Imagine for a minute the way that I'd be living if only I could

stiles ft. hugo, ciao sara! adieu!

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  1. walking contradiction.
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    HUGO COX
    You finally met your nemesis
    Disguised as your fatal long-lost love
    So kiss it goodbye
    Until death do we part
    In teoria aveva smesso di chiedersi da tempo perché la gente lo odiasse. Prima di tutto perché non era poi così vero, essendo più che altro frutto della sua immensa coda di paglia. Tuttavia, c’erano stati e c’erano eventi che, al contrario, sembravano confermarlo. Ad esempio ogni volta che incrociava un pg di Alessia, tanto per dirne una. Motivo per cui anche Sara, da coda di paglia suprema quale era, alle volte finiva per chiedersi se, dunque, valesse la proprietà transitiva. Confondendosi, infine, in mezzo a tutti questi teoremi (?) matematici. Comunque, in secondo luogo, Hugo aveva smesso di chiedersi perché la gente lo odiasse perché sapeva che, in realtà, a nessuno fregava di lui. Certo, alla sua famiglia e ai suoi (pochi – ciao Nathan) amici forse un filino sì, ma proprio in quanto famiglia&amici non valevano nel conto. Era a tutto il mondo a non fregare nulla, mentre odiare avrebbe significato dargli una qualche importanza, cosa che invece lui non aveva.
    Non solo si sentiva un niente, ma lo era anche.
    Però c’era anche la pratica. In pratica Hugo sapeva perché la gente lo odiava. D’accordo, forse, anzi, sicuramente parlare di odio era eccessivo, proprio per le ragioni appena elencate, ma non era difficile capire perché faticasse ad avere un grande gruppo di amici o, a voler essere del tutto onesti, che lo amasse in tutto e per tutto. Era faticoso avere a che fare con lui. Il che era assurdo, naturalmente, visto che era ben consapevole di essere la persona più mediocre sulla faccia della Terra (anche se poi, al contempo, si sentiva superiore – e inferiore – al resto del mondo). Ma aveva comunque senso, a suo modo.
    Perché il problema era lui.
    E infatti, non a caso, lo lesse nello sguardo confuso di Stiles. Una confusione troppo limpida e sensata per poter davvero riflettere quel magma indistinto che, invece, si sentiva nella testa. Così gli sorrise istintivamente, di rimando, stringendosi appena nelle spalle per la sua domanda. Sapeva di parlare a sproposito, spesso e volentieri, ma conosceva il significato delle parole e gli piaceva pensare di saperle usare magari non come meritavano, ma almeno non a caso. Non del tutto, almeno. «puoi aspettarti il peggio ed essere comunque un fiducioso ottimista» «Questo è un ossimoro, invece.» Rise di nuovo, piano, sentendosi contemporaneamente soddisfatto e scemo per quel finto sfoggio di ancora più finta ars retorica. «E comunque aspettarsi il peggio è semplicemente essere realisti», aggiunse, incassando inconsciamente la testa tra le spalle nella più tipica delle sue pose, quella da gobbo – o da vecchio, punti di vista.
    Non aggiunse che gli ottimisti erano tutti stupidi, e che lui li invidiava. Sia in quanto ottimisti che in quanto stupidi. Si riteneva il più stupido di tutti, naturalmente, eppure non lo era abbastanza per essere ottimista e, ancora di più, per vivere bene. Si sarebbe accontentato persino di poter staccare il cervello, almeno per un po’, e fluttuare nell’oblio più totale.
    «chi ti ha fatto del male per lasciarti questo pessimismo leopardiano?»
    Ma il senso di colpa era sempre lì, prontissimo a tenerlo con i pensieri, e soprattutto l’umore, ben piantati a terra.
    «se vuoi dirmelo. Non importa se non pensi che sia vero. fintanto che lo credi tu, lo è»
    «Scusa.»
    Di cosa?
    «Per tutto.» Un modo per mettere le mani avanti, certo, ma anche la verità. Perché Hugo non sapeva quello che stavano facendo lui e Stiles (un appuntamento? Un’uscita tra quasi amici? Una rimpatriata voluta per pietà – dello Stilinksi, naturalmente, non sua?), ma all’improvviso gli fu drammaticamente chiaro. «Non voglio… sfruttarti. Specie in questo posto, dove ti hanno già sfruttato abbastanza», cercò di spiegare, di giustificarsi, mangiandosi nervoso le parole.
    Perché Stiles, con tatto e un pizzico di ironia, si stava comportando da professionista quale era. Lo aveva inquadrato in quelle pochissime ore passate insieme, tra l’oblinder e ora. Aveva capito che c’era del marcio non in Danimarca, ma nella sua testa.
    E voleva aiutarlo, facendo il suo lavoro.
    «Cioè, ok, lo sto facendo, quindi poi ti pago!! Per cui ecco. Insomma. Grazie. Però scusami comunque.»
