the violence of the dog days

post-q10 | ft. maddy

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    charlyse benshaw
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    Il mondo era andato a puttane, e Charlyse Benshaw aveva avuto un posto in prima fila per la discesa verso l’Inferno. Schierata dalla parte giusta, l’ennesimo giudice, giuria e boia a muoversi allo schiocco di un dito. Sapeva di aver perso la guerra non appena Abaddon si era palesato vicino al cerchio di monoliti, una convinzione così viscerale che aveva dovuto stringere la mano di Lawrence- nessuna spiegazione, nessuno sguardo, solo le loro dita ad intrecciarsi e a cercare un supporto che sapeva avrebbe sempre trovato. Quel legame, nemmeno una, dieci, cento vite avrebbe potuto spezzarlo. Osservò le radici a stringersi attorno alle loro caviglie, i loro volti a contorcersi in smorfie di dolore e urle, accartocciarsi a terra, inutili suppliche a scivolare dalle loro labbra. Quella disperazione, le lacrime a bagnare il volto, nemmeno uno studente universitario con la mora di Unito dopo i 30 giorni limite. E in tutto ciò, Cherry non aveva potuto far altro che rimanere impassibile a guardare, il respiro ancora mozzato in gola e la testa svuotata da qualsiasi pensiero. Sarei potuta essere io. Un momento di incertezza, un singolo cedimento alle parole di Moka, e quella a contorcersi a terra sarebbe stata lei.
    E poi.
    E poi venne la nebbia.
    Un momento congelato nel tempo. Un battito di troppo, rapido e incontrollato a fuggire dalla cassa toracica. Non voleva guardare, Charlyse, ma si costrinse a farlo. Glielo doveva, a tutti loro, a Moka. Non sapeva cosa sarebbe successo, fino a che non fu troppo tardi.
    Il più grande pregio di Charlyse Benshaw era il perfetto controllo delle emozioni nella maggior parte delle situazioni, una macchina destinata a non mostrare il più remoto accenno di un sorriso, smorfia, qualsiasi cosa potesse mettere a repentaglio la sua posizione. Era una spia, sapeva modellarsi alle diverse interazioni e persone, non custodiva sentimenti propri.
    Quel giorno, tuttavia, non era Charlyse.
    Era una ragazzina di dodici anni in una stanza piena di sconosciuti.
    Confusa, arrabbiata -oh, sempre così arrabbiata- e terribilmente smarrita.
    Fino a che un ragazzino altrettanto smarrito non aveva allungato la mano e aveva deciso di non lasciarla più, trascinandola in qualsiasi cazzata gli passasse tra la testa. Ed erano cresciuti, ed avevano prese le loro decisioni, le loro strade. E queste strade si erano inevitabilmente separate.
    E li avevano portati lì.
    Faccia a faccia a combattere per uno stesso ideale, ma ognuno a modo suo.
    E l’aveva portata lì, a soffocare un urlo nella spalla di Lawrence, le unghie ad aggrapparsi al tessuto della divisa del ragazzo e a scavare nella carne. Aveva guardato fino alla fine, Cherry, dicendosi che glielo doveva. Ripetendosi che voleva imprimere nelle retine quell’ultimo momento, memento di non aver fatto abbastanza per non vincere quella guerra. A cosa erano serviti tutti i loro sacrifici, della resistenza, di chi aveva deciso di ribellarsi, se niente era servito a un cazzo. Batteva il pugno contro il petto di Lawrence, sorda alle sue parole e al mondo che la circondava, immersa nel suo personale incubo, il respiro spezzato e il petto ad annaspare.
    Aveva di nuovo dodici anni, Cherry: confusa, arrabbiata -oh, sempre così arrabbiata- e terribilmente smarrita.

