the clouds roll in and my thoughts they all go

ft. barry

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    justin case
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    26 | 01.09.1996 | nevada
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    Non sapeva da quanto fosse lì.
    In quella casa – se così poteva essere definito un tale ammasso di mobili di seconda mano, lanciati nella stanza di quel monolocale senza alcun senso o gusto a governarne la disposizione: non che ci facesse molto caso, o che gli interessasse minimamente del feng shui che aveva portato i proprietari di quel luogo ad arredare senza prestare attenzione ai dettagli; era possibile che, in sporadici e casuali istanti, avesse pensato di spostare la cassettiera dalla parete di destra a quella di sinistra, o di rigirare il letto, ma non avrebbe potuto mettere la mano sul fuoco riguardo l’averlo effettivamente fatto –, su quel pavimento. Poteva essere passato un giorno, una settimana, un anno: non avrebbe saputo dirlo; temeva, comunque, meno di quanto avesse davvero avuto coscienza.
    Di sé, o del tempo a scandire i respiri lenti ed i sonnacchiosi battiti sullo sterno – non faceva molta differenza.
    Non sapeva nemmeno come ci fosse arrivato lì, o dove quel si trovasse: l’unica sua certezza era che fosse esattamente dove avrebbe dovuto essere – dove voleva essere. Nello stesso posto privo di alcuno spazio, esente da ogni legge che governava il mondo prima e dopo la guerra, nel quale aveva sempre trovato uno specchio d'acqua calmo in cui ammarare in sicurezza; un luogo che, perturbante, esisteva soltanto nella sua testa, e che comunque sembrava tanto vivido, nel suo essere costantemente liquido e contraddittorio, da poter essere tangibile.
    Teneva le braccia tra le gambe divaricate, gli occhi castani ad indagare una macchia appena più scura sulla parete di fronte a sé – ma non vedeva davvero molto, Justin Case, se non forme sfocate ad inseguirsi come macchine veloci sull’autostrada, o fiocchi di neve dai colori assurdi che si sarebbero sciolti sui palmi delle mani aperte, se solo fossero esistiti davvero. Preferiva comunque tenersi quelle illusioni, migliori di molte altre che aveva avuto da quando aveva lasciato Stonehenge, che lasciare che le palpebre pesanti avessero il sopravvento su una fioca forza di volontà che ancora gli permetteva di rimanere sveglio – che non dormisse da giorni era l’ultimo dei suoi problemi, ed era ironicamente grato alla voragine che gli aveva aperto nel petto e nello stomaco Belzebù: la necessità di colmare quel vuoto, di assecondare quella vorace fame a chiedergli sempre un po’ di più, lo aveva aiutato a trovare metodi innovativi per non prendere sonno. Ci aveva provato una sola volta, da quando era fottutamente morto, e dopo essersi risvegliato urlante e madido di sudore aveva deciso che ne potesse tranquillamente fare a meno per sempre.
    Batté le palpebre rapidamente – una, due, tre volte – cercando una parvenza di lucidità che sapeva bene di non poter recuperare da nessuna parte, sebbene fosse ancora troppo presente a sé stesso per quanto lo riguardava, quando la testa prese a vorticare come un tornado e il mondo parve scomparire sotto i suoi piedi; si aggrappò ai bordi del letto contro il quale si era appoggiato, deglutendo febbrile e stringendo i denti tra loro. Non una sensazione nuova per il criocineta, eppure ogni volta pareva essere la prima: una montagna russa sulla quale era salito e sceso così tante volte, in vita sua, da aver capito come saltare la fila e godersi l’adrenalina in bolo con un’attesa sempre minore; per quanto potesse essere preparato alle cadute in picchiata ed ai giri della morte, il fiato in gola e nel petto veniva comunque meno.
    Era quello il bello, no?
    La cosa peggiore era quando l’universo tutt’attorno cominciava a riassestarsi, e le figure riprendevano i propri contorni smettendo di lasciare dietro di loro scie e pezzi del loro non essere. Quando le bustine di plastica abbandonate sul materasso, le carte argentate stropicciate e le siringhe lasciate cadere sul pavimento iniziavano a riacquistare quel significato che per un po’ di ore aveva potuto dimenticare.
