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.SPOILER (clicca per visualizzare)vi mancavano le mie role libere ehhhh. scusate, avevo un po' di feels post quest incastrati in gola ciao.
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1994
Mediwizard
ravenclawWhat makes a grown man wanna cry? take me back 'cause I wanna stay
Save your tears for another
I realize that I'm much too late
And you deserve someone betterFin da quando era piccola Azrael Lovell aveva avuto un’unica sicurezza.
oddio, forse le sicurezze erano addirittura due o tre ma insomma la più importante consisteva nel voler fare il medico.
Non le era importato che ai suoi genitori non fosse potuto andar bene, e non le era importato di certo delle strigliate o delle botte che seguivano quell’affermazione detta a gran voce, fin dal primo momento, fin dal primo istante in cui era riuscita a pronunciare una frase senza aver paura di essere bacchettata, fin da quando non aveva avuto paura di essere se stessa, Azrael aveva saputo che la sua vocazione fosse aiutare le altre persone.
Essere un medico era la sua essenza, non avrebbe saputo immaginare una vita senza indossare il camice, l’odore di disinfettante, senza avere in cura pazienti a cui pensare anche fuori dall’orario lavorativo, la sua vita era dedita a chi ne aveva bisogno, non si faceva scrupoli su chi aiutare, non si faceva domande su chi fosse colui o colei a cui stava dedicando anima e corpo, per lei ogni vita valeva, ogni vita meritava di essere salvata.
Non aveva mai avuto, quindi, un chissà quale distacco emotivo dai suoi pazienti, ma la situazione era decisamente cambiata quando era stata sua sorella ad essere la sua paziente.
non che prima di allora non le avesse curato alcuna ferita, Nefarious era fin troppo vivace e più e più volte si era ritrovata a tamponarle le ferite e a sentirla lamentarsi del bruciore che le provocava il disinfettante; ma quella volta, non era una ferita che poteva essere trattata con una soluzione antibatterica, o addirittura ricucita, no, sua sorella aveva una ferita all’animo che nessun medicinale avrebbe potuto curare, e questo la faceva star male, ogni volta che la guardava, che la vedeva struggersi, affrontare la vita senza quel brio negli occhi che prima tanto la caratterizzava, si diceva che niente di ciò che le era successo era giusto.
Era solo una ragazzina. come lo era stata lei in precedenza, come lo era stata anche May, che ora aveva perso tutto.
Sarebbe dovuto capitare a lei, lei che, in un modo o in un altro, si sarebbe rassegnata, avrebbe accolto il suo destino magari anche duramente, e invece era capitato a Neffi, colei che aveva sempre voluto proteggere dalla vita che a sua detta troppo pericolosa, e che alla fine non era riuscita nemmeno a mettere allerta.
Si strofinò gli occhi la dottoressa Lovell, pensando che quel senso di colpa non se ne sarebbe mai andato, che l’avrebbe accompagnata per tutta la sua, breve o centenaria che sarebbe stata, vita; afferrò il suo ennesimo caffè per quella giornata e si avviò nel posto in cui di solito pensava, il cortile dell’ospedale, dove si rifugiava su una panchina per nascondersi dai suoi colleghi, di solito nelle pause…
posto che a quanto pare era occupato, si era ritrovata Piz dinnanzi e non si era nemmeno accorta di essere arrivata, troppo soprappensiero «Mi dispiace, vado via subito» un sorriso di circostanza, imbarazzato per la brutta figura «di solito non c’è mai nessuno… ed ero pensierosa, non mi sono accorta ci fosse lei» provò a spiegarsi, mentre una risatina imbarazzata lasciava le sue labbra, e mentre faceva un passo indietro, pronta a tornare in reparto.sheet tunes aesthetic Azrael Lovell So casually cruel
in the name of being honest. -
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1994
Mediwizard
ravenclawWhat makes a grown man wanna cry? take me back 'cause I wanna stay
Save your tears for another
I realize that I'm much too late
And you deserve someone betterAzrael Lovell era una persona empatica.
Lo era stata fin da bambina, quando andando a lezione, sfogliando libri, immergendo il nasino aristocratico in tomi troppo pesanti per lei, aveva deciso di fare il medico.
Lo era ancora, quando guardava sua sorella sul divano di casa sua deprimersi e struggersi, quando faceva il giro tra i reparti e i ragazzini le si attaccavano alle gambe, e lei li abbracciava con un sorriso materno.