    Non sarebbe dovuta essere lì.
    Non ne aveva il tempo, tra Ministero e Ribellione, cercare di tappare i buchi di quella guerra e prendere una boccata d’aria.
    Eppure, aveva comunque scelto di varcare le porte del San Mungo.
    Le persone che Cherry teneva vicino al petto potevano essere contate sulle dita di una mano, e Lawrence avrebbe sempre fatto parte di quella rosa. Anche se non voleva vederla per qualche assurdo motivo, e giorno dopo giorno trovava una scusa per sbatterle la porta in faccia. Un perfetto specchio di quello che si ripeteva anche a New Hovel, dove non era più ben accetta.
    Charlyse avrebbe voluto sapere cosa aveva fatto di sbagliato, per porvi rimedio. Non sopportava quel silenzio da ambo i lati, uno che giorno dopo giorno divorava e distruggeva fino a lasciare terra bruciata tutto intorno a sé. Aveva promesso di buttare giù entrambe le loro porte, e aveva tutta l’intenzione di farlo. Non gliene poteva importare di meno di quale peso pensassero di dover portare sulle spalle, sul perché pensassero di essere le uniche vittime di quella guerra, ma che non la ignorassero.
    Eppure, l’avevano fatto di nuovo.
    Charlyse era ferma lì, immobile all’entrata del reparto, con il sacchetto di plastica ancora stretto tra le dita. Tremava, la Benshaw, eccome se tremava. Di rabbia repressa, di urla che non trovavano uscita, di tutte le parole che voleva dire a Lawrence ma non poteva. Sfilò il telefono dalla tasca con tutta l’intenzione di insultarlo, quando un messaggio tra le ultime notifiche catturò la sua attenzione. Alzò lenta, guardinga, lo sguardo controllando che nessuno le stesse prestando attenzione. Solo allora si concesse di premere sullo schermo, una debole piega delle labbra a sostituire la smorfia che vi aveva regnato fino a quel momento. Se non altro, qualcuno si degnava di accertarsi che fosse ancora viva.
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    Il mondo era andato a puttane e Madelaine Hopper era corsa a Canosa.
    Il mondo era andato a puttane, e Madelaine era corsa tra le braccia di Lucrezia, senza pensarci due volte su.
    Il mondo era andato a puttane, e Madelaine era cambiata, era entrata a far parte della resistenza, aveva deciso di dover cambiare lei se voleva davvero cambiare qualcosa, doveva schierarsi, e per la prima volta aveva messo piede al QG.
    aveva dato una mano a spostarlo, perché non potevano stare più li, e quelle sedie vacanti, quell’aria di gelo, quei sorrisi di circostanza le avevano fatto più male di quanto aveva previsto.
    avevano perso.
    avevano perso la guerra, avevano perso l’orgoglio, ma soprattutto, avevano perso dei compagni.
    Aveva combattuto contro le ombre su territorio italiano, le aveva uccise senza rendersi conto che fossero persone vere, andava fatto, l’aveva ripetuto tante volte a Mads mentre combattevano, andava fatto, si era detta mentre sparava contro loro chissà quanto piombo, ed ora? cosa le era rimasto?
    Moka era un’ombra.
    Wren era un’ombra.
    e lei non c’era, non c’era stata, troppo impegnata a riposarsi, troppo impegnata a fare altro.
    non ci sarebbero state più cene di famiglia dove avrebbe cercato gli occhi di wren per una domanda scomoda di nonna rosetta, wren che non le aveva mai negato una mano, non ci sarebbero state più sbronze e risate al tavolo di un bar mentre votavano uomini di una certa età, lei e Moka, anime gemelle per un motivo.
    si era fermata dinnanzi alle sedie vuote, aveva passato le mani sulle spalliere, si era persa con lo sguardo nel vuoto, gli occhi lucidi, si era proibita di piangere, lo aveva sempre odiato, non sarebbe servito a nulla, le lacrime non li avrebbero riportati lì.
    le lacrime non avrebbero colmato il vuoto.


    con l’indice e il pollice strofinò gli occhi da sopra le palpebre, da quante notti non dormiva? sibilò perché aveva ancora dimenticato quei punti sul sopracciglio, che le avevano messo una volta tornata, durante la prima visita dopo la guerra, non l’avevano poi tenuta così tanto, non era messa così male, era bastato qualche sorso di ossofast e, dove non era possibile, una cucitina, ma era tornata presto a casa, le avevano raccomandato riposo non sapendo che non avrebbe voluto far altro che dormire tra le braccia di lucrezia.
    non era tornata a lavoro, non ancora, non era pronta a tornare ad una routine, non era pronta a far nulla.
    l’unica cosa che si costringeva a fare era tornare al San Mungo ogni tre giorni per la visita di controllo che le avevano imposto.
    «Sto bene, riesco a fare tutto.» disse al dottore che si stava togliendo i guanti, gesto che sanciva la fine della visita, come al solito il medico l’aveva liquidata con un a martedì signorina Hopper e lei non aveva potuto fare altro che uscire dalla stanza con la consapevolezza di dover tornare in quel posto, di dover essere consapevole di essere nello stesso edificio dei suoi compagni e non avere il coraggio di andargli a fare visita; un colpo alla spalla, una spinta verso l’indietro, era andata a finire addosso a qualcuno, distratta come al solito «scusa» disse mentre si sistemava la felpa grigia, e finalmente alzava lo sguardo