    Pensò a Wren, quando l’occhio gli cadde sul laccio emostatico sul tavolino; pensò a quanto lo avrebbe odiato quando gli sarebbe arrivato l’ennesimo messaggio in cui gli diceva di stare bene, che fosse tutto a posto – o quando sarebbe piombato a casa sua e di Vals incapace di reggersi in piedi, senza dire alcunché, com’era successo già decine e decine di altre volte prima di allora. Era stato serio, quando gli aveva detto che non volesse lasciarlo: per nessuna ragione al mondo; ma che non sarebbe stato abbastanza forte da resistere, lo sapevano entrambi. All’Hastings bastava un semplice colpo di telefono, il solo pensiero di aver bisogno di lui, e Just sarebbe corso a prescindere dalle condizioni pietose in cui verteva: riteneva necessario, in momenti come quello, fargli sapere che ci fosse e che sempre lo avrebbe fatto – indipendentemente da tutto, da tutti.
    Pensò a Hold, a Check e Mood, quando su gambe traballanti si alzò da terra; pensò al fatto che non avesse avuto nemmeno il coraggio di farsi vivo, di mettere piede in casa o di mandare una lettera ad Hogwarts. Si era informato su di loro, era certo fossero sani e salvi, ed in quel momento l’unica cosa che avesse intenzione di fare era lasciare che le cose non cambiassero. Aveva paura, il Case, aveva una paura fottuta: irrazionale, forse, e di cosa nello specifico non avrebbe saputo dirlo – di quelle immagini sui giornali, di quello che aveva fatto il suo potere, di quello che potevano pensare di lui, di ferirli in alcun modo.
    Pensò a Moka, a Sin e Javi, a Emilian e Jane e di nuovo a Wren, mentre arrancava alla ricerca di altro – non trovando nulla, se non due corpi distesi su un materasso apparentemente immobili senza domandarsi se fossero ancora vivi: erano già lì e lo avevano accolto, o lo avevano seguito con la promessa di più droga di quanta potessero immaginare? –; si chiese, per un breve istante e prima di rendersi conto che non avrebbe fatto alcuna differenza conoscere la risposta, come se la stessero passando loro. Cosa stessero facendo – se come lui fossero tornati alla loro vecchia vita, nel male o nel peggio.
    Pensò a sé, pensò di non voler fottutamente pensare, con i pugni battuti contro il legno del mobile di cui aveva aperto tutti gli sportelli e buttato a terra ogni stupido suppellettile alla ricerca di qualcosa che annullasse di nuovo quel rumore nella testa. Quel continuo ronzio fastidioso che aveva stupidamente tentato di placare con le mani premute sulle orecchie, quel vuoto a mordere e tranciare e demandare d’essere placato.
    Pensò.
    E pensò.
    E pensò, fino a che non ne ebbe la nausea.

    Non sapeva da quanto fosse lì.
    Sotto quel portico, seduto sugli scalini che portavano al portone d’ingresso della villa – troppo fatto per ricordare come fosse arrivato laggiù, e troppo sobrio per restarsene in quel tugurio da cui era partito. Aveva suonato alla porta, e si era semplicemente lasciato cadere su quel marmo che doveva costare più di quanto avesse mai guadagnato con tutti gli anni di tour in giro per il mondo – testa bassa ad ignorare i giochi di luce della luna, occhi fissi sulle mani che finivano di rollare una conquista che doveva aver fatto lungo la strada per arrivare fin lì. Aveva voluto rimuovere gli ultimi minuti, forse ore, passati a camminare, perché avrebbe significato rimuginare su quanta gente l’avesse guardato, quanta l’avesse indicato, e quanta in un sussurro che pensavano non potesse si era domandata se fosse proprio lui, ma sì!, quello che è apparso sul Morsmordre.
