damn your eyes.

@ casa tydam | ft. adam & daisy

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    Alzò gli occhi dal quotidiano, lentamente e trattenendo un sospiro tra le labbra serrate, occhi scuri a vagare senza meta verso il muro, oltre la parete, perso in pensieri contradditori e che si accavallavano uno sull'altro. Era la sua voce, quella che riconosceva nell'articolo appena letto; e allo stesso tempo, era la voce di una censura che stringeva una morsa troppo stretta attorno all'informazione pubblica.
    La metà dei dati che aveva raccolto, e delle notizie che aveva ricevuto, Tyler non aveva neppure potuto utilizzarli; e di quelli che era riuscito a infilare nell'articolo, solo una parte di essi era rimasta intatta e libera dalle manipolazioni dei censori.
    Portò le dita a pizzicare il ponte nasale, occhiali già sfilati e dimenticati sul quotidiano aperto di fronte a sé. Con un sospiro pesante, Tyler si alzò dalla poltrona e raggiunse la cucina, nel silenzio tombale di una casa troppo grande. Aveva lasciato Adam e Minerva a dormire, e lui era sceso al piano di sotto all'alba per combattere contro i fantasmi di un'insonnia che era tornata prepotente con l'arrivo del conflitto mondiale. Si era chiuso nel suo studio, desiderando non per la prima volta di non aver fatto sparire tutte le bottiglie di whiskey da casa; la tentazione di affogare nel liquido ambrato ogni problema era sempre tanta, e contrariamente a quanto gli avevano ripetuto tutti, non accennava a diminuire con il tempo che passava.
    Lo sguardo, poi gli era caduto sul giornale vecchio di qualche giorno che Ty aveva impilato insieme a tutti gli altri sul tavolino basso ai piedi del divano, e si era soffermato a leggere le sue stesse parole, ritrovandoci dentro una persona diversa.
    Certo, lo aveva messo in conto, non era uno sprovveduto; scegliendo quella carriera aveva accettato anche i limiti imposti dalla redazione prima, e dal governo poi, ma gli procurava un fastidio tremendo sapere che qualcuno mettesse bocca sui suoi articoli; che li rivisitasse, e applicasse ben più di una semplice correzione.
    Era suo il nome che firmava quegli articoli, ma non era completamente suo il punto di vista che li narrava; e, più di tutto, lo infastidiva il fatto che qualcun mettesse mano su dei lavori già perfetti come i suoi.
    Ma poteva accettarlo, perché non era sempre così, e non tutte le volte che la sua piuma abbozzava un articolo grandioso, qualcuno lo stravolgeva; era un sacrificio che era disposto a fare in luce di un progetto più grande, il successo. La carriera era l'unica cosa che importasse davvero, in fin dei conti, e non aveva bisogno di arrivarci moralmente integro. Era qualcosa su cui era disposto a cedere.
    E sì, si rendeva conto ci fossero cose ben peggiori in quell'articolo del non riconoscere la propria voce, come ad esempio il preoccupante numero di vittime (destinato poi ad aumentare con il passare dei giorni, e delle pubblicazioni) e il fatto che raccontasse gli avvenimenti di una guerra — ma Tyler Wood era molto bravo a preoccuparsi solo di ciò che lo toccava molto da vicino, e fintanto che Adam fosse rimasto a casa, vicino abbastanza affinché il giornalista potesse controllarlo e non temere che facesse una delle sue cazzate, andava tutto bene. Anche se non andava bene nulla.
    Mise il bollitore dell'acqua sul fuoco, ed nell'attesa preparò una tazza e qualche foglia di tè in un infusore, un rituale giornaliero che ripeteva ogni mattina, e ogni sera; lo teneva con la mente impegnata e gli faceva desiderare un po' meno di attaccarsi al collo di una bottiglia e trangugiare il contenuto fino a dimenticare il proprio nome. Specialmente in quell'ultimo periodo, era sempre più forte il bisogno di perdersi in un vizio troppo più grande di lui, con le conseguenze di una guerra a pesare sulle teste di tutti loro, e con la concreta possibilità che quello scontro si rivelasse ben lontano da essere concluso.
    Tyler temeva fosse l'inizio della fine, e che le cose fossero destinate ad evolversi in maniera sempre peggiore; immaginava che solo il tempo lo avrebbe detto, e lui era già pronto con piuma e taccuino per raccontare la storia. O una parte di essa, comunque; qualsiasi cosa la censura li avrebbe lasciati pubblicare.
    Quindi sì, il tè era una necessità e un vizio, pallida imitazione di ciò che avrebbe desiderato davvero, ma se lo faceva bastare perché aveva fatto una promessa, e aveva preso un impegno insieme ad Adam; certe volte sembrava che fosse l'unico dei due a ricordarselo. Aveva visto il Cox fremere, vibrare quasi, con il bisogno di partecipare a quel conflitto e fare qualcosa di utile, perché la sua famiglia era tutta lì e lui non poteva essere da meno; e Tyler gli aveva dunque ricordato, giorno dopo giorno per un mese e mezzo, che la sua famiglia fossero loro. Tyler, Minerva, Rita e Albie. Che Adam avesse fatto una scelta, avesse preso delle responsabilità, e Tyler l'avrebbe ucciso con le proprie mani prima di vederlo partire per andare a morire in un conflitto truccato col finale già scritto. Inutile dire che era stato motivo di litigate, sai che novità!, e che l'aria che si respirava in casa Tydam era pesante e tesa; ma alla fine, Tyler aveva avuto ragione, e “i contro” avevano davvero perso ogni cosa, dopotutto aveva fatto un favore all'ex tassorosso, impedendogli di partecipare, che l'altro la vedesse in quel modo o meno.
    Era salvo, era vivo.
    (Era ancora un mago.)
    Ed era lì, al piano di sopra, che russava stringendo tra le braccia la loro bambina. Alzò gli occhi verso il soffitto, come se volesse cercare attraverso il muro le sagome dei due, e sospirò. Erano passati due anni da quando avevano firmato le carte per l'adozione, ma ogni tanto Tyler ancora faticava a credere che fosse davvero così, che fossero genitori, che dopo tutto quello che avevano passato, i litigi e i tira e molla, i segreti e le scuse, le ferite inferte l'un l'altro solo per ripicca — dopo tutti quegli anni, fossero davvero diventati una famiglia.
    Il fischio del bollitore lo richiamò all'attenzione, e Tyler si mosse subito con gesti ripetuti così tanto spesso da risultare quasi automatici, da fare inserendo l'autopilota — ma avrebbe mancato lo scopo principale per cui lo faceva, in quel modo, perciò si costrinse a seguire anche con la mente, e non solo con gli occhi, ogni minimo passaggio, dall'infusione delle foglie nell'acqua bollente al latte versato in un piccolo bricco per poi aggiungerlo al tè stesso; contò i minuti, imponendosi di smetterla di pensare a tutto quello che non poteva (e non voleva) cambiare nel mondo, e pensare invece a ciò che avrebbe dovuto fare quel giorno, come cittadino, come giornalista e come padre e compagno.
    Innanzitutto, sopravvivere alla mattinata: che sembrava già estremo così, senza dover aggiungere altro.
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    Edited by leeren - 13/6/2023, 11:01
     
