Imagine for a minute the way that I'd be living if only I could

stiles ft. hugo, ciao sara! adieu!

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  1. walking contradiction.
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    HUGO COX
    You finally met your nemesis
    Disguised as your fatal long-lost love
    So kiss it goodbye
    Until death do we part
    Da Sara e Sara, da Hugo a Stiles, tutti i presenti sapevano che nulla, lì, sarebbe stato breve e indolore. A partire da questo post, che ho come l’impressione che arriverà a misurare millemila caratteri. Tutti sconclusionati, naturalmente.
    Ma Hugo si era scusato, per l’ennesima volta, e Stiles non gli aveva detto di non scusarsi.
    L’aveva ringraziato.
    Si sentì stranito, ma poi si rese conto che, prima ancora di essere stupefatto, era sollevato. Per quanto sapesse di non avere nulla di cui scusarsi, razionalmente parlando almeno, sul piano irrazionale le motivazioni erano invece infinite. Eppure odiava quando gli veniva fatto notare che non avrebbe dovuto farlo, che non avrebbe dovuto scusarsi. Anche perché, chi gli diceva così, era la stessa persona che, nelle più uniche che rare occasioni in cui lui non lo faceva, sforzandosi con molte più forze, ed energie, di quelle che effettivamente aveva, poi gli rinfacciava di essere egoista e concentrato solo su sé stesso e incapace di guardare al di là del proprio naso, negli affari e soprattutto nei sentimenti altrui. Il che naturalmente era vero, ma era anche falsissimo. Hugo era concentrato su sé stesso proprio come chiunque altro. Ma, a differenza di molti, o così gli piaceva pensare, quello che gli altri sentivano e pensavano occupava i suoi pensieri fin troppo spesso.
    E dunque era felice che Stiles non gli avesse detto che non c’era bisogno di scusarsi. Anche perché, lo sapeva bene, c’era sempre bisogno di scusarsi. Una ragione, un motivo, li si potevano trovare sempre.
    Ma non un amico.
    Perché, tra le righe, lo Stilinski gli aveva detto pure questo. Non stava lavorando, spronandolo a capire dove fosse il problema, quale fosse il problema. Lo fissò, vedendolo in modo appena appannato, sebbene a dividerli ci fossero solo uno striminzito tavolino di legno traballante e lui avesse negli occhi le lenti a contatto, e si sforzò di ricacciare giù per la gola, in fondo in fondo, il magone. Batté le palpebre, sperando di riuscire a scacciare le lacrime, e in qualche modo stranamente ci riuscì, perché quando seguì il movimento della mano dell’ex tassorosso la vide a fuoco. Per una volta era convinto di avercela fatta, se non fosse stato per le ciglia imperlate, e per le parole successive dello psicomago.
    «Come fanno gli amici», ripeté piano, la voce un po’ strozzata dal groppo alla gola che, in un attimo, era riuscito a risalire. Schiuse le labbra cercando di prendere fiato, e di mandare nuovamente giù, tristemente consapevole del maledetto potere che le lacrime avevano su di lui. Si risistemò sulla sedia, un piede che teneva nervosamente il tempo delle soffuse note che si spandevano nell’aria da casse nascoste chissà dove, dentro il locale, senza rendersene nemmeno conto. Poi buttò fuori l’aria, e sorrise. «Non volevo darti di quello che la fa a pagamento.» Fece una smorfia. «La terapia, dico. Cioè, ovvio che sì, è il tuo lavoro e fai solo bene, ma…» Sbuffò, passandosi le dita tra i ricci già spettinati. «Quello che intendo è che… sono sorpreso che tu voglia essere mio amico», ammise finalmente, fissandogli le mani, troppo imbarazzato per guardarlo in faccia. «In modo positivo. Non credo di essere una persona antipatica, spero di non esserlo, ma sono… noioso?? E per nulla interessante. E parlo troppo. O non parlo per niente, tipo quando non rispondo ai messaggi per giorni, d’accordo, settimane, anche, perché mi sento esausto.» Si avvicinò la tazza di tè che ormai da un bel po’ non fumava più e bevve un sorso con una mezza smorfia, sentendo il liquido a malapena tiepido. «Amo l’earl grey, ma quando si raffredda sembra profumo per auto. Ew.»
    Non disse a Stiles che tutto quel suo parlargli così, a ruota libera, senza paletti e senza vergogna, era un privilegio. In parte perché non era così convinto, dato che era terribilmente consapevole, appunto, del suo essere pesante e verboso (sebbene, al contempo, non potesse fare a meno di sentirsi una spanna sopra agli altri, pur essendo sempre e comunque l’ultima delle merde); in parte perché si vergogna di crederci davvero. Tuttavia, questo gliel’aveva detto, invece: parlava troppo, o non parlava per niente. Tra i due fare opposti c’era una linea sottile, una linea che non sapeva tracciare né a parole né a gesti. Spesso e volentieri parlava troppo per colmare il silenzio, nella speranza che l’altra persona non si sentisse troppo a disagio nel dover passare del tempo con lui. Parlava perché dall’altra parte tutto risultasse più facile, più leggero, più sopportabile. Era sincero, quasi sempre almeno, ma era anche il re delle mezze verità. Non si faceva problemi a schernirsi e a ironizzare costantemente su sé stesso, lasciando scoperte parecchie delle sue vulnerabilità. Eppure, era bravissimo a nascondere il vuoto che sentiva dentro dietro una battuta di troppo.