    «non sapevo dove andare.» incalzò con voce rauca quando sentì la porta aprirsi alle sue spalle, ma non si mosse di un centimetro per controllare se lo Skylinski fosse davvero apparso sull’uscio, o se fosse stata una sua allucinazione. Invero, di posti dove andare Justin ne avrebbe avuti a bizzeffe: escludendo casa sua dove Hold probabilmente aveva piazzato delle trappole anti-fratello, o Hogwarts – per i suoi amici, per i suoi fratelli –, o l’appartamento di Wren dove era certo avrebbe trovato un porto troppo sicuro per ciò di cui aveva bisogno in quel momento, c’erano sempre le strade ed i ponti che lo avevano ospitato per molto più tempo di quanto non avesse fatto New Hovel o qualsiasi fissa dimora.
    Se era andato a cercare Barry, era perché aveva bisogno di più cose di quanto non fosse capace di mettere assieme in un ragionamento sensato – non in quel momento, quanto meno. «ho portato un pensierino.» sollevò la canna rollata per mostrarla al ragazzo, e con essa una bustina ed un’insulsa manciata di pasticche dalla dubbia provenienza al suo interno. In fin dei conti non era mai stato nella villa dove abitava, e Justin Case era un ragazzo educato: non aveva trovato nessun fioraio aperto per portargli un mazzo di rose da mettere in un vaso, ma una piantina gliel’aveva comunque trovata.
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    la guerra era finita.
    avevano vinto loro.
    ma anche un po' sticazzi, dico bene?
    a barry, dell'esito di quella pagliacciata sue cala mondiale, non sarebbe potuto fregargliene di meno. aveva partecipato perché costretto, e una volta messa in tasca la certezza che i freaks fossero sani e salvi, tutto il resto era passato in secondo piano.
    certo, ci aveva guadagnato due fratelli nuovi di zecca — perdendone uno; ma non era più un ragazzino. alla rivelazione stile Carramba che sorpresa! di Rennie aveva reagito come un vero badger, limitando i propri movimenti al braccio che si sollevava per portare la bottiglia fino alle labbra: niente sceneggiate di panico seduto su un muretto, risatine isteriche e tour dei vomitini di Alessia a Napoli. non aveva provato nulla, barry (e aveva provato tutto), al punto da chiedersi per un breve istante se nel petto gli fosse rimasto qualcosa.
    o se abbadon si fosse preso anche quello, la parte di cuore che Amalie gli aveva lasciato quando se n'era andata.
    ricordava di aver pensato, un pensiero fugace e astratto che era subito annegato nell'alcol offerto dal generale, quanto sarebbe stato facile per lui trovarsi al posto di uno qualunque dei sette prescelti. convinto, probabilmente a torto, di non sapere più cosa significasse provare rimorso, o senso di colpa.
    forse non l'aveva mai fatto, barry.
    altrimenti non avrebbe ripetuto in maniera costante gli stessi errori dai quali era stato messo in guardia: scegliere la parte sbagliata, tanto per dirne una; stare lontano da amalie, per dirne un'altra. e alla fine era stata lei a prendete le distanze — ragazza intelligente.
    «non sapevo dove andare.»
    beh, questo sì che faceva ridere.
    non erano amici, barry e justin. a malapena conoscenti, forse più concorrenti nello stesso campo di vendita; ex, ormai, considerato che per entrambi i tempi dello spaccio studentesco erano finiti da un pezzo. scegliere di presentarsi alla sua porta poteva significare solo due cose: o aveva finito la roba, e allora l'ex corvonero poteva essere di qualche aiuto, o era davvero disperato.
    per la seconda ipotesi barry non aveva soluzioni.
    quando vide la canna, gli venne il dubbio.
    quando justin sollevò la bustina di plastica, lo skylinski capì di non poter fare assolutamente nulla; che potesse servire davvero, si intende «ho portato un pensierino.» solo a quel punto la figura asciutta del ventitreenne si mosse, le mani affondate nelle tasche dei pantaloni. pochi passi per attraversare il patio, prima di chinarsi ad osservare le pasticche attraverso la patina di pvc con lo stesso sguardo critico di un antiquario di fronte ad un falso «per uccidermi?» una curiosità sincera quella a trapelare dalla voce di barry.
    arrivati a quel punto, non si sarebbe stupito.
