, prima o poi”, ma ora il capo dei guaritori sembrava aver fiutato che qualcosa non andasse nell’ex corvonero, e gli stava col fiato sul collo.
    «sì-sì, va bene, va bene! Lo faccio!» e poi sapete tutti come continua, no? Lo fece.

    Aveva la testa bassa su una rivista a caso trovata sul tavolino della saletta d’attesa; l’aveva rivoltata e risfogliata interamente già un paio di volte, e in nessuna di quelle aveva prestato attenzione a nemmeno una parola di quelle scritte. Poteva essere un magazine di salute mentale o di moto da cross per quanto ne sapesse lui. In effetti, non gliene fregava proprio un cazzo di quella rivista, lui era lì, con le dita della mano destra che picchiettavano sul ginocchio, e aspettava in ansia, ma soprattutto rimpiangeva tutte le sue scelte.
    Con un cenno disinteressato del capo salutò distrattamente Stiles, e poi attese ancora, e attese, e attese, finché la receptionist non richiamò la sua attenzione con una frase da brividi: «guardi che il dottore la sta aspettando». Il guaritore sgranò gli occhi, poi impallidì, poi indicò con un dito un po’ incerto la porta davanti a sé «ma… Stilinski?» più che una domanda, con quell’espressione voleva confermare definitivamente che l’universo lo odiasse: niente da fare oh, pure quando sceglieva di fare la cosa giusta alla fine finiva nella merda di troll – che non è una bella merda, per chi se lo stesse chiedendo.
    La trattazione con Karen («mi chiamo Vanessa») per cancellare l’appuntamento fu tanto lunga quanto inutile, e alla fine il biondo dovette prendere un profondo respiro ed entrare nella stanza. «allora, senti, lo so che non ti sto simpatico, cioè che mi odi – cioè non lo so perché tu mi odi, ma mi odi» avevano dei trascorsi i due? non nello specifico, probabilmente, ma a quanto pare la simpatia non era mai stata reciproca, per qualche motivo che scavava nel profondo degli anni da studenti passati a Hogwarts: una certa antipatia generalizzata nei confronti dei tassorosso da parte del Cavendish e una specifica antipatia localizzata nei confronti del corvonero da parte dello Stilinski. «non voglio rubarti del tempo, possiamo fare una cosa veloce» that’s what she said «possiamo restare in silenzio, puoi compilare le scartoffie, darle alla Derwent e dire che è tutto in ordine, così siamo tutti contenti, mh?» era già pronto a fare un passo avanti e stringere la mano all’ex tassorosso per concludere l’accordo, ma restò nella sua posizione e fece spallucce, accennando appena un sorriso tirato – ma non troppo cordiale.
    Alla fine era convinto che Stiles avrebbe accettato, probabilmente nemmeno lui voleva sentirlo lagnarsi per ore sulla sua vita, nonostante fosse il suo lavoro, e d’altra parte anche lui era un po’ sollevato, ma si stupì nel realizzare che a quella sensazione si accompagnasse anche una certa delusione; aveva sperato davvero che andare da uno psicomago l’avrebbe aiutato, ma eh evidentemente era destinato a dannarsi per delle cazzate per l’eternità, e vabbè c’est la vie.
    gif code
    26 y.o.
    former raven
    healer
     