    Lo stava facendo anche adesso, ma ora c’era qualcosa di diverso.
    Stava davvero parlando con Stiles.
    «cosa ti ha fatto male?»
    Lo fissò, ancora, le mani strette intorno alla tazza irrimediabilmente fredda. Sarebbe bastato un semplice incantesimo per farla tornare bollente, ma Hugo sapeva bene che il tè riscaldato era un’enorme truffa. Cambiava sapore, si mostrava per quello che era: acqua sporca, dove vi era stata fatta galleggiare dentro dell’erba secca. Una porcheria, in poche parole. «Non lo so.» Lo buttò fuori così, come se nulla fosse, come se fosse la cosa più normale, e scontata, del mondo. «Tutto… e niente. Io stesso, probabilmente. Anzi, quasi di sicuro. Credo di essermi sempre imposto da solo fin troppe cose… eppure, al contempo, non abbastanza. Ho sempre desiderato sapere – del mondo, degli altri, di me, più di tutto. Ma qualcosa… è andato storto.»
    Era dannatamente difficile. Perché era vero, non sapeva nulla. Eppure sapeva, sentiva che c’era qualcosa. Qualcosa che non riusciva a esprimere, che non riusciva a formulare nemmeno dentro la sua testa, dove non avrebbe dovuto esserci bisogno di parole.
    E si sentiva in colpa. Era liberatorio, per certi versi, cercare di dire ad alta voce quello che si imponeva di non sentire dentro. Però non era giusto vomitare ogni cosa addosso a Stiles. Se davvero stava prendendo in considerazione di ritenerlo suo amico, quello che stava succedendo gli avrebbe di certo fatto cambiare idea. Certo, era il suo lavoro dover supportare, e sopportare, chi andava da lui per cercare risposte su sé stesso e sul mondo. Ma Hugo non aveva alcun diritto di farlo. Intanto perché non era un suo paziente, e poi perché i suoi problemi non erano tali. Tutti avevano bisogno di fare terapia, anche la persona apparentemente più felice del mondo, ma lui… lui che aveva da lamentarsi?
    La breccia, però, era stata aperta. Assecondò la strana scenetta della presentazione e ancora, sempre, riversò addosso allo Stilinski cose di cui non importava – giustamente – a nessuno. Si sentì appena meglio, ma anche infinitamente peggio.
    Un classico, insomma.
    «te ne intendi di videogiochi?» Aggrottò le sopracciglia confuso, cercando di ripercorrere con la mente quello che si erano detti negli ultimi minuti. Cosa c’entravano i videogiochi? «Mmh… vorrei dire di sì, ma oggettivamente no, non davvero. Mi piace giocare, ma ho giocato davvero a poche cose. Giochi, emh, veri. Perché l’unico a cui ho davvero, davvero giocato è The Sims. Credo di essere drogato. Quando ci ricasco è la fine, ci gioco mille ore di fila.» D’altronde, come potrebbe essere altrimenti? Vedere altri che vivono esistente soddisfacenti, piene di amici, avvenimenti, amore… Guardò Stiles colpevole, sapendo perfettamente quello che doveva stare pensando: The Sims non era un vero gioco. Era adatto solo a chi non sapeva giocare veramente, a chi cercava di scappare dalla realtà.
    Tanto per cambiare.
    Eppure, Hugo capì il suo ragionamento. Non pensò subito ai Pokémon, non davvero, almeno, ma la sua mente riportò a galla Paperino operazione papero e quel maledetto livello finale. Aveva tutto perfettamente senso. Non si sentiva pronto. Non si era mai sentito pronto. «Perché ho paura», completò a bassa voce, per poi sentire Stiles ribadire quanto fosse bloccato, quanto avesse bisogno di una spinta.
    Era tutto così semplice, così vero… eppure così assurdo. Perché Hugo sapeva quelle cose. Sapeva di essere bloccato, di non avere un obiettivo. Sapeva che avrebbe dovuto darsi una mossa, spingersi, o farsi spingere, certo, tuttavia… «Non so se ce la faccio. È… difficile.» Anche questo era scontato. Era difficile per tutti, non solo per lui, ma gli altri non facevano tutte quelle storie. Lo sapeva benissimo.
    Però gli altri non avevano la sfortuna di essere lui.
    E lo Stilinski gli stava offrendo delle opzioni concrete e fattibili.
    «Cosa ti piacerebbe fare?»
    Gemette.
    O forse no.
    «morire non vale. Non è divertente come sembra, in ogni caso»
    Gemette di nuovo. «Divertente?» Non l’aveva mai vista così. «Comodo, se mai. E non facile, no. Per niente facile. Ma forse, anzi, di sicuro è perché, anche qui, sono un incapace.» Ridacchiò nervoso, stringendosi nelle spalle. «E comunque i miei ci starebbero troppo male. Non se lo meritano.»
    Stava evitando quella domanda?
    Assolutamente sì.
    «Non ne ho idea… ed è anche questo, il problema.»
    gif code
    23 Y.O.
    INEPT
    HALF BANANA
     
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