where do we go from here?

cortile dell'ospedale| ft. azzy

« Older   Newer »
 
  Share  
.
  1.     +4    
     
    .
    Avatar

    Member

    Group
    Rebel
    Posts
    384
    Spolliciometro
    +653

    Status
    Offline
    1993
    coach
    gryff
    where do we go from here?
    tell me,
    do we get what we deserve?
    you let your feet run wild,
    time has come as we all, oh, go down
    Puntò lo sguardo azzurro verso il cielo limpido, Morley, sfidando la luce del sole a bruciargli le retine, e distogliendolo solo quando il fastidio si fece insopportabile; a quel punto, allora, imprecò.
    Perché era un maledetto stupido — e non sapeva, di preciso, cosa volesse dimostrare con quella stupidaggine, ma qualcosa bruciava nel petto e imponeva di essere ascoltata.
    Avrebbe voluto dire di non riconoscere quella sensazione, ma sarebbe stata una bugia: di cose stupide nate da un capriccio, Morley Peetzah, ne aveva fatte così tante da poterci scrivere su un libro (tale padre, tale figlio); inutile dire che la maggior parte di esse non fosse andata a finire bene. Ma erano tutte storie! Cose belle da raccontare, su cui ridere e di cui farsi vanto.
    Quella invece — quella era dettata solo da dispiacere, e lutto, e voglia di urlare e fare qualsiasi cosa pur di poter capire, di mettersi nei panni di qualcuno che non aveva avuto scelta, o forse sì ma aveva deciso di compiere quella che aveva reputato giusta, non potendo immaginare le conseguenze delle sue azioni. Gli ricordava giusto qualcuno. Ah, Arabells: così simile a lui, più di quanto alla piccola Dallaire sarebbe piaciuto ammettere.
    Massaggiò gli occhi, il coach, strizzandoli fino a vedere solo macchie senza forme dietro le palpebre serrate. Come Bells. Di nuovo. Il miracolo, la magia, che le aveva ridato la vista era venuta meno nel momento stesso in cui le vene della ex Arpia si erano riempite di un tipo di magia diverso — era tutto un fottuto casino.
    Lo era già da un po', in effetti, ma giorno dopo giorno non faceva che peggiorare, quando si tiravano le somme e si faceva la conta, e la stima, dei danni.
    Le oltre sei settimane di conflitto erano state terribili, e no, non solo perché il campionato era stato interrotto: aveva un solo pensiero fisso, il Peetzah, è vero, ma non era così superficiale. Non più. Si era domandato spesso, nel corso di quel mese e mezzo, se anche lui avrebbe fatto la stessa scelta di Bells, di Wyatt, se ne avesse avuto la possibilità; se non avesse avuto Bang. E più di una volta era rimasto ad osservare il soffitto a corto di parole per formulare una risposta da dare a se stesso. Forse sì, forse no; impossibile dirlo. Ma ora che vedeva le conseguenze a cui erano andati incontro coloro che avevano combattuto per fermare il folle piano di Abbadon, forse egoisticamente era felice di non averlo fatto; non era mai stato una persona moralmente perfetta, Morley, e lo sapeva, ma non trovava così sbagliato pensare a se stesso in un momento in cui tutto intorno a loro bruciava e cambiava. Aveva perso già tanto, in trent'anni di vita, e di recente aveva perso ancora, la sua vita era stata ribaltata di punto in bianco quando Penn aveva deciso di prendersi del tempo e l'aveva lasciato solo con Bangkok; non avrebbe sopportato altri cambiamenti, eppure doveva accettarli.
    Perché quando aveva ricevuto la telefonata dell'Holland, Piz non aveva capito; quando aveva saputo che Bells fosse viva ma avesse perso di nuovo la vista, non aveva capito. Era dovuto arrivare fino al San Mungo per toccare con mano quelle nuove realtà, per far sì che il criceto in catalessi nascosto sotto i corti capelli biondi, salisse sulla ruota e cominciasse a correre, a far girare gli ingranaggi per permettergli di collegare i puntini; e la prima cosa che aveva pensato, era stata riguardo l'irreversibilità di quanto successo.
    E che fosse contento non fosse capitato a lui; non avrebbe perso di nuovo il Quidditch, anche a costo di dovercisi aggrappare in favore della proprietà integrità morale.
    Ma era stato egoista, e un coglione, e si sentiva in colpa; perché era Bells, ora, che rischiava di perdere tutto e lui non sapeva come aiutarla. Aveva già chiamato Elijah? Doveva farlo lui? Passò la mano sui capelli, reclinando la testa, e sistemandosi meglio sulla panchina del cortile dell'ospedale: era ancora lì, nonostante l'orario di visita mattutino fosse terminato da un pezzo, perché non sapeva dove altro andare. Il campionato non sarebbe ricominciato, c'era troppo da ricostruire e da capire, e Bangkok era a scuola; poteva tornare all'AFC, ma voleva stamparsi un sorriso di circostanza e scambiare convenevoli con gli iscritti della palestra? No.
    Così rimase lì, braccia larghe sullo schienale della panchina, e palpebre abbassate sugli occhi lucidi.
    everythinghaschanged
    morley peetzah
    So casually cruel
    in the name of being honest