    .
  3.     +1    
     
    .
    Avatar

    in ciao treno i trust

    Group
    Neutral
    Posts
    1,266
    Spolliciometro
    +1,185

    Status
    Offline
    andrew stilinski
    I’m tryna stay sane
    When the world has gone mad
    I’ve been looking down the tunnel at the light at the end
    Usare il telefono durante le ore di lavoro lo faceva sentire in colpa, motivo per cui nell’attesa fra un paziente e l’altro, anziché scorrere tiktok, aveva preso l’abitudine di rispolverare i quaderni da colorare che gli avevano regalato i Losers anni prima.
    (Un periodo oscuro della vita di Stiles; le braccia di Beh e Nicky cariche di album dei Pokèmon e dei Digimon, perché avevano letto che i mandala aiutassero a rilassarsi, ma chi voleva colorare mandala quando si poteva colorare Pikachu?)
    Stava scegliendo con cura la sfumatura di arancione da usare per riempire gli spazi di Raichu, non voleva lo stesso colore usato per le fiamme di Ponyta – a ciascuno il proprio livello di psicosi – quando sentì bussare. La porta aprirsi. Aprì il cassetto lanciandoci dentro album e colori, le braccia incrociate sulla scrivania per fingersi occupato. Fu con posa seria e professionale che alzò lo sguardo sul paz- Mh? Curvò interrogativo le labbra verso il basso, osservando Dominic Cavendish nel proprio ufficio.
    «allora, senti, lo so che non ti sto simpatico, cioè che mi odi – cioè non lo so perché tu mi odi, ma mi odi»
    Strinse le palpebre, arricciando il naso. Un… dato di fatto interessante, anche se discutibile, ma non vedeva perché avessero bisogno di quel confronto in quello specifico momento. Senza neanche un buongiorno, e mentre entrambi erano a lavoro…? Aprì la bocca cercando di interromperlo, gli occhi a guizzare sull’agenda ancora aperta di fronte a sé, e – Aspetta- «cavendish, dominic» bisbigliò in un singhiozzo stupito, poggiando le dita sul mento. Basito. Sconvolto. Dom era il paziente? Rimbalzò gli occhi bruni dal nome al Guaritore di fronte a sé, sopracciglia corrugate ed un palmo sollevato perché rallentasse l’andamento di quella conversazione. Era ancora fermo a so che mi odi, figurarsi se era in grado di elaborare il resto. «non voglio rubarti del tempo, possiamo fare una cosa veloce. possiamo restare in silenzio, puoi compilare le scartoffie, darle alla Derwent e dire che è tutto in ordine, così siamo tutti contenti, mh?» Soffiò un sospiro lento e denso sulle scartoffie, Stiles, scuotendo impercettibilmente il capo. Umettò le labbra, il pollice a premere su una palpebra abbassata. «chiudi la porta e siediti» azzardò un’occhiata al volto tirato del biondo, aggiungendo al tono perentorio un morbido «per favore» senza essere certo di chi, fra i due, avesse più bisogno di quella gentilezza.
    Stiles non odiava Dominic. Perlomeno, non con vera e propria cattiveria. Non gli piaceva, che era diverso, e si rendeva conto che avesse a che fare con tanti fattori che poco c’entravano realmente con il Cavendish. Ai tempi di Hogwarts, Stiles era stato un reietto ed un paria. Sopravvivere da nato babbano era impegnativo normalmente, figurarsi quando avevi l’inclinazione naturale a combinare disastri ad ogni respiro. Dominic, quella sopravvivenza, l’aveva per partito preso. Il posto a Quidditch, ad esempio, non aveva dovuto sudarselo come il Tassorosso, che non era mai stato voluto in squadra perché non all’altezza del loro pedigree. Arrivavano da due mondi troppo diversi perché potessero gravitare l’uno nell’orbita dell’altro, e di certo non aveva aiutato il fatto che fosse amico di Isaac e Niamh. I suoi Isaac e Niamh. Non era territoriale, ma trovava del tutto giustificato il terrore che i suoi migliori amici preferissero il ragazzo cool al finire in Sala delle Torture un giorno sì e l’altro pure – o che, crescendo, trovassero più facile la compagnia di Dom, che non si portava sulle spalle il peso di essere prima alcolista, e poi ex alcolista.
    Insomma. Non conosceva abbastanza Dominic per odiare lui: odiava quel che aveva sempre rappresentato. Negli anni, era solo diventata abitudine, una delle poche certezze a cui aggrapparsi e rimanere su territorio sicuro e conosciuto.
    «non ti odio» chiarì, scandendo le parole con un certo grado di perplessità, incerto se fosse per come era iniziata la conversazione, o perché sapeva di essere sincero. Lo infastidiva, ma di nuovo, senza reale cattiveria: più invidia e gelosia; il capriccio di un bambino. «ma non è quello il punto» Battè le palpebre, osservando Dominic da sotto fitte ciglia castane. Anche se l’avesse odiato, sapeva essere professionale, e scindere la sfera personale dal posto di lavoro. «se non ti senti a tuo agio con me, però, lo capirei» Ed era vero, anche se non perché non si sopportassero: si conoscevano, e non era una base solida su cui basare un percorso di terapia.
    Di solito.
    Stiles pensava ci fossero eccezioni. A volte, conoscere parte dello storico di una persona, aiutava a permettergli di aprirsi su questioni messe sotto chiave. Non erano amici, e non erano sconosciuti – quel qualcosa in mezzo, potevano usarlo. Represse il piccato non chiedermi di non fare il mio lavoro in favore della lingua ad umettare le labbra. Prendere tempo.
    Poteva anche non essere il più grande ammiratore di Dominic Cavendish, ma sapeva non stesse bene. Da un po’. E sapeva che avesse bisogno di aiuto. Da un po’. Dalla menzione della Derwent, dedusse non fosse lì per scelta, il che era già un problema: insomma, non partivano con ottime basi.
    Ma.
    C’era stato anche lui in guerra.
    Ma.
    In Siberia c’erano stati anche i suoi figli!!! avevano ritrovato Jeremy.
    Ma.
    Stiles non era cattivo. E Dom neanche.
    «lo è? Tutto in ordine» Offrì, a parentesi aperta.
    Let the games BEGIN.
    gif code
    26 y.o.
    former huff
    psychowiz
     
    .
2 replies since 30/7/2023, 14:14   93 views
  Share  
.
Top