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    Verremo ancora alle vostre porte
    e grideremo ancora più forte.
    Per quanto voi vi crediate assolti,
    siete per sempre coinvolti.
    La costipazione emozionale di cui soffriva Tyler Wood era sempre stata un problema per Adam Cox. Per anni, decenni, anzi, aveva cercato un modo per aggirarla, anzi, per ammorbidirla, per fare in modo che l’ex serpeverde vivesse la sua interiorità non tanto da persona normale (perché non era un tipo ambizioso, il biondo, a differenza dell’altro), ma se non altro in modo un po’ meno doloroso. E c’era riuscito, c’era riuscito davvero: era lì, davanti ai suoi occhi, ogni volta che Tyler tentava di convincere Minerva a mangiare l’intruglio verde che le aveva messo davanti o quando si accertava che il latte scaldato per Albert fosse dell’esatta temperatura (36,6° C, non di più, non di meno). Eppure, come ogni singola cosa nella loro storia, nella loro vita, un passo avanti equivaleva a cinque indietro.
    Tyler sarebbe rimasto sempre, e per sempre, costipato dal punto di vista emotivo (e sentimentale, ma questa era un’altra storia). Gli andava bene e lo accettava, ma questo non significava che avrebbe mai smesso di provare a portarlo dall’altra parte. Così come avrebbe continuato a cercare di convincerlo che quel termine fosse dannatamente perfetto per descrivere la sua situazione: e dire che Ty, con le parole, avrebbe dovuto saperci fare! Dal canto suo, Adam aveva il problema diametralmente opposto: ad affliggerlo era una vera e propria diarrea emotiva. Un’altra espressione capace di tirare fuori una delle infinite facce schifate del Wood, ma che, proprio per questo, l’ex tassorosso sapeva essere del tutto efficace. Adam non solo sentiva tutto, sempre, ma non aveva minimamente paura di ammetterlo e riconoscerlo. Certo, questo gli aveva causato (e gli causava) non pochi problemi, tanto con Tyler quanto con il resto del mondo, però sapeva che non c’era niente di male: non è forse il provare qualcosa, qualsiasi cosa, a rendere viventi tutti gli esseri?
    E allora perché, adesso, sentiva qualcosa di sconosciuto? Lui era quello che riconosceva a pelle ogni emozione, che, persino, spiegava agli altri (alias Tyler, ma anche il dito numero due della sua vita, Hugo) di cosa si trattava. Com’era quindi possibile che ora provasse qualcosa a cui non riusciva a dare un nome? Se ne stava lì, sul suo petto, un peso che lasciava sì passare l’aria, ma solo a poco a poco, costringendolo a tentare (invano) di respirare più a fondo. E quella poca aria racimolata, invece di scivolare nei polmoni, finiva giù, sempre più giù, fino a fargli attorcigliare lo stomaco, bruciando con l’alcol che, da qualche tempo a quella parte, era bandito in casa Tydamdee.
    Adam si sentiva in colpa.
    Per la prima volta in vita sua?
    Continuava a rispondersi di sì, ma sapeva che non era così. Già in un’altra occasione, ormai parecchi anni prima, aveva provato quella stessa, orribile sensazione. Allora sì che era stata davvero la prima volta e, in quanto tale, si era a lungo mescolata con il panico, altra emozione alla quale non era particolarmente avvezzo. Eppure era stato proprio il senso di colpa a scatenare, dentro di lui, qualcosa, qualcosa che era cresciuto e si era trasformato, qualcosa che aveva fatto crescere e trasformare anche lui. Non era stato il senso di colpa a renderlo un ribelle, ma aveva contribuito.
    E adesso era rimasto lì, con le mani in mano.
    Mentre la causa nella quale credeva moriva.
    Mentre le persone morivano.
    Mentre il mondo, tutto, moriva.
    Ancora con gli occhi chiusi, ascoltò il respiro leggero e tranquillo di Minnie, percependo il calore del suo piccolo corpo, il suo profumo di buono, di casa. Si sentiva in colpa perché avrebbe dovuto scendere in battaglia anche per lei. Soprattutto per lei. E invece, proprio per questo, non l’aveva fatto. Non era andato in guerra perché la sua casa, le sue persone, erano lì, sotto quel tetto. Uscire da quella porta avrebbe significato, con tutta probabilità, non rivederle mai più.
    Ma rimanendo lì, fingendo che andasse tutto bene, non li aveva forse condannato? Non aveva condannato i suoi figli a vivere in un mondo senza speranza, senza libertà? Non aveva costretto Tyler e Daisy a rendere permanente quella facciata che, ogni giorno, indossavano prima di uscire di casa, quella che andava bene per tutti gli altri, ma non per lui, non per loro?
    Aprì gli occhi, subito ferito dalla luce che filtrava attraverso le tende. Nonostante tutto non riuscì a non sorridere: Tyler odiava dormire con la luce, eppure, ormai, non ci provava neanche più a chiudere tutto, sapendo quanto a lui, al contrario, piacesse. Sapendo quanto aiutasse Minnie ad addormentarsi, vista la sua paura del buio. Mise a fuoco la bambina e le sfiorò i capelli con una carezza, per poi stringerla istintivamente a sé, con delicatezza, attento a non svegliarla.
    Si sentiva in colpa perché sapeva che avrebbe rifatto quella scelta altre mille volte.
    Fissò il cuscino vuoto di Tyler, perfettamente in ordine sebbene il resto del letto fosse un disastro, e sospirò. Era già uscito? E Daisy? Aveva portato Bertie con sé sul set, o ancora riposavano nella stanza accanto? Avrebbe potuto tornare a chiudere gli occhi e ricadere nell’oblio finché Minerva non avesse reclamato la colazione, come aveva fatto (e avrebbe continuato a fare) in altre infinite occasioni. Tuttavia, quella mattina, il peso sul petto si stava facendo sentire di più.
    Non era abituato ad avere la mente tanto piena. Sollevandosi dal letto, la testa stessa gli sembrò troppo pesante, e non per colpa del cespuglio biondo che c’era sopra. Doveva solo trovare un modo per tenersi impegnato, almeno finché la bambina non si sarebbe svegliata. Quand’era con Minnie e Albie tutto il resto passava in secondo piano, oscurato dalla gioia e dall’orgoglio. Le sistemò meglio le coperte e, dopo averle lasciato un bacio tra i capelli, uscì dalla stanza, voltandosi all’ultimo per guardarla ancora.
    Si sentiva in colpa perché non aveva tentato di costruire un mondo migliore per loro.
    Quando alla fine scese al piano di sotto puntò dritto verso il frigorifero: forse, bilanciando la pienezza della testa con quella della pancia, si sarebbe sentito un po’ meglio. Convinto di essere solo, non si preoccupò nemmeno di appoggiare le cose sul tavolo, o almeno sul bancone, cominciando invece ad azzannare uno dei pancake rimasto dalla mattina precedente. Mmh, era decisamente troppo freddo, però. Con un colpo di bacino fece per chiudere lo sportello del frigorifero, il contenitore dei pancake in una mano e la bottiglia del latte nell’altra.
    Sobbalzò.
    «Appft! Fei qui!», biascicò con la bocca piena, fissando Tyler. E il resto del pancake cadde per terra, la mezzaluna del suo morso in bella vista. Deglutì senza masticare e si inumidì le labbra, mettendo meglio a fuoco il compagno. «Allora? Il tuo articolo? È uscito?»
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    Infagottata nella sua felpa, una figura si muoveva per le strade di Londra. A occhio esterno, non si saprebbe saputo dire se si trattasse di un uomo o di una donna, con l’altezza con cui si ergeva e per il vestiario che portava; anonimo, largo, e gender neutral, Margarita si nascondeva da occhi curiosi, sospetti. Uscendo, non aveva voluto attirare l’attenzione di nessuno, né del partito né di chi potesse appoggiare l’emergente forza in contrapposizione. Non solo per sé ma, sopra ogni cosa, per la piccola creatura celata al suo petto: Albert, suo figlio.
    Daisy lo osservò per un momento, ancora le pareva impossibile che fossero trascorsi già più di cinque mesi dalla sua nascita. Tutto era stato così veloce ed emozionante come una montagna russa e mai su nessun set aveva provato un’emozione simile, neppure a una delle tante feste a cui aveva partecipato in passato, a Hogwarts, o da grande all’interno dell’ambiente artistico o di Partito. Ormai era così abituata a sopprimere le proprie emozioni e ad emulare quelle altrui, che a stento faceva fatica a riconoscere le proprie. Si morse il labbro, nervosamente, nascondendo meglio il figlio da occhi indiscreti.
    I suoi capelli, una volta lunghi, erano ora più corti e nascosti sotto un cappellino nero, con visiera abbassata. Lo sguardo, guardingo e circospetto, coperto dagli occhiali da sole più maschili che avesse trovato fra gli averi di Tyler.
    Quella mattina era uscita solo perché così le era stato richiesto, per una prova costume di un nuovo progetto e per non disturbare Tyler, che sapeva essere un giorno importante per lui, e per non svegliare Adam o Minnie, come spesso faceva, aveva deciso di portare con sé il piccolo Albert. Era difficile per lei lasciarlo a qualcuno, non perché non si fidasse delle sue dolci metà – be’, Ty non era super affidabile in cucina e Adam combinava pastrocchi ogni due per tre, ma dopotutto sapeva essere un ottimo casalingo… È che, semplicemente, amava godersi i suoi piccoli momenti di crescita. Albie era, in ogni caso, ancora un lattante, e Rita – che la maternità l’aveva sempre desiderata fortemente – sapeva quanto fosse fondamentale la figura materna nei primi cruciali anni di vita. Al lavoro, però, non aveva e non avrebbe mai rinunciato. In fin dei conti, era lei che portava “i pantaloni in casa” – era così che aveva sentito dire nel mondo babbano?, senza di lei il loro stile di vita sarebbe stato molto diverso. Già, pensò Senza di me e i Bulgakov forse tutti questi problemi per la mia famiglia non ci sarebbero… riconobbe, amaramente.
    A passo svelto Daisy si diresse verso il quartiere magico, a casa. Lì la aspettava la sua vera famiglia, quella che si era scelta e che l’aveva scelta. “Famiglia”. Dirlo, anche solo pensarlo, di questi tempi, le faceva venire una stretta al cuore. Aveva già perso tanto, perché doveva rischiare di perdere di nuovo qualcuno?
    Dalla manica della felpa, tirò fuori la sua bacchetta di nocciolo e formulò a sottovoce le parole magiche per accedere all’interno del quartiere. Il cuore le batteva forte, non le piaceva questa sensazione così familiare. Strinse i pugni, fino a sentire le unghie contro i palmi delle mani e rilasciò la presa dopo quello che le parve essere un minuto. Fece un respiro profondo, diaframmatico, come le aveva insegnato la sua coach e poi riprese a camminare, dirigendosi verso casa Bulgakov-Cox-Wood.