    vi mancavano le mie role libere ehhhh. scusate, avevo un po' di feels post quest incastrati in gola ciao
     
    .
  2.     +3    
     
    .
    Avatar

    Junior Member

    Group
    Rebel
    Posts
    33
    Spolliciometro
    +33

    Status
    Offline
    1994
    Mediwizard
    ravenclaw
    What makes a grown man wanna cry?
    take me back 'cause I wanna stay
    Save your tears for another
    I realize that I'm much too late
    And you deserve someone better
    Fin da quando era piccola Azrael Lovell aveva avuto un’unica sicurezza.
    oddio, forse le sicurezze erano addirittura due o tre ma insomma la più importante consisteva nel voler fare il medico.
    Non le era importato che ai suoi genitori non fosse potuto andar bene, e non le era importato di certo delle strigliate o delle botte che seguivano quell’affermazione detta a gran voce, fin dal primo momento, fin dal primo istante in cui era riuscita a pronunciare una frase senza aver paura di essere bacchettata, fin da quando non aveva avuto paura di essere se stessa, Azrael aveva saputo che la sua vocazione fosse aiutare le altre persone.
    Essere un medico era la sua essenza, non avrebbe saputo immaginare una vita senza indossare il camice, l’odore di disinfettante, senza avere in cura pazienti a cui pensare anche fuori dall’orario lavorativo, la sua vita era dedita a chi ne aveva bisogno, non si faceva scrupoli su chi aiutare, non si faceva domande su chi fosse colui o colei a cui stava dedicando anima e corpo, per lei ogni vita valeva, ogni vita meritava di essere salvata.
    Non aveva mai avuto, quindi, un chissà quale distacco emotivo dai suoi pazienti, ma la situazione era decisamente cambiata quando era stata sua sorella ad essere la sua paziente.
    non che prima di allora non le avesse curato alcuna ferita, Nefarious era fin troppo vivace e più e più volte si era ritrovata a tamponarle le ferite e a sentirla lamentarsi del bruciore che le provocava il disinfettante; ma quella volta, non era una ferita che poteva essere trattata con una soluzione antibatterica, o addirittura ricucita, no, sua sorella aveva una ferita all’animo che nessun medicinale avrebbe potuto curare, e questo la faceva star male, ogni volta che la guardava, che la vedeva struggersi, affrontare la vita senza quel brio negli occhi che prima tanto la caratterizzava, si diceva che niente di ciò che le era successo era giusto.
    Era solo una ragazzina. come lo era stata lei in precedenza, come lo era stata anche May, che ora aveva perso tutto.
    Sarebbe dovuto capitare a lei, lei che, in un modo o in un altro, si sarebbe rassegnata, avrebbe accolto il suo destino magari anche duramente, e invece era capitato a Neffi, colei che aveva sempre voluto proteggere dalla vita che a sua detta troppo pericolosa, e che alla fine non era riuscita nemmeno a mettere allerta.
    Si strofinò gli occhi la dottoressa Lovell, pensando che quel senso di colpa non se ne sarebbe mai andato, che l’avrebbe accompagnata per tutta la sua, breve o centenaria che sarebbe stata, vita; afferrò il suo ennesimo caffè per quella giornata e si avviò nel posto in cui di solito pensava, il cortile dell’ospedale, dove si rifugiava su una panchina per nascondersi dai suoi colleghi, di solito nelle pause…
    posto che a quanto pare era occupato, si era ritrovata Piz dinnanzi e non si era nemmeno accorta di essere arrivata, troppo soprappensiero «Mi dispiace, vado via subito» un sorriso di circostanza, imbarazzato per la brutta figura «di solito non c’è mai nessuno… ed ero pensierosa, non mi sono accorta ci fosse lei» provò a spiegarsi, mentre una risatina imbarazzata lasciava le sue labbra, e mentre faceva un passo indietro, pronta a tornare in reparto.
    sheettunesaesthetic
    Azrael Lovell
    So casually cruel
    in the name of being honest
     