    Se Stiles era un bravo psicologo, Hugo era un paziente terribile. Ci mancava solo che prendesse il portafoglio e gli tirasse addosso qualche galeone, manco fossero stati nel bordello indiano di Lapo. Specie perché quella domanda semplice e persino scherzosa continuava a ronzargli in testa, mettendolo in crisi. «Non è che non voglia risponderti», si premurò infine di fargli sapere, perché era un paziente terribile, certo, ma era pur sempre educato. «Il fatto è che… non lo so? Non so chi mi ha fatto del male. O meglio, so che nessuno me ne hai mai fatto. Sono sempre stato un privilegiato. Famiglia amorevole, mezzi e consensi per fare tutto quello che volevo. Eppure…» Era un po’ tardi per mordersi la lingua. «Eh.»
    Per fortuna che aveva appena detto di non volerlo sfruttare. E che si era appena scusato.
    Dopo quel primo, inutile, insensato rant, dove il non detto era naturalmente che, ad averlo ferito, era stata la vita (e più probabilmente sé stesso), Hugo si buttò a capofitto nel successivo, quasi senza nemmeno riprendere fiato. Per Stiles sarebbe stato meglio se non l’avesse proprio fatto, in effetti, se avesse esaurito tutta l’aria che aveva nei polmoni, così da smettere una volta per tutta di parlare, e di vivere.
    Invece dovette sorbirsi Hugo ancora e ancora, assumendo un’espressione sempre più confusa. Come dargli torto? Razionalmente il Cox sapeva di esagerare quasi sempre, ma il silenzio dell’ex tassorosso parlava chiaro. Non solo l’aveva sfinito, ma confermava quello che pensava di sé stesso da sempre. Qualcosa gli diceva che lo Skilinski avrebbe trovato un modo delicato per farglielo sapere, ma che, alla fine della giostra, l’avrebbe comunque fatto. Perché, appunto, Stiles era un bravo psicomago. Mentre lui era una causa persa.
    «se sai cosa non sei, significa che sai chi vorresti essere? E chi non vorresti essere?»
    «Eh?»
    Altre… domande? Anzi, quelle domande?
    Non era tanto confusione quella sul volto dell’ex corvonero, quanto più… paura. «Mi stai… chiedendo un po’ troppo», si schernì, la bocca un po’ impastata dall’ansia, specie perché in gola sentiva già stringersi quel groppo fin troppo famigliare. Il fatto che non sapesse chi fosse non significava che sapesse chi non fosse e, ancora di più, chi volesse essere. Certo, non era una persona simpatica, intelligente, bella, di successo, amata, ma questo era scontato. Non era il figlio che i suoi genitori meritavano, né l’amico di cui Nathan aveva bisogno. Non era…
    Fissò la mano di Stiles per parecchi secondi, accigliandosi senza rendersene conto, e solo con molta lentezza mise a fuoco il volto del ragazzo, senza però rilassare la fronte. Si stava… presentando?
    Hugo era molto confuso.
    Così confuso da colpirsi da solo, almeno mentalmente.
    Tuttavia, la tecnica dell’ex tassorosso funzionò, perché per tutto il tempo rimase zitto, ascoltandolo con attenzione. C’erano cose che sapeva, in quel discorso, quasi tutte, in effetti (non era uno stalker, naturalmente; era solo diventato molto bravo a usare il computer, visto che aveva passato buona parte della vita a fare amicizia attraverso uno schermo, invece che faccia a faccia), ma ce n’erano anche di nuove, che lo portarono a sollevare le sopracciglia, fissando l’altro con stupore e dispiacere e ammirazione.
    E a ridere.
    Una risata genuina. Sollevata.
    «Scusa.» E un’altra richiesta di scusa. Perché non stava ridendo di lui, ma, sperava, con lui. O magari semplicemente perché l’avrebbe fatto ridere a sua volta, in questo caso davvero di lui.
    Il gomito già sul tavolo, lo fece scivolare nella direzione di Stiles, per poi afferrargli la mano senza stare troppo a pensare a se e quanto la sua fosse sudaticcia e dalla stretta molle e incerta. «Hugo Cox, e non ho un soprannome perché. Eh. Ho un nome troppo corto per essere storpiato. Perché mia madre odia essere chiamata Alex o simili, invece di Alexandra, quindi ha dato a me e ai miei fratelli nomi corti, che non si potessero abbreviare. Ho, umh, ventitré anni.» Era già partito malissimo, ma era pur sempre Hugo. «Inglese.» Annuì in direzione di Stiles. «Due fratelli.» Annuì di nuovo, appuntandosi mentalmente di chiedere delucidazioni sul termine che aveva usato. «Ex universitario, ho fatto giusto in tempo a laurearmi prima di… be’, questo Mosse la mano libera intorno a loro, con una risatina nervosa, guardandolo con fare eloquente. «Sinceramente avrei volute continuare a usare lo studio come modo per sfuggire alle responsabilità e al mondo degli adulti, ma ora come ora frequentare un’università babbana sarebbe come attaccarsi sulla schiena un tiro al bersaglio, quindi…» Un’altra risatina, stavolta molto più isterica. «… quindi sono disoccupato. E terrorizzato. E inutile. E… stanco.» Lasciò ricadere la mano libera sul tavolo, come se fosse senza vita. «Il che non ha senso, dato che passo le mie giornate senza combinare nulla. Però non credo di essermi mai sentito così stanco.»
    Stava ancora tenendo stretta la mano di Stiles.
    «Scusa.»
    gif code
    23 Y.O.
    INEPT
    HALF BANANA


    Mi dispiace, davvero.

    CIT.
     
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