    « Sto forse interrompendo qualcosa? » la sua voce, chiara e squillante, si fece sentire dalla porta.
    Rita aveva osservato da distante la scena, incuriosita, ma allo stesso tempo impaurita. Era un momento complesso per lei e la sua famiglia. Lei stessa, che spesso fingeva di essere matura, faceva ora molta fatica a tenere uniti tutti e tre. Si sentiva in mezzo a due fuochi.
    Sbuffò, mentre sfilava il cappello e gli occhiali, rivelando il suo caschetto ondulato e i suoi tristi occhi ambrati, ancora gonfi dal pianto della scorsa notte. Scalciò le scarpe da ginnastica che aveva ai piedi, mentre Albert russava ancora al suo petto – per sua malaugurata sorte ben poco prorompente. Una delle cose che, difatti, sin da subito aveva fatto sentire in colpa Daisy era proprio la sua mancanza di latte. Si ricordava ancora le prime notti insonni con Adam, in piena crisi, in cui lui cercava di confortarla e le ripeteva che questo non la pregiudicava dall’essere una buona madre, che sicuramente, nessuno dei due, né Adam né Ty, la giudicavano per questo. Questo, nella sua mente, era un ricordo che quotidianamente cercava di soffocare.
    Daisy andò leggiadra verso Adam, sfilandosi delicatamente la sua felpa grigia e larga – probabilmente di due taglie più grosse a causa di qualche spiacevole inconveniente, con la lavatrice babbana in disuso nel loro bagno o con qualche bestia stramba di cui conosceva solo lui la provenienza, rivelando di indossare una semplice maglietta bianca, a cui allacciato vi era il marsupio dove Albie ancora dormiva beatamente. Accennò un sorriso al biondo, mostrandogli la schiena, in richiesta d’aiuto. Chiamò nel frattempo la culla a sé e poi, con attenzione, vi appoggiò all’interno il figlio. Tornò in salotto, cullandolo e facendogli una carezza mentre lui faceva le bolle dal naso. Ridacchiò a quella buffa visione. Decise infine di dirigersi in cucina, verso i due mariti e compagni di vita.
    «Wow, tè! » esclamò Daisy, guardando da dietro le spalle di Adam la tazza che Tyler sorreggeva. Le cadde l’occhio anche sul contenitore del latte, oltre che sul bollitore ancora caldo sul fuoco, « Molto british da parte tua », lo prese in giro Daisy lanciando un’occhiata d’intesa ad Adam, non prima di avergli schioccato un bacio sulle labbra. Andò a salutare anche Tyler, baciandolo all’angolo della bocca, come era solita fare con lui. Appoggiò le proprie mani sulle sue spalle, forti, che tanto spesso le avevano dato stabilità e lo strinse. In quel periodo, nonostante Daisy sentisse un tumulto dentro e fuori di sé, sapeva di trovare un alleato in Ty, suo cugino. Sapeva che qualcosa non andasse, che le tenessero nascosto qualcosa. Daisy però era determinata a scoprire cosa, perché vedeva le crepe nella sua casa. Era stufa di sentirsi tremare la terra sotto i piedi, adesso non aveva più solo i Bulgakov e i Mulciber da proteggere, bensì due minori che non avevano scelto tutto questo.
    « Tutto okay? » bisbigliò al suo orecchio, simulando un abbraccio e un bacio sul collo. Si allontanò, sorridendo, e andandosi a sedere su uno dei banconi vuoti; afferrò il piatto che Adam sorreggeva in mano, sfilò la bacchetta e i pancake del giorno prima cominciarono a volteggiare per un attimo sopra la sua testa, per poi ricadere ora caldi e soffici sul vassoio, guarniti di frutti di bosco, zucchero a velo e cannella.
    « Ecco qua, ora manca solo un buon caffè bulgaro! » esclamò, tutta soddisfatta, appoggiando i dolci sulla tavola con un tocco di bacchetta. « Minnie sta ancora dormendo? », chiese ai due, comodamente seduta come una bimba, mentre Adam e Tyler la osservavano dal basso.