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    In fine dei conti, Charlyse era stata fortunata. A malapena sfiorata dal fantasma della guerra, non mostrava nessuna lesione esteriore, e gli spettri che si portava dentro erano attentamente celati al pubblico. Un normale giorno nella vita della Benshaw, nulla di nuovo e di cui sorprendersi. Ormai era diventata così brava a giostrare quelle dimensioni che poteva farlo ad occhi chiusi, lasciare che le spine si conficcassero fino in fondo e la facessero sanguinare come un martire, nutrendosi della sua stessa miseria. Alla fine, la vita non era che un grande palcoscenico, e c’era chi sapeva come brillare sotto i riflettori e chi rimaneva inchiodato sugli spalti. Peccato che in quel momento non stava recitando nessuna parte, nessun martire, solo Cherry nella sua forma più nuda. Lineamenti fragili come cristallo, un guizzo divertito ma sfuggevole sulle labbra pitturate di rosso, un fottuto miraggio nel deserto. Un miraggio che si frammentò non appena qualcuno urtò la spalla della bionda, e la riportò a quella che era la realtà. Bella merda. Il suo sguardo scattò in alto a cercare il colpevole, curiosa di chi fosse così nel suo mondo da non notarla ferma in mezzo al corridoio- certo che non era colpa sua, che domande. Ma la Benshaw aveva una reputazione immacolata da mantenere, uno dei mille ruoli che era abituata a vestire come una seconda pelle. Riconobbe nel colpevole la figura di Madelaine Hopper, una nuova recluta nelle file della Resistenza, un numero in più di cui avevano disperatamente bisogno. Cherry poggiò la mano sulla spalla della ragazza per evitare che urtasse qualcun altro, un sorriso morbido ad accompagnare quel gesto «scusa, colpa mia, ero distratta» sollevò il telefono ormai bloccato, uno schermo nero a giustificare la sua gaffe. Notò poi i punti sul sopracciglio della Hopper, e Charlyse non poté fare a meno di domandare «ti ho fatto male?» no, non le interessava davvero, ma era una questione di educazione. «Anche te qui in visita?» genuina, quella volta, del rivolgersi a Madelaine- Cherry era la prima a riconoscere che tutti avessero dei cari tra quei corridoi, e sperava vivamente che non fossero dei bastardi ingrati come Lawrence.
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    «scusa, colpa mia, ero distratta» no non era vero, forse era l’esatto contrario, era lei che era soprappensiero e l’aveva urtata in malo modo, Madelaine andò a posare una mano sull’avambraccio della ragazza, che aveva riconosciuto in quel momento, per stabilizzarla e far sì che non cadesse per colpa sua «figurati, è colpa mia che ho la testa da tutt’altra parte» arricciò le labbra e lasciò la presa sulla giacca di fattura costosa di Cherry, era talmente presa dal pensiero di voler uscire di lì che non l’aveva vista affatto, come aveva fatto tempo prima con lucrezia durante il loro primo incontro d’altronde. «ti ho fatto male?» Scosse il capo con veemenza facendo svolazzare qui e là qualche ciocca color grano, stranamente liscia e in ordine «no, affatto» infilò le mani nelle tasche dei jeans baggy che indossava e spostò il peso da una gamba all’altra «io invece ti ho fatto male?» chiese, realmente preoccupata, anche se era convinta che nulla facesse male come le ferite che avevano dentro, dopo aver combattuto, avrebbero impiegato tempo a guarire, madelaine si era rinchiusa in un angolo sperando che la solitudine e l’amore l’avessero aiutata in qualche modo. «Anche te qui in visita?» Maddy abbassò lo sguardo sul pavimento stringendosi nella sua felpa oversize, no, non era lì in visita, era una codarda e non ci voleva tornare in ospedale, aveva paura di poter vedere qualcosa che avrebbe rotto la sua stabilità, in quel momento fragile, di cristallo, e distruggesse i progressi che aveva fatto da quando era tornata dalla guerra, quella bolla dove Lucrezia con la sua delicatezza l’aveva rinchiusa, e che avrebbe potuto scoppiare da un momento all’altro «no, sono qui per una visita di controllo, ci torno ogni martedì all’ incirca » per poi fuggire con la coda fra le gambe appena ne avesse l’opportunità «tu invece? sei venuta a trovare qualcuno?» probabilmente, visto che non la vedeva spesso fra i corridoi dell’ambulatorio
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