    «dove le hai prese, case? da quel tizio che taglia la roba con la benzina?» spostò le iridi grigio azzurre e la propria attenzione dalle caramelline al volto emaciato dello special, senza cambiare espressione. se era la compassione, quella che cercava Justin, aveva sbagliato casa «se proprio devo farla finita preferisco sapere con cosa mi sto suicidando» anche il tatto non si poteva dire fosse il suo forte.
    vero che durante la guerra aveva preso mandato giù sostanze stupefacenti di dubbia provenienza senza farsi troppi problemi, ma si era trattata di un'emergenza.
    una necessità.
    però allungò comunque una mano, stringendo tra le dita la canna che Justin stava così generosamente offrendo — ammesso che fosse davvero un'offerta; non perse tempo a chiedergli il permesso, comunque «questa sembra già più accettabile» prese l'accendino da una delle tasche, facendo brillare la fiammella abbastanza vicino alla carta da bruciarne una parte, poi vi soffiò sopra «perche non sei a casa tua, Case? ormai sei un vip, fai parte dell'élite» si sedette sul gradino più alto, Barry, il filtro della canna stretto tra i denti e il fumo acre a bruciare la gola; una sensazione familiare, forse persino un po nostalgica: roba da ragazzini.
    socchiuse gli occhi osservando il vialetto di ingresso, mentre porgeva la sigaretta al ragazzo, entrambe le braccia a premere contro le ginocchia «a parte qualche milione di morti sulle spalle direi che non vi è andata così male» e solo allora lo guardò.
    perché era una merda, barrow skylinski, e ci teneva a ricordarglielo.
    sia mai che si fosse fatto l'idea sbagliata: era già capitato in passato (era già capitato in un'altra vita) e non era finita per niente bene.


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    «per uccidermi?»
    Alla voce di Barrow le labbra dello special si mossero, impercettibili e veloci. Non era un sorriso divertito e sarcastico quello sul suo volto, per quanto ne avesse tutto l'aspetto, ben nascosto dalla penombra e dal capo chino. Più uno spasmo involontario e macchinoso, violento, tanto che gli parve di percepire i muscoli del volto contorcersi e strapparsi, riversando nella bocca il sapore metallico del sangue.
    «dove le hai prese, case? da quel tizio che taglia la roba con la benzina?» Cristo, ma per chi lo aveva preso? Quasi ringraziò la malafede del biondo nei suoi confronti, perché gli permise di allontanare un attimo i pensieri da quel continuo ronzio nelle orecchie e dalla stanchezza di corpo e mente per focalizzarsi su un unico sentimento: l'offesa. Certi errori poteva averli fatti in adolescenza, quando qualsiasi cosa sotto la lingua o nell'incavo del gomito sembrava oro colato, ma non alla veneranda età di ventisei anni – non quando di quel mondo aveva visto il meglio, e non soltanto il peggio. Non rispose perché era una persona educata, il Case, e non aveva voglia di mandarlo a farsi fottere a nemmeno un minuto da che aveva aperto la porta. Sebbene se lo meritasse ogni volta.
    «se proprio devo farla finita preferisco sapere con cosa mi sto suicidando» piegò la testa verso il lato dal quale aveva sentito arrivare la voce dello Skylinski, ma senza alzare il capo a cercare il suo sguardo. Per quanto fosse difficile da credere, Justin aveva una dignità: non voleva far pena a nessuno, e non era per quel motivo che aveva aspettato sotto il patio, ma immaginava che gli occhi arrossati e le pupille dilatate avrebbero potuto lasciar intendere il contrario. «se volessi ucciderti,» passò la lingua sulle labbra secche, schiarendo la voce rauca quanto più possibile – sembrava appena uscito dall'oltretomba, e nemmeno troppo ironicamente. «lo farei in maniera più creativa» non con delle banali pasticchette. , forse sarebbe stato più intelligente: in fin dei conti la prematura dipartita per overdose dell'ex corvonero aveva diverse quote al fantamorto. Tuttavia, il criocineta aveva l'indole dell'artista, non quella dell'assassino.
    Men che meno considerando che far fuori Barry fosse l'ultima cosa che aveva intenzione di fare.