Lo era in quel momento, mentre osservava un suo vecchio compagno di scuola su una panchina con gli occhi lucidi, che le sorrideva senza farlo davvero, che provava ad essere galante senza metterci una vera intenzione.
Ma se era vero che l’empatia era uno dei suoi tratti dominanti, l’insistenza e l’impertinenza non erano parte di lei: era delicata, Azrael, mentre prendeva posto accanto all’uomo, mai invasiva, aveva vissuto una vita a desiderare un briciolo di delicatezza e di certo non l’avrebbe negata agli altri, accavallò le gambe e sciolse i capelli dall’ acconciatura professionale fatta con una penna in reparto «si può condividere anche un silenzio alla fine » un sorriso tiepido si affacciò sulle labbra del medimago, il sole che carezzava il viso ad entrambi quel giorno sembrava avere un’altro scopo, scaldare gli animi, cosa che di cui a quanto pareva avevano entrambi bisogno «Non deve chiedermi nulla, può stare qui quanto vuole, siamo nel cortile del san mungo dopotutto» questa volta sorrise di rimando, mentre cercava nelle tasche del camice, piene di giochi, caramelle da dare ai bambini, perché alla fine era il suo lavoro quello, donare un sorriso, tornare a vedere quella luce ce tanto le piaceva negli occhi di quei marmocchi, un qualcosa «cinque minuti mi sembrano un po’ pochi, che ne dice di dieci?» porse all’uomo un taccuino, uno di quelli che usava per annotarsi cosa sarebbe potuto servirle giorno per giorno «è usato e non è un granché ma… potrebbe scrivere ciò che le passa per la testa qui » si portò una ciocca di capelli dietro l’orecchio, mentre poggiava il quadernino nello spazio che aveva lasciato tra lei e l’uomo, una distanza di sicurezza, come se avesse potuto rompere la bolla di solitudine dell’altro, come se fosse stato troppo anche respirare la stessa aria «potrebbe dirmi di farmi i fatti miei, e avrebbe ragione, ma le sto parlando da persona, e non da medico» gomito sul ginocchio, mano sul mento «a volte serve a riordinare i pensieri, poi rileggerli una volta risolti li faranno sembrare bazzecole, o solo amari ricordi»sheet tunes aesthetic Azrael Lovell So casually cruel
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1993
coach
gryffwhere do we go from here? tell me,
do we get what we deserve?
you let your feet run wild,
time has come as we all, oh, go downPer essere uno che aveva passato tutta la vita sotto i riflettori, Piz aveva un rapporto strano con le proprie emozioni, e più nello specifico il modo in cui era solito trasmetterle: per lui, di base, era concepibile mostrare solo un lato di sé — quello del campione, dell’uomo forte e sicuro di sé, vincente, capace di avere successo in qualsiasi cosa. Non esisteva per nulla al mondo che i mass media o dei perfetti sconosciuti lo beccassero di cattivo umore, o triste. Non esisteva proprio. Quel genere di emozioni era fatto per essere (non) processato in privato, lontano dallo sguardo attento di chi era pronto a farlo a pezzi anche per la minima incertezza, coloro che non vedevano l’ora di insinuarsi in una minuscola crepa e allargare il danno fino a distruggere, per gelosia o per divertimento, un’immagine tirata su con fatica e con i successi raggiunti uno dopo l’altro.
Erano emozioni che si permetteva di provare solo con poche persone, così poche che poteva letteralmente contarle sulle dita di una sola mano: i suoi genitori, Idem, Penn.
Per tutti gli altri non esisteva un Morley Peetzah diverso da quello che aveva sempre fatto vedere, orgoglioso di sé e sicuro, padrone delle proprie emozioni e della propria vita.
Un Piz che sembrava lontano anni luce da quello seduto sulla panchina del San Mungo, nonostante si stesse impegnando molto per mostrare alla dottoressa quell’unica faccia della medaglia che, come fosse una luna messa sulla terra per conquistare medaglie e trofei uno dietro l’altro, mostrava al mondo.
Era una situazione troppo più grande di lui, quella lì, e non riusciva a distaccarsene completamente; non poteva togliersi dalla mente l’immagine di una Bells che, dopo tutti quegli anni e tutti quei sacrifici, tornava costretta in quei limiti che il corpo umano, troppo debole e fallato, spesso imponeva; non poteva non pensare a quanto sangue avesse bagnato il suolo di tutto il mondo, nei due mesi precedenti; non poteva non immedesimarsi in quei genitori che avevano perso un figlio, o in quei figli che avevano perso i genitori. Non poteva pensare a cosa avrebbe fatto se, per un malaugurato allineamento dei pianeti, quel conflitto gli avesse strappato via Joni.
