Imagine for a minute the way that I'd be living if only I could

stiles ft. hugo, ciao sara! adieu!

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  1. walking contradiction.
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    HUGO COX
    You finally met your nemesis
    Disguised as your fatal long-lost love
    So kiss it goodbye
    Until death do we part
    Si era sempre ritenuto una persona introversa, uno non esattamente capace, se non addirittura per niente, di stare in mezzo alla gente. E questo era molto, troppo vero, ma Hugo non aveva tutte le caratteristiche degli introversi. Gli piaceva fare la tappezzeria nelle situazioni sociali e si sentiva costantemente a disagio, ovunque fosse, convinto com’era di fare e dire di continuo la cosa sbagliata, di essere sbagliato. Eppure, e con il tempo sempre di più, in quelle situazioni di imbarazzo, ovvero sempre, faceva quello che nessun vero introverso avrebbe fatto.
    Parlava.
    Parlava e parlava e parlava.
    Spesso a vanvera, come ormai fin troppi sfortunati sapevano bene, Stiles in primis.
    Parlava e si apriva, rivelando sé stesso e i propri pensieri come davanti al più caro degli amici.
    In parole povere, Hugo era un fallimento anche come introverso. Non che la cosa lo sorprendesse, naturalmente. Anzi, per certi versi lo faceva persino sorridere. Era ovvio che, persino in una così banale, riuscisse a sbagliare su tutta la linea. Di certo non era estroverso, neanche lontanamente, ma non era nemmeno introverso. Non era né l’uno né l’altro.
    Non era niente?
    No, una cosa lo era di certo. Terribilmente stupido. Aveva detto a Stiles che sperava che, quando anni prima aveva lavorato ai Tre manici di scopa, la paga fosse buona. Un adolescente che serve ai tavoli e al bancone di un pub: c’erano poche cose maggiormente classificabili come sfruttamento minorile di quella.
    «Non credo di aver mai lasciato una mancia in vita mia…», ammise con sincerità, a mezza voce. Eccellere era un verbo fuori dalla sua portata, ma bisognava riconoscergli che, nello scavarsi la fossa da solo, ci andava parecchio vicino. «Di sicuro non l’ho mai lasciata qui.» Appunto. «Non per te, eh!! È che… sono tirchio. Cioè, sì, lo sono, ma poi spendo in stronzate inutili?? E in cibo… ecco, il cibo è l’unica cosa in cui non mi pesa davvero spendere.» Ridacchiò appena, con un accenno di nervosismo. «E si vede.»
    L’introverso che non riusciva a stare zitto, e che, parlando ancora e ancora, riusciva a raggiungere sempre nuove profondità di disagio.
    «… Vabbè, insomma, scusa. Per tutte le volte in cui sicuramente non ti ho lasciato la mancia.»
    Dopotutto, senso di colpa era il suo secondo nome, molto più calzante di quel pomposissimo, e stupido, Victor.
    E infatti, a proposito di senso di colpa, gli sembrò di notare qualcosa nello sguardo dello Stilinski, quando lo definì masochista. Gli era uscita spontaneamente, senza chissà quanto rimuginare. O meglio, il fatto è che, per sfortuna di Stiles, qualcosa gli diceva che, tra loro, c’erano dei punti di contatto. Il masochismo, ad esempio. Quel continuo e solo alle volte inconscio ricercare la sottilissima linea che divideva il piacere dal dolore. Hugo, di certo, lo faceva in continuazione. Odiava sentirsi così, ma si crogiolava nel proprio malessere. Perché almeno, quel malessere, era famigliare. Era qualcosa che conosceva, che lo accompagnava da così tanto tempo da averlo ormai convinto che non esistesse un prima, ma solo quel malessere costante e onnipresente. Hugo non era un malessere, ma il malessere era Hugo.
    «tempi più semplici, non so.»
    «Mh.» Per una volta rimase zitto, rimuginando sulle parole di Stiles. O forse no. Non il rimuginare, il tacere. «Sicuramente allora non sembravano semplici», concordò, con un piccolo cenno di assenso del capo.
    «di sicuro più speranzosi»
    Stavolta il suo cenno di assenso fu più profondo, sebbene quella frase gli strappò anche un ghigno. «Mi fa ridere definirmi speranzoso, anche se a posteriori. Io speranzoso…» E in effetti rise, con una mezza smorfia sulle labbra. «Un paradosso.»
    Sperava che in questo, almeno, Stiles non gli somigliasse affatto. Certo, adesso, evidentemente, non si sentiva più pieno di grandi speranze, ma un tempo poteva esserlo stato. Un tempo, poi. Hugo si sentiva un vecchio e, dentro, lo era da sempre, ma razionalmente né lui né lo Stilinski lo erano davvero. Cos’era successo in quei pochi anni da fargli cambiare così tanto prospettiva?
    Lo osservò, la fronte appena aggrottata, vedendolo stringere la tazza piena di caffè tra le mani. Il caffè che aveva incoraggiato il barista a versargli ancora e ancora, fino quasi a raggiungere l’orlo. Poteva anche essere stato un cameriere pessimo, ai suoi tempi, ma non aveva rovesciato nemmeno una goccia, portandoselo alle labbra. Quasi come se non volesse sprecarlo.
    «pensi che questi non lo siano? Tempi più semplici, intendo»
    Schiuse le labbra, partendo dal prendere un respiro. Perché gli veniva tanto facile parlare con gli estranei? D’accordo, Stiles non lo era, non del tutto, almeno, e il pazzoide che si nascondeva dietro l’oblinder aveva decretato fossero anime gemelle, ma rimaneva comunque una persona che, di lui, sapeva ben poco, a parte conoscere il suo innato talento per il pianto e per la lamentela. Non che ci fosse molto altro, in effetti, visto il suo essere un tipo non solo ordinario, ma terribilmente noioso e mediocre e forse persino insopportabile. Tuttavia, il fatto rimaneva tale: da introverso sbagliato quale era, Hugo tentava di superare l’imbarazzo, e la paura, non indossando alcun tipo di corazza. Anzi, non aveva nessuna protezione. Se ne stava lì, metaforicamente nudo, perché non aveva nulla da nascondere.
    O almeno, con gli altri.
    Doveva, e voleva nascondersi solo e soltanto da sé stesso.
    Strinse le labbra, sentendo lo Stilinski nominare la guerra, e cercò di placare il brivido che, inarrestabile, gli risalì fin nella nuca. «Sì. Sì, non lo sono. Sento che è così, a pelle. Però… però, se ci rifletto, dovrei invece dire che non lo so. Perché forse il fatto è questo… non lo so. Non so niente. Non so…» Era così facile, eppure così difficile. «Non so cosa voglio, tanto per dirne una. Non so chi sono.» Lo sbuffo che gli sfuggì si mescolò a una risata, mentre le mani gesticolavano in cerca delle parole giuste, non impedendogli, però, di tenere la bocca chiusa, lasciando così fluire altre parole, che gli suonavano tutte sbagliate. «Anzi, mi sento come Balto: so solo quello che non sono.»
    gif code
    23 Y.O.
    INEPT
    HALF BANANA


    Mi dispiace, davvero.
     
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7 replies since 25/6/2023, 20:20   214 views
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