    «mh...» quando gli prese la canna dalle mani, sostenendo di trovarla già più accettabile, ci tenne in particolar modo a fargli presente che «quella non so da dove arrivi». Conosceva ogni singolo spacciatore di Londra, ormai, e sebbene avesse vagabondato in balia di molte droghe sparate in precedenza, dubitava fortemente di averla presa da qualcuno di poco affidabile, ma preferiva comunque essere onesto con il ragazzo. D’altra parte, se la reputava passabile lui che era un vero intenditore, andava bene così.
    «perché non sei a casa tua, case? ormai sei un vip, fai parte dell’élite. a parte qualche milione di morti sulle spalle direi che non vi è andata così male.»
    Spinse la lingua contro il palato, rimanendo con lo sguardo appannato ad ammirare i gradini sotto i propri piedi. Avrebbe voluto ridere e dirgli che culo, uh?, ad avere quell’infame gloria addosso: di far parte dell’élite a Justin Case non era mai potuto fregare di meno, tanto più dal momento che per un decennio intero aveva cercato in tutti i modi di allontanarsi quanto maggiormente possibile da quel mondo. E si trattenne molto dal dirgli di farsi i cazzi propri, o (ancora una volta) di andarsene a fanculo; ma non riuscì ad evitare che un soffice strato di brina si posasse sulla mano che non era andata a cercare lo spinello, figlio di rabbia e frustrazione, o che il cervello gli suggerisse di farlo scivolare oltre fino a Barry in una scultura di ghiaccio, incapace di fare domande e affermazioni scomode: se non avesse voluto quella ruvidezza, sarebbe andato altrove a farsi coccolare.
    «credo mia sorella abbia messo delle mine antiuomo…» sbuffò, non molto divertito. «e comunque non è lì che voglio stare, al momento.» solo allora alzò lo sguardo, trovando quello chiaro del minore. Justin non aveva partecipato alla battaglia di Hogwarts di quattro anni prima – era un tantino impegnato con le torture nei laboratori –, ma sapeva bene cosa fosse successo; era a conoscenza del fatto che i sette di Stonehenge non fossero da soli in quella merda. Lo vide, lo sentì, negli occhi di Barry. «non penso sia quello di cui ho bisogno.» o di cui avessero bisogno i suoi fratelli, ma quello gli pareva scontato.
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    «se volessi ucciderti, lo farei in maniera più creativa» a quel commento Barry aveva preferito non replicare. era una merda, sì, ma sapeva come dosare il suo essere stronzo e infame: sparare tutte le cartucce in una volta rischiava di essere solo uno spreco di buone battute — e poi che altro avrebbe avuto da dirgli? meglio limitarsi a stringere le labbra attorno al filtro della canna, schiare la gola così da soffocare un principio di risata che non sarebbe stata affatto divertita.
    c'era qualcosa, nella risposta di Justin (nelle persone come justin) che lo faceva ammattire.
    uccidere in maniera creativa?
    oh bubi.
    avrebbe potuto chiedergli se si fosse mai davvero ritrovato davanti alla possibilità di uccidere qualcuno perché voleva; se avesse mai provato il desiderio lacerante di affondare una lama nella carne, o i pugni a frantumare le ossa finché non ne fossero rimaste da rompere. l'arte, il bisogno di essere creativi, la fantasia, andavano a farsi fottere molto prima di quanto fosse possibile immaginare. barrow lo sapeva — aveva affondato lame e pugni solo per il gusto di farlo, la mente sgombra da qualunque altro pensiero che non fosse la soddisfazione di veder scorrere il sangue.
    a parti inverse, se avesse voluto attentare alla vita del Case, rifilargli due pasticche tagliate con la candeggina sarebbe stata un'opzione di tutto rispetto.
    ma quello se l'era tenuto per sé, lo skylinski, preferendo colpire in un altro punto; uno che faceva ancora più male, evidentemente. lo suggeriva l'impalpabile strato di brina sul dorso della mano, il lieve formicolio di mille aghi invisibili a conficcarsi nella pelle sottile. una dimostrazione alla quale Barry rispose con il massimo della reattività di cui era capace in quel momento: sollevando appena un sopracciglio, il filtro della canna stretto tra i denti, e la bacchetta tra le dita della mancina. puntata già in direzione di Justin, a pochi centimetri dal centro esatto della sua fronte. non gliene fregava un cazzo, che fosse questione di controllo e emozioni «hai finito?» una domanda lecita, che l'altro parve ignorare offrendo in campo una spiegazione poco rassicurante — per Barry, quanto meno. l'ultimo argomento sul quale poteva permettersi di dare consigli, era la famiglia.