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    SURPRISEEEEEE!

    :morgan: :che succede:

    Scusatemi, sono molto arrugginita, cotta, dolente fisicamente (cervicale e schiena non aiutano) e sono andata totalmente a braccio, con le info che ricordavo AHAHAHAHA. Quindi vabbè, abbiate pietà di me. Recupererò pian piano tutto. Forse ad ottobre tornerò a vivere.

    P.S. Ho deciso che Daisy non sa nulla dei problemi di alcolismo di Ty, segreto della Tydam.


    Edited by daisy. - 3/4/2024, 21:23
     
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    Perso nei suoi pensieri sempre più fitti e ingarbugliati, Tyler non aveva sentito quello che, in altri momenti, avrebbe colto senza problemi: il rumore di passi, reso ovattato dai tappeti che aveva costretto Adam e Daisy a comprare per decorare la casa; la porta che si chiudeva in maniera non così silenziosa come il tassorosso credeva; il cigolio del penultimo gradino della scala, che tutti sapevano facesse rumore ma nessuno alzava la bacchetta per sistemare. Ancora di più, non gli sarebbe di certo sfuggito l’ingresso del compagno in cucina, che invece Tyler notò con un pizzico di ritardo, il cucchiaino con cui aveva girato il té per i precedenti svariati minuti stretto tra indice e pollice.
    Il singolo sopracciglio a svettare verso la fronte, l’espressione più impassibile di cui fosse dotato e lo sguardo scuro a specchiarsi in quello ancora assonnato di Adam.
    «Appft! Fei qui!»
    Dove altro avrebbe dovuto essere?
    Non lo chiese, abbassando con deliberata lentezza gli occhi sul pancake stretto tra le labbra dell’altro, e che ora cadeva in terra, tazzina ancora a mezz’aria e linguaggio del corpo che parlava senza che Tyler avesse bisogno di dire alcunché.
    «Allora? Il tuo articolo? È uscito?»
    «Adam, puoi, per cortesia, far finta di non essere stato cresciuto dai lupi nel cuore della foresta? Almeno in casa?» Ma anche fuori, in realtà: portarsi dietro il Cox, molto spesso, era imbarazzante. «Stiamo crescendo una figlia, non delle bestie. Il minimo che tu possa fare è dare il buon esempio.» Nessun buongiorno, per lui, per loro; erano un po’ di mattine che, loro malgrado, si svegliavano sempre più lontani e i piacevoli risvegli pigri e pieni di passione erano solo uno sbiadito ricordo; la scusa ufficiale era che Minnie, sempre più spesso, lasciasse il suo letto per intrufolarsi nel loro nel cuore della notte, e rimaneva con loro fino all’indomani, ma sapevano entrambi che il problema di quella distanza aveva radici ben più profonde.
    Non era mai stato uno devoto all’ozio o alla poltronaggine, il Wood, ma aveva sempre trovato tempo per il compagno, mai a discapito del suo lavoro, certo, ma pur sempre impegnandosi per dedicare quante più attenzioni possibili all’altro e cedere a quelle che Adam stesso era solito riservargli; ma da un po’, fingere che non ci fosse una crepa nella loro casa, sempre più profonda, era diventato impossibile e si ripercuoteva non solo nella sfera emotiva, ma anche in quella sessuale, sì. Soprattutto lì. E Tyler, che non era mai stato bravo a indossare i propri sentimenti in maniera trasparente, affinché tutti potessero leggerli, aveva (non così) involontariamente richiuso quello spiraglio di onestà che l’aveva avvicinato, negli anni, al Cox. Suo malgrado lo amava – e sempre lo avrebbe amato – ma ignorare che ci fossero problemi seri a gravare sul loro rapporto non stava giovando alla cosa.
    Con una manciata di minuti di ritardo, ancora in piedi con la tazza di té fumante stretta fra le mani, si prese la briga di rispondere ad Adam. «Sì, è uscito.» Una risposta arida, il cui tono, sperava, avrebbe precluso altre domande: non ne voleva parlare, non quando non si reputava fiero del suo lavoro. Quello che avevano stampato, infondo, non era il suo operato.
    Sfidò comunque il Cox a chiedere altro, il mento appena alzato e le labbra tirate in una linea serratissma, conscio che dandogli troppe libertà avrebbe finito per ottenere esattamente il risultato opporto; ma non ci fu tempo per scoprire se avesse ragione o meno, perché proprio in quel momento sentirono la porta di casa aprirsi e una voce familiare annunciare il suo arrivo.
    «Sto forse interrompendo qualcosa?»
    Tyler ci mise qualche secondo di intensissimo silenzio prima di distogliere lo sguardo dal compagno e portarlo sulla figura appena giunta di sua cugina, parlando a bassa voce. «Non sarebbe una novità», commentò, al posto di un buongiorno. Non lo era. Lo era di rado, per lui.
    Osservò Daisy spogliarsi del suo camuffamento, impassibile ad una scena vista e rivista fin troppe volte; il modo in cui sua cugina sfuggiva alla stampa nel quotidiano era direttamente proporzionale al modo in cui la cercava negli eventi sociali. Indicò gli occhiali da sole, facendo schioccare la lingua contro il palato. «Quelli sono miei.» E, doveva ormai saperlo, un po’ di tutti: era così che gli avevano detto i due, no? Che in quell’unione condividevano tutto; Tyler aveva risposto di non aver firmato alcun pre-nup e, pertanto, di non essere d’accordo con tale affermazione. Le sue proteste erano state cordialmente declinate e ignorate.
    Non commentò, invece, lo sguardo gonfio di Daisy o l’aria triste; aveva imparato sulla sua pelle che il posto di cugino preferito avrebbe dovuto condividerlo per sempre con il fantasma di uno strappato alla Bulgakov prematuramente, e la cosa non lo preoccupava. La competizione, in generale, non lo preoccupava; menchemeno quella con i morti. Per tutte le altre cose che rendevano Daisy Bulgakov un po’ meno brillante, giorno dopo giorno, Tyler si impegnava a fare quel che poteva laddove poteva; c’erano molte cose che andavano ben oltre il suo potere. E l’empatia era sempre mancata, all’ex serpeverde.
    «Rita.» L’ammonì con il tono secco di chi era stanco, nel vederla scalciare via le scarpe da ginnastica: possibile che in quella casa fosse l’unico con un minimo di decenza e voglia di tenere le cose in ordine?
    (Forse anche troppo; la morsa di rigore che Tyler stringeva intorno alla sua famiglia era a tratti soffocante.)
    Lei, molto prevedibilmente, lo ignorò. «Molto british da parte tua»
    Lui non fece lo stesso, abboccando alla sua provocazione. «Io sono british.» Dalla punta dei piedi a quella dei capelli, e lo sapevano bene entrambi i maghi che gli stavano di fronte. Maghi che, chiaramente, erano in combutta contro di lui a giudicare dall’occhiata complice che si erano appena scambiati. Cercò di pensare a quella, Tyler, quando riabbassò lo sguardo cupo sul liquido ambrato, ignorando il bacio che i due si erano scambiati; non era geloso, un tempo forse lo era stato – se dell’uno o dell’altra era poco chiaro – ma non più, però certi atteggiamenti lo lasciavano ancora un po’ turbato pur sapendo che non avrebbero dovuto, avevano un figlio insieme quei due, per Morgana. E sapeva che Adam amasse entrambi, in egual misura; e che Rita amasse entrambi, in eguale misura; e che lui amasse entrambi, in egual misura — ma con bisogni ben diversi.
    Accettò comunque l’abbraccio di Rita, e quel bacio sapientemente calibrato e lasciato all’angolo delle labbra, riuscendo persino a non irrigidirsi a quel «Tutto okay?» bisbigliato nel suo orecchio.
    No, pensò, non è tutto okay.
    Ma a lei, quando la staccò con delicatezza da se stesso, rispose con il solito sguardo scuro e una scrollata di spalle. Non avrebbero intavolato quella conversazione di fronte ad Adam; così come Adam e Tyler non intavolavano certe conversazioni di fronte a Daisy e come, era certo, Daisy e Adam non intavolassero altre conversazioni di fronte a lui. Funzionavano così, loro tre.
    «Ecco qua, ora manca solo un buon caffè bulgaro!» Tyler riservò ai pancakes un’occhiata poco convinta, da sempre non un grande estimatore dei cibi troppo dolci, e lasciò che i due maghi si affogassero nello sciroppo mentre lui sorseggiava il suo té. «Minnie sta ancora dormendo?»
    Annuì, non riuscendo a trattenersi dall’aggiungere un caustico «è ancora presto» e se la svegliate vi affatturo lasciato non detto, ma chiaramente leggibile nella posa tirata delle labbra. «Dove sei andata?» C’era stato un periodo non particolarmente brillante della sua vita in cui Tyler aveva perso momenti, e spesso interi giorni, confuso e spaesato, sempre più distante e scollegato da se stesso, in cui dimenticava appuntamenti, cose già dette o sentite, persona e parole; erano stati giorni (settimane, mesi) terribili, per i quali aveva incolpato – almeno davanti a Rita – lo stress a cui era sottoposto a lavoro; sapevano tutti e tre che fosse una balla. Ma da quel momento in poi, comunque, – e soprattutto dopo, con l’arrivo di Minnie e Albie, e i loro doveri quotidiani triplicati – avevano deciso di tenere una lavagna dove segnare le cose più importanti di cui tutti dovevano essere informati, come uscite, appuntamenti, cene e la lista della spesa. Indicò la lavagna appesa al muro con un cenno della testa. «Non c’è scritto nulla, lì sopra.»
    Controllare dove andassero, quando e con chi, era l’unico modo che Tyler aveva per accertarsi che i suoi cari stessero bene; il minimo che potessero fare era rispettare quell’accordo e non dargli ulteriori preoccupazioni. Era troppo giovane per ammalarsi di ulcera al fegato.
    sooner or later you're gonna tell me a happy story. i just know you are.