    .
  3.     +2    
     
    .
    Avatar

    Member

    Group
    Rebel
    Posts
    384
    Spolliciometro
    +653

    Status
    Offline
    1993
    coach
    gryff
    where do we go from here?
    tell me,
    do we get what we deserve?
    you let your feet run wild,
    time has come as we all, oh, go down
    Preso com'era dai suoi pensieri, Piz non si era minimamente accorto di non essere più da solo in quella porzione di cortile tranquilla e appartata.
    Era raro che si ritirasse così tanto nelle proprie riflessioni da isolarsi dal resto del mondo — non era di certo quel genere di persona, meditativo e frequentemente assorto in pensieri profondi, ma le recenti vicissitudini avevano cambiato persino lui, sotto quel punto di vista: riteneva fosse inevitabile, che dovesse per forza succedere quando la tua pupilla - nonché sorellina di cuore - partiva per la guerra e tornava avendo perso per sempre la magia, e non solo. O, più in generale, quando il mondo veniva ribaltato e ogni certezza mai avuta fino a quel momento veniva meno: trent'anni di vita e poi bastava un mese di conflitto per far cambiare tutto. Era abbastanza egoista, il Peetzah, da farla diventare anche una questione sua, quella lì, pur non avendo attivamente preso parte agli scontri.
    Era, dopotutto, un cittadino del mondo anche lui, no? Era suo sacrosanto diritto quello di lamentarsi di qualcosa – piangersi addosso era fuori discussione, anche se tutti quei sospiri e quelle occhiate rivolte al cielo ci andavano pericolosamente vicino.
    Nemmeno a dirlo, a Piz non piaceva quel nuovo Piz; era abituato al vecchio, il grifondoro audace che affrontava ogni problema di petto e senza rimuginare troppo sopra il da farsi; quello che prima agiva, poi forse pensava.
    Quello che “ma sì, dai, cosa vuoi che sia, ora lo risolviamo alla vecchia maniera”.
    Ma non c’era “vecchia maniera” che tenesse, quella volta; quello non era un problema che Morley potesse semplicemente prendere a pugni, o sfidare sul campo da Quidditch; non aveva alcun tipo di munizione per affrontarlo, né armi per difendersi.
    E non c'era cosa che lo facesse stare peggio del sentirsi impotente.
    Non era affatto abituato a quella sensazione, ad avere le mani legate e zero possibilità di fare alcunché di utile.
    Si passò il palmo aperto sul volto, sospirando e al contempo cercando di perdere l'aria misera avuta fino a quel momento e acquistarne una che rispecchiasse di più il vecchio se stesso — quello che voleva continua ad essere, in barba a tutto il resto.
    Alla donna in piedi di fronte a lui, dopo qualche minuto di impacciato silenzio, rivolse un sorriso made in Peetzah, e un cenno col capo. «Mi dispiace, vado via subito» si detestava a priori per quel pensiero, ma non poteva negare che , l'avrebbe preferito di gran lunga al farsi vedere avvilito e sconfitto, un atteggiamento lontano anni luce da quello del campione che era.
    Ma non era un bastardo, e non avrebbe cacciato via la donna.
    Scosse appena la testa, quindi, rivolgendole un cenno con la mano. «c'è abbastanza posto per entrambi,» le disse, facendo salire gli occhi lungo il corpo della sconosciuta e immaginando, stando al camice, che fosse una dei medimaghi dell'ospedale. «si accomodi pure»
    «di solito non c’è mai nessuno… ed ero pensierosa, non mi sono accorta ci fosse lei» Un sorriso amaro piegò le labbra del coach. «L'avevo scelto proprio per questo motivo,» spiegò indicando con una mano l'area intorno a loro, «perché era tranquillo e solitario.» Provò a tirare le labbra affinché il sorriso si facesse più convincente, per sembrare meno rigido di quanto non fossero suonate le sue parole; stando agli occhi lucidi e arrossati del medico, avevano entrambi bisogno di quello spazio.
    Chi era lui per privarla del suo luogo di pace, quando era ovvio che fosse lui l'intruso?
    «a questo punto sono io a doverle offrire le mie scuse,» non davvero, ma gli piaceva mantenere le apparenze, «e chiederle il permesso di poter rimanere.» ancora un sorriso, un po’ più sentito di prima, e un po’ più bugiardo: non voleva che la donna leggesse tristezza o commiserazione nella sua espressione, tanto valeva darle altro su cui soffermarsi – e perché proprio l’aria da golden boy che rifilava costantemente ai giornali, e che l’aveva salvato in più di un’occasione. «mi bastano altri cinque minuti–» e poi potrò tornare a fingere che sia un giorno come tutti gli altri, o così voleva convincersi.
    everythinghaschanged
    morley peetzah
    So casually cruel
    in the name of being honest
     