    abbassò comunque il catalizzatore, quando l'improvviso accenno di frustrazione da parte del minore si fece più moderato; lo tenne comunque vicino, facendo scivolare il legno tra le dita come un batterista in attesa di battere il tempo: se Justin gli avesse fornito la scusa, a proposito di uccidere con creatività, barrow skylinski non ci avrebbe pensato su due volte. probabilmente nemmeno una — bastava mezza, e nella scelta tra i due avrebbe sempre preferito se stesso.
    un ritorno alle origini, se vogliamo.
    «dovresti dire a tua sorella di andare a farsi fottere» consiglio spassionato, il suo. non conosceva il perché, o se avesse altre motivazioni a parte le più ovvie, e cosa ancora più importante, non era interessato a conoscerle. il tono nostalgico con cui Justin aveva ceduto volontariamente quell'informazione non richiesta lasciava supporre quasi che trovasse la reazione della sua famiglia onesta, forse addirittura giustificabile — i sensi di colpa potevano fare quell'effetto; e colpivano quando meno ce lo si aspettava. tipo, che ne so, durante i mago (too soon). ma con tutte le scelte pessime compiute nella vita, la tolleranza di Barry nei confronti dei martiri aveva raggiunto il fondo del barile e ora raschiava, cricri «se fosse stata scelta lei al posto tuo, ora avrebbe un genocidio alle spalle esattamente come te. chiedile se pensa che avrebbe ancora un fratello» probabilmente si. il criocineta aveva l'aria, per quanto tentasse di nasconderla, di uno bravissimo a autoflagellarsi.
    e infatti stava fuori da casa sua, no?
    pessima combinazione, droghe e rimorsi.
    anche ammesso fossero risposte, quelle che Justin continuava imperterrito a cercare negli occhi chiari dello skylinski, Barry non ne aveva alcuna da dargli — nessuna che potesse cambiare le cose, quanto meno: certo, era morto; Abby lo aveva gentilmente riportato in vita, chiedendo in cambio asservilismo incondizionato e la possibilità di infestare i suoi incubi per il resto delle notti che gli rimanevano da affrontare. non era stato nemmeno così complicato - aveva passato momenti peggiori - finché Amalie non se n'era andata, e le pasticche tornate. estraniarsi dalla realtà era una scelta che c'entrava molto poco con il peso di essere un'ombra, e questo distingueva l'esperienza sua e dello special rendendo quasi impossibile trovare un vero punto in comune. senza parlare del dettaglio insignificante delle migliaia di morti, ovviamente.
    «non penso sia quello di cui ho bisogno.» e quindi. alla fine. erano giunti al fottutissimo punto. per un po, questione di secondi, Barry limitò i suoi movimenti ai respiri profondi grazie ai quali il fumo gli entrava nei polmoni e risaliva fino al cervello; un placebo, che richiedeva troppa opera di convincimento. un atto di fede, da medicinale omeopatico, che proprio non faceva per l'ex corvonero. ma li inspirò comunque, lasciandoselo bruciare tra le costole, raschiare la gola con quel sapore dolciastro che ti rimaneva incollato alla lingua per ore. poi prese e si mise in piedi «a questo punto sono curioso» mh, sounds fake «cosa pensi di aver bisogno, Justin? e perché sei venuto a cercarlo proprio da me, soprattutto» conforto? meh. comprensione? non erano amici, a malapena conoscenti, ma sapevano abbastanza uno dell'altro da essere sicuri di non possedere quella skill — Barry, quantomeno. una botta e via? le voci giravano un po troppo in fretta, evidentemente.
    salì i gradini tenendo la canna tra le labbra e la bacchetta nel palmo della mano, voltandosi solo una volta ma senza rallentare il passo che lo stava riportando all'ingresso della villa «io torno dentro, se proprio vuoi parlarne ti conviene alzare il culo» ma così, lui si limitava a buttarla lì.

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