    devo uscire con barrie, giuro che poi (forse.) rileggo. io e tyler vi sbaciamo in tutta la nostra diticità :v:
     
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    Verremo ancora alle vostre porte
    e grideremo ancora più forte.
    Per quanto voi vi crediate assolti,
    siete per sempre coinvolti.
    Per essere uno che viveva solo nel presente, Adam aveva sempre avuto la tendenza a occuparsi un po’ troppo del futuro. Non che ci pensasse, naturalmente; pensare, come amava fargli notare Tyler, non era una delle sue (poche, un’altra massima del Wood) qualità. E, in fondo, non era l’unico a sostenerlo, ma semplicemente uno dei pochi ad avere il coraggio di dirlo chiaro e tondo, e ad alta voce. Non era mai stato un caso di è intelligente ma non si applica, il Cox di mezzo. Forse anche per questo, o proprio per questo, non ne aveva mai sofferto particolarmente. Anche perché, andare in paranoia per ogni singola cosa come faceva suo fratello? Nascondersi da sé stesso al pari di Ty? Sforzarsi sempre e comunque di fare buon viso a cattivo gioco sulla scia di Daisy?
    No grazie.
    Eppure, guardando un po’ più attentamente, nel carpe diem di Adam Cox si nascondevano delle crepe. I suoi ideali. Da una parte la convinzione che, un giorno o l’altro, Tyler avrebbe smesso di avere paura di amare e di essere amato e si sarebbe rassegnato all’intrecciarsi, comunque inevitabile, delle loro vite. E quella che Daisy accettasse, una volta per tutte, che non sarebbe stata meno forte, agli occhi del mondo, se avesse permesso a qualcuno, se avesse permesso a lui, a loro, di starle accanto, di sorreggerla, e sorreggersi, da lì in avanti, nel percorso dell’esistenza. Dall’altra la profonda convinzione che il mondo era sì bellissimo, ma che poteva diventarlo ancora di più. Tutti, nel proprio piccolo, potevano fare qualcosa per migliorarlo, che fosse sorridere a un estraneo per strada o scendere in guerra per la libertà e l’uguaglianza.
    Adam, che viveva nel presente, si era però sempre speso perché queste idee prendessero forma, trasformandosi giorno dopo giorno in realtà. Non l’aveva fatto con le crisi di pianto e gli attacchi di panico di Hugo, né con l’attenta pianificazione di Tyler o il pugno di ferro di Daisy e la mazza di Zoe. Come tutto, nella sua vita, aveva proceduto nel caos più totale, con la sua serafica (e proprio per questo altamente irritante, almeno stando alle sue dolci metà) tranquillità. Si diceva di non aver mai premeditato niente, ma la prima cosa che vedeva ogni mattina, aprendo gli occhi, dimostrava il contrario.
    Che fosse in realtà un mastermind, e che tutta la sua vita dipendesse da un suo grande, enorme, imperfetto design?
    Tuttavia, Tyler aveva sempre avuto ragione. Non era intelligente. Il suo piano, sempre che ce ne fosse davvero stato uno, si stava sgretolando, un frammento alla volta, come una scogliera che, dapprima lentamente, poi, all’improvviso, tutta insieme, scivola nel mare. Ma non era un naturale processo di erosione, quello. Era stato lui stesso a posizionare una bomba, su quella scogliera, e a innescarla. L’aveva fatto nel momento stesso in cui, invece di vivere alla giornata, lasciandosi trasportare dalla corrente, aveva cominciato a scegliere.
    Aveva scelto di non nascondere la testa nella sabbia, come gli struzzi, ignorando quello che succedeva fuori. Aveva scelto di non scendere in guerra, di non combattere, perché aveva scelto la sua famiglia e, ancora prima, aveva scelto di averne una.
    «… Bau?» Gli occhi in quelli così scuri da sembrare quasi neri del Wood, Adam fu ricatapultato in quel presente che, almeno secondo le sue convinzioni, i suoi ideali, non abbandonava mai. E quale miglior modo per rispondere ai rimproveri del moro se non comportarsi da perfetto idiota immaturo quale era?
    «Stiamo crescendo una figlia, non delle bestie. Il minimo che tu possa fare è dare il buon esempio.» Strinse le labbra, ma non soffocò il sorriso che vi sentì spuntare nel pensare a Minerva. Poi si guardò intorno e, con fare plateale, aprì le braccia. «Ora come ora non c’è nessuno qui. A parte te. Credevo non fossi così influenzabile, specie dal sottoscritto.» C’erano tante, troppe cose che non andavano, tra di loro, come d’altronde era da sempre, ma, altrettanto da sempre, Adam non poteva esimersi dal punzecchiare il Wood, specie davanti a un tale sfoggio di diticità.
    E forse rompergli i coglioni così, gratuitamente, di prima mattina, era anche un modo implicito per fargli sapere quanto gli mancasse.
    «Comunque ciao, eh.» Non era lui quello petty, tra i due, e si sarebbe ucciso piuttosto che diventarlo, ma a forza di stare con lo zoppo… Eppure, nonostante tutto, Adam lo capiva. Non del tutto e, anzi, quasi di sicuro solo in modo superficiale, ma non poteva ignorare le occhiaie sempre più pronunciate di Tyler, la mascella tirata, i denti perfetti che, presto o tardi, avrebbero ceduto a quell’ormai costante digrignare. Era sempre stato così, questo lo sapeva bene, ma negli ultimi mesi le cose erano peggiorate. Persino il primissimo periodo senza l’alcol era stato meglio, per certi versi. Aveva crisi diverse, certo, ma non l’aveva allontanato così. O meglio, quando l’aveva fatto, era stato in modo esplicito, nulla a che vedere con quel subdolo allontanamento a cui lo stava sottoponendo ora.
    Ma poteva davvero biasimarlo? Lui che, invece di rincorrerlo, come dopotutto aveva sempre fatto, gli aveva sì e no teso una mano, perso com’era in quell’oceano quasi totalmente estraneo di senso di colpa in cui stava annegando?
    «Sì, è uscito.» Le parole e la voce di Tyler dicevano una cosa, ma la sua espressione e la sua prossemica un’altra. Tutto nella norma: voleva ma non voleva che lui chiedesse, indagasse, che cercasse di insinuarsi negli spiragli, adesso nuovamente strettissimi, del suo inscalfibile guscio. Sebbene fosse Daisy quella con cui il Wood parlava in modo approfondito e tecnico del suo lavoro, dal momento che, più o meno tacitamente, ogni punta del loro strano triangolo aveva la propria sfera di competenza, Adam sapeva bene quanto anche la più piccola modifica di ciò che scriveva pesasse al perfezionismo di Tyler. L’aveva e l’avrebbe sfottuto ancora e ancora sull’argomento, ma sapeva anche che non erano solo manie della sua saccenteria. Se fosse sceso in guerra, avrebbe combattuto anche contro la censura che imbavagliava chi, come il Wood, aveva fatto della diffusione della verità, reale o presunta che fosse, il proprio mestiere. «Posso vederlo? Posso leggerlo