    .
  4.     +2    
     
    .
    Avatar

    Junior Member

    Group
    Rebel
    Posts
    33
    Spolliciometro
    +33

    Status
    Offline
    1994
    Mediwizard
    ravenclaw
    What makes a grown man wanna cry?
    take me back 'cause I wanna stay
    Save your tears for another
    I realize that I'm much too late
    And you deserve someone better
    Azrael Lovell era una persona empatica.
    Lo era stata fin da bambina, quando andando a lezione, sfogliando libri, immergendo il nasino aristocratico in tomi troppo pesanti per lei, aveva deciso di fare il medico.
    Lo era ancora, quando guardava sua sorella sul divano di casa sua deprimersi e struggersi, quando faceva il giro tra i reparti e i ragazzini le si attaccavano alle gambe, e lei li abbracciava con un sorriso materno.
    Lo era in quel momento, mentre osservava un suo vecchio compagno di scuola su una panchina con gli occhi lucidi, che le sorrideva senza farlo davvero, che provava ad essere galante senza metterci una vera intenzione.
    Ma se era vero che l’empatia era uno dei suoi tratti dominanti, l’insistenza e l’impertinenza non erano parte di lei: era delicata, Azrael, mentre prendeva posto accanto all’uomo, mai invasiva, aveva vissuto una vita a desiderare un briciolo di delicatezza e di certo non l’avrebbe negata agli altri, accavallò le gambe e sciolse i capelli dall’ acconciatura professionale fatta con una penna in reparto «si può condividere anche un silenzio alla fine » un sorriso tiepido si affacciò sulle labbra del medimago, il sole che carezzava il viso ad entrambi quel giorno sembrava avere un’altro scopo, scaldare gli animi, cosa che di cui a quanto pareva avevano entrambi bisogno «Non deve chiedermi nulla, può stare qui quanto vuole, siamo nel cortile del san mungo dopotutto» questa volta sorrise di rimando, mentre cercava nelle tasche del camice, piene di giochi, caramelle da dare ai bambini, perché alla fine era il suo lavoro quello, donare un sorriso, tornare a vedere quella luce ce tanto le piaceva negli occhi di quei marmocchi, un qualcosa «cinque minuti mi sembrano un po’ pochi, che ne dice di dieci?» porse all’uomo un taccuino, uno di quelli che usava per annotarsi cosa sarebbe potuto servirle giorno per giorno «è usato e non è un granché ma… potrebbe scrivere ciò che le passa per la testa qui » si portò una ciocca di capelli dietro l’orecchio, mentre poggiava il quadernino nello spazio che aveva lasciato tra lei e l’uomo, una distanza di sicurezza, come se avesse potuto rompere la bolla di solitudine dell’altro, come se fosse stato troppo anche respirare la stessa aria «potrebbe dirmi di farmi i fatti miei, e avrebbe ragione, ma le sto parlando da persona, e non da medico» gomito sul ginocchio, mano sul mento «a volte serve a riordinare i pensieri, poi rileggerli una volta risolti li faranno sembrare bazzecole, o solo amari ricordi»
    sheettunesaesthetic
    Azrael Lovell
    So casually cruel
    in the name of being honest
     