Era tutto semplicemente troppo.
«si può condividere anche un silenzio alla fine»
Non era mai stato bravo a condividere i silenzi, lui. Sempre troppo rumoroso, troppo gonfio, troppo certo; stare in silenzio era qualcosa di sconosciuto per Morley, eppure ora era l’unica cosa che desiderasse davvero. Silenzio, per rimuginare su quanto avvenuto.
E forse era esattamente quello di cui non aveva bisogno.
Non avrebbe risolto nulla piangendosi addosso, e non era affatto il tipo da ricorrere a quel genere di finte soluzioni, Piz; in qualche modo, pure se sembrava impossibile, doveva esserci un modo per affrontare di petto tutta la situazione.
Doveva.
Sospirò, e non si mosse dalla panchina.
Se c’era, quel modo, non aveva il giusto spirito per cercarlo in quel momento.
Ricambiò il sorriso, poco convinto; già, il cortile del San Mungo. Dove centinaia di persone passavano ogni giorno, chi piangendo perché aveva perso ogni cosa, chi invece perché grato di avere ancora qualcosa per cui svegliarsi la mattina. Lui, a conti fatti, non aveva perso nulla: aveva ancora una casa, un figlio, una famiglia.
(Non aveva più Penn — ma lei l’aveva già persa da tempo.)
Perché, dunque, se ne stava lì tutto moggio a piangersi addosso?
Doveva decisamente riprendersi e darsi una smossa: i frignoni non piacevano a nessuno, lo sapeva benissimo.
«cinque minuti mi sembrano un po’ pochi, che ne dice di dieci?»
Solo a quel punto, dopo essersi ripetuto più e più volte nella mente che quell'atteggiamento non era affatto quello del campione, prese un bel respiro e infuse più colore in quel sorriso tirato. «temo che finirebbero per diventare venti, o molti di più.» shcerzò, senza scherzare. Prima si fosse alzato da quella panchina, prima avrebbe potuto dare un senso a tutte le cose lasciate in sospeso quella mattina.
Solo che lo sguardo gli cadde, confuso, sul taccuino poggiato tra loro dalla strega, alla quale rivolse la stessa espressione incerta. «è usato e non è un granché ma… potrebbe scrivere ciò che le passa per la testa qui» oh… oh. Mh. Idem, una volta o due, aveva provato a suggerire una “terapia” simile, ma non era mai servita.
«come… una specie di diario segreto?» il commento gli uscì più sarcastico del dovuto, se ne rese conto troppo tardi: non c’era effettivamente nulla di male a proporlo come modo per esorcizzare un po’ i brutti pensieri, peccato che lui non fosse il tipo per quel genere di cose.
«potrebbe dirmi di farmi i fatti miei, e avrebbe ragione, ma le sto parlando da persona, e non da medico» Non glielo avrebbe detto, non era un cafone, ma annuì comunque, valutando quanto detto, e quanto proposto. «a volte serve a riordinare i pensieri, poi rileggerli una volta risolti li faranno sembrare bazzecole, o solo amari ricordi» «ma dubito aiuteranno con i problemi reali…» alzò lo sguardo terso verso il cielo, tirando le labbra in una linea sottile: c’erano cose che non si risolvevano semplicemente scrivendole su un libro.
Quando tornò a guardare verso la donna, l’espressione era più morbida.
«mi dispiace, non volevo essere insensibile. è che sono abituato ad approcci più diretti, di solito. “un problema che non può essere preso a pugni, non è un problema che mi riguarda…”» recitò quell’ultima frase quasi in maniera atona, parole che aveva ripetuto a se stesso per tutta la vita e che, di punto in bianco, non si applicavano più alla sua quotidianità. «piacere, comunque,» disse infine, allungando la mano in direzione della dottoressa, «morley peetzah.» quel “immagino mi conosca” che di solito accompagnava le sue presentazioni, rimasto taciuto per qualche strano motivo. «grazie per avermi concesso di rimanere sulla sua panchina, dottoressa.»everything has changed morley peetzah So casually cruel
in the name of being honest.