    Voleva torchiarlo, lo voleva davvero, ma mentalmente tirò un piccolo sospiro di sollievo quando la domanda di Daisy sull’averli interrotti, in effetti, fece proprio questo. Sbuffò e alzò gli occhi al cielo per il commento telefonatissimo di Tyler, ma rivolgendo lo sguardo verso la figura imbacuccata in avvicinamento si sciolse in un sorriso. «Buongiorno!», la salutò con dolcezza, per poi aggiungere, alludendo al commento del moro di poco prima: «Visto che conosco le buone maniere, a differenza tua?». Continuò a seguire Daisy con lo sguardo, il sorriso che si allargava man mano che la vedeva farsi più vicina, per culminare in uno pieno di tenerezza quando vide emergere non solo la figura esile di lei da sotto la felpa, ma anche quella di Albie. Annuì, cogliendo al volo la sua richiesta, e le slacciò delicatamente il marsupio, sbirciando il bambino che vi dormiva dentro. Ogni volta che lo guardava non riusciva davvero a spiegarsi come avessero fatto a creare qualcosa, anzi, qualcuno di così perfetto, invece del suo, del loro solito caos, e sentiva il cuore esplodergli nel petto.
    Non era fatto per quel miscuglio di sensazioni ed emozioni. O meglio, lo era, ma solo quando queste erano per lo più positive. Adesso che in lui ribollivano anche elementi spiacevoli, e decisamente troppi, per i suoi gusti, si sentiva quasi sopraffatto. Lui. Sopraffatto da ciò che provava.
    Non era solo assurdo.
    Faceva male, troppo male.
    Tuttavia, sentendo Tyler ringhiare un rimprovero a Margarita, non poté fare a meno di sogghignare. «Attenta, stamattina è di cattivo umore», la avvisò con finto fare cospiratorio, scivolando di nuovo con lo sguardo sorridente in direzione della culla dove aveva posato Albert. «Sai che novità», lo parafrasò anche, imitando il suo tono borbottante. Ora che Daisy era nuovamente vicina, tornò a notare, con una fitta al petto, l’arrossato gonfiore dei suoi dolci occhi scuri. Dal momento che aveva scelto di rimanere lì e di non fare niente per la collettività, perché non poteva schermare del tutto le persone che amava dal dolore? Perché non poteva avvolgerli in un abbraccio, Daisy e Tyler e Minerva e Albert, e convincere loro, e sé stesso, che sarebbe andato tutto bene, che sarebbero stati al sicuro, e felici?
    «Ciao», tornò a sussurrarle sulle labbra, prima di baciarla piano. Ecco quello che doveva fare, invece di sentirsi in colpa. Proteggerli. Farli stare bene. Ridacchiò con un ghigno sentendo Daisy punzecchiare a sua volta Tyler e, osservandoli, si concesse un istante di dolce oblio per bearsi di quella vista, una delle sue preferite. Loro due insieme, in atteggiamenti così intimi che il confine tra il compiacimento, per non dire altro, e la gelosia, si faceva terribilmente e piacevolmente labile. Sarebbe rimasto a guardarli scambiarsi confessioni, ed effusioni, per sempre, sentendosi al contempo intrigato ed escluso. Sapeva che entrambe quelle affermazioni erano vere. Erano loro tre, anzi, ora loro cinque, nel loro piccolo mondo, ma c’erano cose in cui non era ancora riuscito a infilarsi, e in cui forse non ci sarebbe riuscito mai.
    Non si sarebbe mai stancato di certe fantasie, quelle che lo vedevano appunto lì, in mezzo al Wood e alla Bulgakov, ora finalmente alimentate da una solida base reale, come gli dimostrò il fremito che lo attraversò vedendoli entrambi fissarlo, intenti a sussurrarsi qualcosa che non poteva sentire.
    «Tutto bene?», finì per farle eco senza saperlo, mentre, ancora affascinato, la guardava rendere magicamente perfetti i pancake. «Grazie! Non ci avevo… pensato.» Rise della propria sbadataggine, o forse stupidità, passandosi una mano tra i capelli. «E dire che in magia domestica non facevo schifo.» E quei mesi, ormai anni, da casalingo, nonostante qualche incidente di percorso, tipo la felpa sformata che Daisy si era sfilata poco prima, lo dimostravano. Per ribadire il concetto stavolta fu lui a tirare fuori la bacchetta, incastrata su un fianco nei pantaloni del pigiama, e rivolgerla in giro finché il caffè non fu sul fuoco. «Caffè bulgaro in arrivo!», annunciò, facendo l’occhiolino a Margarita mentre, dopo aver agguantato il piatto con i pancake, la raggiungeva, avvicinandoglieli perché ne prendesse uno.
    Impegnato a masticare in prima persona il dolce, annuì tanto alla domanda quanto alla risposta su Minnie addormentata, alzando inconsciamente gli occhi verso il soffitto come se, così facendo, potesse vederla. «Stanotte è stata bravissima, si è svegliata solo una volta!», le comunicò orgoglioso, leccandosi via dalle labbra lo zucchero a velo. «E Albie? Non vi abbiamo sentito, ma sai che in qualsiasi momento ci siamo e… devi dormire.» Sapeva che gli occhi gonfi di lei non erano dovuti a questo, o meglio, non solo a questo, ma, più che le parole, fu il suo sguardo a porle quella implicita domanda e, ancora di più, quello che aveva detto anche ad alta voce: loro c’erano.
    Erano una famiglia.
    «Dove sei andata?» Per una (1) volta, Adam si trovò costretto a dare ragione a Tyler. E si sentì terribilmente in colpa, ancora, perché fino a quel momento non ci aveva pensato, non davvero. Non aveva realizzato che, nel bel mezzo di quello che stava succedendo, nel bel mezzo di una guerra, Margarita si era avventurata fuori casa. E con Albie, oltretutto! «Non c’è scritto nulla, lì sopra.» E due.
    Il pezzo di pancake gli andò quasi di traverso, facendolo tossire proprio mentre il caffè cominciava a salire. «Lavoro, e tu più di tutti dovresti saperlo…» Daisy non aveva bisogno che rispondesse per lei, né tanto meno che la proteggesse, ma gli venne spontaneo fare da cuscinetto, sebbene fosse il primo a non conoscere la risposta e a volerne sapere di più. «Però…» Tossì ancora, e si staccò dal bancone per andare a spegnere il caffè a mano sul fornello. «… era proprio necessario?» Li guardò entrambi, gli occhi chiari appena velati da un luccichio, sentendo montare dentro la preoccupazione, il dispiacere… e la rabbia.
    Là fuori avrebbe dovuto esserci lui, non loro.
    Fu un attimo, ma prima che potesse farci qualcosa, la sua lingua prese a muoversi, più veloce dei suoi pensieri. Era un problema che aveva da sempre, in effetti. Non voleva ferirli, o forse sì, ma quando si girò, la caffettiera in mano, l’impotenza che lo corrodeva dentro, mescolata alla paura, al dolore, all’ira, gli risalì in gola. «Tu cerchi di far emergere la verità con le parole, nonostante tutto. Tu ci provi calandoti nelle vite degli altri, mentre però ti esponi in prima persona, fisicamente. Io…»
    sooner or later you're gonna tell me a happy story. i just know you are.