    .
  5.      
     
    .
    Avatar

    Member

    Group
    Rebel
    Posts
    384
    Spolliciometro
    +653

    Status
    Offline
    1993
    coach
    gryff
    where do we go from here?
    tell me,
    do we get what we deserve?
    you let your feet run wild,
    time has come as we all, oh, go down
    Per essere uno che aveva passato tutta la vita sotto i riflettori, Piz aveva un rapporto strano con le proprie emozioni, e più nello specifico il modo in cui era solito trasmetterle: per lui, di base, era concepibile mostrare solo un lato di sé — quello del campione, dell’uomo forte e sicuro di sé, vincente, capace di avere successo in qualsiasi cosa. Non esisteva per nulla al mondo che i mass media o dei perfetti sconosciuti lo beccassero di cattivo umore, o triste. Non esisteva proprio. Quel genere di emozioni era fatto per essere (non) processato in privato, lontano dallo sguardo attento di chi era pronto a farlo a pezzi anche per la minima incertezza, coloro che non vedevano l’ora di insinuarsi in una minuscola crepa e allargare il danno fino a distruggere, per gelosia o per divertimento, un’immagine tirata su con fatica e con i successi raggiunti uno dopo l’altro.
    Erano emozioni che si permetteva di provare solo con poche persone, così poche che poteva letteralmente contarle sulle dita di una sola mano: i suoi genitori, Idem, Penn.
    Per tutti gli altri non esisteva un Morley Peetzah diverso da quello che aveva sempre fatto vedere, orgoglioso di sé e sicuro, padrone delle proprie emozioni e della propria vita.
    Un Piz che sembrava lontano anni luce da quello seduto sulla panchina del San Mungo, nonostante si stesse impegnando molto per mostrare alla dottoressa quell’unica faccia della medaglia che, come fosse una luna messa sulla terra per conquistare medaglie e trofei uno dietro l’altro, mostrava al mondo.
    Era una situazione troppo più grande di lui, quella lì, e non riusciva a distaccarsene completamente; non poteva togliersi dalla mente l’immagine di una Bells che, dopo tutti quegli anni e tutti quei sacrifici, tornava costretta in quei limiti che il corpo umano, troppo debole e fallato, spesso imponeva; non poteva non pensare a quanto sangue avesse bagnato il suolo di tutto il mondo, nei due mesi precedenti; non poteva non immedesimarsi in quei genitori che avevano perso un figlio, o in quei figli che avevano perso i genitori. Non poteva pensare a cosa avrebbe fatto se, per un malaugurato allineamento dei pianeti, quel conflitto gli avesse strappato via Joni.
    Era tutto semplicemente troppo.
    «si può condividere anche un silenzio alla fine»
    Non era mai stato bravo a condividere i silenzi, lui. Sempre troppo rumoroso, troppo gonfio, troppo certo; stare in silenzio era qualcosa di sconosciuto per Morley, eppure ora era l’unica cosa che desiderasse davvero. Silenzio, per rimuginare su quanto avvenuto.
    E forse era esattamente quello di cui non aveva bisogno.
    Non avrebbe risolto nulla piangendosi addosso, e non era affatto il tipo da ricorrere a quel genere di finte soluzioni, Piz; in qualche modo, pure se sembrava impossibile, doveva esserci un modo per affrontare di petto tutta la situazione.
    Doveva.