    Scusate, ciccine, ma questo Adam complessato è così inedito che mi fa sudare (e non in positivo ihihihi), aiut.
    Chissà se ha senso questo post.
     
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    Daisy apprezzò il dolce saluto di Adam e sorrise di sottecchi a sentire le parole del moro, ricordandosi di quando a Hogwarts li sorprese a sbaciucchiarsi nel giardino della meridiana, dietro a una delle grandi pietre non distanti dalla Foresta Proibita. Location interessante, effettivamente, dove scambiarsi effusioni. Daisy più volte, a suo tempo, l’aveva sperimentata sia con ragazzi che con ragazze e, a pensarci bene, perfino con uno degli assistenti scolastici. Ah, essere giovani e sconsiderati! Quella spensieratezza le mancava, non che durante la loro relazione a tre Adam e Tyler le avessero vietato di continuare a praticare l’amore libero, anzi. Forse gli anni migliori per lei, in tal senso, furono proprio quando concluse Hogwarts e mise il piede nel mondo teatrale, per non parlare di quello dello spettacolo. Alcuni tatuaggi che aveva sul corpo erano esperienza di quelle serate folli e nebulose che, diventata ora mamma, difficilmente avrebbe più cimentato. Dopotutto si era persino ripromessa di non toccare più il tabacco, l’unica cosa per cui sarebbe stata indulgente in un futuro non precisato era una e una soltanto: una delle delizie artigianali prodotte e rollate nientepopodimeno che dal suo amato Adam. Nel frattempo, si accontentava di dosi calmierate di caffè; il suo corpo era un tempio.
    « Attenta, stamattina è di cattivo umore » la avvertì il biondo sardonico e Margarita, al suo fianco, colse l’occasione per punzecchiarlo. Tyler abboccò alla sua provocazione e Rita soffocò una risata: « Non dimenticare le tue origini bulgare, i nostri avi si rivolterebbero nella tomba a sentirti! » proseguì, fingendosi toccata dall’argomento. « Cosa direbbe zia Dahlia del suo nipote preferito in questo momento? » rincarò la dose, sapendo perfettamente quanto Tyler ci tenesse all’opinione di sua madre che – per quanto fosse mezza inglese come sua figlia Daisy – andava molto fiera della sua discendenza bulgara, rafforzata poi dall’unione con Andrej Bulgakov, il padre della suddetta nonché parente diretto di Tyler. Questo, a tutti gli effetti, rendeva indelebilmente legati sia Margarita che Tyler stessi come cugini di lontano grado. a gran sorpresa di entrambi e soave compiacimento di Adam, che finalmente poteva far avverare una delle sue più nascoste kink.
    Rita non si lasciò sfuggire lo sguardo rabbuiato del cugino, quando sciolsero – o meglio, lui sciolse – l’abbraccio con cui lo aveva circondato solo pochi attimi prima. Comprese e decise di far finta di nulla, annuendo poi al biondo quando, inaspettatamente, chiese anche lui se tutto fosse a posto. Sorrise solare e rammentò a sé di parlare in seguito con Tyler, senza gli occhi indiscreti di Adam. Da quando era cominciata la guerra, iniziavano ad esserci argomenti per cui fra i tre non fosse più indicato parlare apertamente. Daisy, nella sua solitudine, si era già chiesta molte volte se questo non fosse iniziato ancora prima e per quanto ancora questa situazione sarebbe andata avanti. Tenere segreti con l’uno o con l’altra la metteva a disagio, da sempre. Non era mai stata brava a tenere a freno la sua lingua per troppo tempo, visto l’amore che provava sin dalla tenera età per entrambi.
    « Mi fa piacere sentirlo » disse, quando Adam le comunicò che il sonno della piccola Minerva si era interrotto un’unica volta, « È sgattaiolata di nuovo nella vostra stanza? » domandò, mentre osservava il Cox abbuffarsi di pancake e lei ne mordicchiava uno, che si era servita su un piattino a parte. Non era raro che Minnie si svegliasse nel cuore della notte, rifugiandosi poi nella camera da letto di Adam e Tyler. Da quando era nato Albie, non era più solita intrufolarsi anche nella stanza di Daisy, per paura di disturbare Albert, che sin dai primi tempi si era rivelato un fratellino facile al pianto. Non che ci fosse troppo da stupirsi, ma nessun libro aveva preparato abbastanza Margarita alle notti insonne che le sarebbero attese, tra coliche, incomprensioni e soprattutto la difficoltà ad allattarlo. Alla fine, Daisy, si era semplicemente arresa: non era capace di produrre latte. Era certa che persino Minerva durante quelle notti l’avesse sentita piangere disperata, a causa di quella sua mancanza. Solo grazie l’insostenibile supporto di Adam, la presenza assidua di Tyler, così come l’affetto che intravedeva negli occhi della bambina, riuscì a non sprofondare, a sentirsi accettata e meritevole di quella felicità che loro cinque, gradualmente, erano andati a crearsi. Daisy, a tutti gli effetti, si sentiva la matriarca di quella stramba famiglia e una parte di sé sperava che presto o tardi avrebbe continuato ad allargarsi.
    Sbuffò alla minaccia velata del cugino, pregustandosi il momento in cui sarebbe andata a svegliare Minerva, facendo una delle sue più grandiosi imitazioni della Maga Magò. Saranno stati il naso bitorzoluto e la finta dentiera che indossava per l’occasione a far sbellicare la piccola, ma certo era che perfino l’adulta Daisy si divertisse parecchio, sotto lo sguardo severo di Tyler. Specie quando travestita fingeva di inciamparsi e di cadergli addosso, importunandolo con avances poco velate. Questo teatrino era solito far ridere ancora più forte Minerva e Daisy adorava approfittare dell’imbarazzo del cugino.
    Prima che potesse rispondere a Adam, Tyler intervenne bruscamente, rimproverando la ragazza: « Dove sei andata? Non c’è scritto nulla, lì sopra. »
    Margarita, resasi conto che il moro non avesse tutti i torti, incassò abbassando lo sguardo. Non aveva avvisato nessuno dei due delle imminenti riprese di un lavoro che, ancora una volta, la vedeva protagonista. Forse per la notizia arrivata in contropiede, forse per paura che glielo impedissero, si era dimenticata di avvisare entrambi che quella mattina si sarebbe assentata, così come molte altre di seguito. Fu il Cox a rispondere per l’attrice e, dentro di sé, fu contenta di sapere che almeno lui non fosse arrabbiato con lei. Appoggiò il piattino sul bancone, ormai vuoto, di fianco a lei.
    « Gli studios hanno deciso di riprendere a girare, il Ministero ha dato la sua approvazione » annunciò, « Vorrebbero che ricreassimo qualcosa di unico, dedicato a quanto accaduto ma ci siamo rifiutati visto il clima di instabilità… » spiegò, parlando anche in vece del cast e della produzione.
    « Prima dello scoppio della guerra ero in trattativa per un dramma storico » continuò precipitosa, alzando il mento e lanciando lo sguardo prima a uno e poi all'altro « Come protagonista, su Morgan le Fay » enunciò, speranzosa che ricordassero e cercando un po’ di supporto almeno nel biondo, « Ho accettato » concluse in fretta, trattenendo il respiro e temendo la reazione di entrambi. Girare un film, in quel momento, non era proprio una cosa semplice e sia lei che la produzione stessa sapevano dei rischi che correvano. In primis a rifiutare una proposta politica come quella – che era molto rado che accadesse, in secondo luogo la difficoltà nel gestire dei set e delle persone in un momento storico come quello. Il rifiuto di Daisy, secondo il suo manager, era giustificabile dal fatto che in precedenza aveva ricoperto il ruolo di una Pavor e che quindi fosse più che comprensibile il suo disinteresse, non che vi fosse del mancato rispetto. Tuttavia, si trattava di una mezza verità, poiché era vero che quando il suo amato JD era ancora in vita Daisy lo avesse onorato interpretando la parte di una Pavor, la professione che lui fieramente svolgeva. Non era solo il desiderio di non ripetere qualcosa che avesse già fatto, era evitare la sofferenza di ricordare che suo cugino non ci fosse più, che un pezzo di sé fosse ormai andato.
    « Oggi sono andata a fare la prova costume, ma sono stata accompagnata » mentì solo in parte, visto che all’andata effettivamente qualcuno della sicurezza la venne a prendere, mentre per il ritorno aveva preferito rientrare da sola, temendo che avrebbe attirato su di sé solo più occhi indiscreti in compagnia di qualche energumeno. « Scusatemi, non riaccadrà » disse in riferimento al non averli avvertiti, notando le emozioni che balenavano sul viso di Adam « È una grande opportunità » si difese, pronta a quello che non solo a breve Adam gli avrebbe detto, ma persino alla sfuriata che sarebbe seguita da parte di Tyler… O forse sarebbe successo proprio il contrario? Daisy, difatti, per la prima volta dopo tanto rimase interdetta da quello che il giovane Cox disse: «Tu cerchi di far emergere la verità con le parole, nonostante tutto. Tu ci provi calandoti nelle vite degli altri, mentre però ti esponi in prima persona, fisicamente. Io…»
    Stette in silenzio, sbalordita. Riabbassò lo sguardo, dispiaciuta di quelle parole e sentendosi in colpa per essersi comportata da egoista.

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    AAALLORA, ho scritto un sacco, lo so, ma avevo voglia di esplorare in un po' di ricordi e nel frattempo che avete risposto e io vi ho leto, mi sono venute in mente un po' di cose, quindi ho avuto voglia di scriverle e spiegare un pochino. Ovviamente mi sono immaginata Rita che verso la fine parlava veloce, mentre Ty e Adam erano un po' in silenzio. Poi ho immaginato che Adam fosse il primo a spezzare questo silenzio... Ho lasciato qualche vassoio d'argento per cazziarla ahahah, soprattutto per Tyty. *smack*
    Eeeee lo so, sono stupida. Ho scritto tutte le cazzate che mi venivano in mente ahaha, avevo voglia di leggerezza. Inoltre sono in ritardo, chiedo venia çç mi sono un po' persa con la proclamazione della laurea e vita in seguito. Comunquele, spero si capisca dal mio post il timing di tutte e tre, visto che sono tutti e quanti witty (tu Adam di meno, ma facciamo finta) e zozzini, ancor di più se insieme. Infatti mi scassano moltissimo. <3
    Domani ricontrollo, adesso sono dai miei e non ho più una stanza mia, giustamente mia madre e mio padre mi stanno odiando.

    Obvsly Rita e Tyler non sono cugini di primo grado, ma tipo di secondo o terzo??? Non ricordo più. La mamma e il papà di Daisy, Dahlia e Andrej, vengono chiamati 'zii' da Tyler solo perché è più semplice riferirsi così a loro, in realtà papiAndrej sarebbe cugino di forse secondo grado di Tyler??, perché suo papà (quindi il nonno di Daisy) e la nonna paterna di Tyler sono fratelli. Perciò probabilmente Ty e Daisy sono cugini di terzo grado... Sono andata a cercare ma ho i ricordi un po' annebbiati, VA BENE LO STESSOOOO. *imita meme*


    Edited by daisy. - 4/4/2024, 15:51
     
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5 replies since 13/6/2023, 09:03   326 views
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