    Sospirò, e non si mosse dalla panchina.
    Se c’era, quel modo, non aveva il giusto spirito per cercarlo in quel momento.
    Ricambiò il sorriso, poco convinto; già, il cortile del San Mungo. Dove centinaia di persone passavano ogni giorno, chi piangendo perché aveva perso ogni cosa, chi invece perché grato di avere ancora qualcosa per cui svegliarsi la mattina. Lui, a conti fatti, non aveva perso nulla: aveva ancora una casa, un figlio, una famiglia.
    (Non aveva più Penn — ma lei l’aveva già persa da tempo.)
    Perché, dunque, se ne stava lì tutto moggio a piangersi addosso?
    Doveva decisamente riprendersi e darsi una smossa: i frignoni non piacevano a nessuno, lo sapeva benissimo.
    «cinque minuti mi sembrano un po’ pochi, che ne dice di dieci?»
    Solo a quel punto, dopo essersi ripetuto più e più volte nella mente che quell'atteggiamento non era affatto quello del campione, prese un bel respiro e infuse più colore in quel sorriso tirato. «temo che finirebbero per diventare venti, o molti di più.» shcerzò, senza scherzare. Prima si fosse alzato da quella panchina, prima avrebbe potuto dare un senso a tutte le cose lasciate in sospeso quella mattina.
    Solo che lo sguardo gli cadde, confuso, sul taccuino poggiato tra loro dalla strega, alla quale rivolse la stessa espressione incerta. «è usato e non è un granché ma… potrebbe scrivere ciò che le passa per la testa qui» oh… oh. Mh. Idem, una volta o due, aveva provato a suggerire una “terapia” simile, ma non era mai servita.
    «come… una specie di diario segreto?» il commento gli uscì più sarcastico del dovuto, se ne rese conto troppo tardi: non c’era effettivamente nulla di male a proporlo come modo per esorcizzare un po’ i brutti pensieri, peccato che lui non fosse il tipo per quel genere di cose.
    «potrebbe dirmi di farmi i fatti miei, e avrebbe ragione, ma le sto parlando da persona, e non da medico» Non glielo avrebbe detto, non era un cafone, ma annuì comunque, valutando quanto detto, e quanto proposto. «a volte serve a riordinare i pensieri, poi rileggerli una volta risolti li faranno sembrare bazzecole, o solo amari ricordi» «ma dubito aiuteranno con i problemi reali…» alzò lo sguardo terso verso il cielo, tirando le labbra in una linea sottile: c’erano cose che non si risolvevano semplicemente scrivendole su un libro.
    Quando tornò a guardare verso la donna, l’espressione era più morbida.
    «mi dispiace, non volevo essere insensibile. è che sono abituato ad approcci più diretti, di solito. “un problema che non può essere preso a pugni, non è un problema che mi riguarda…”» recitò quell’ultima frase quasi in maniera atona, parole che aveva ripetuto a se stesso per tutta la vita e che, di punto in bianco, non si applicavano più alla sua quotidianità. «piacere, comunque,» disse infine, allungando la mano in direzione della dottoressa, «morley peetzah.» quel “immagino mi conosca” che di solito accompagnava le sue presentazioni, rimasto taciuto per qualche strano motivo. «grazie per avermi concesso di rimanere sulla sua panchina, dottoressa.»
    everythinghaschanged
    morley peetzah
    So casually cruel
    in the name of being honest
     
    .
4 replies since 14/6/2023, 11:11   175 views
  Share  
.
Top