'cause karma is the thunder rattling your ground

post-q10 | ft. law

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    Sebastian Quinn aveva già conosciuto la morte decenni prima, un mero sfiorarsi dei polpastrelli, una promessa lasciata a metà. Un uomo pragmatico, il Quinn, che aveva preferito sacrificare la sua identità al posto della vita. Così attaccato alla promessa di una nuova alba da voltare le spalle a trentasette anni di memorie. E aveva funzionato, no?
    Undici anni dopo, aveva accolto il Mietitore a braccia aperte e l’aveva stretto al petto come un vecchio amico. Sinclair non aveva fatto altro che rubare e rubare tempo, consapevole che prima o poi sarebbe giunto quel giorno. Sarebbe dovuto morire molto tempo prima.
    Una stirpe maledetta, quella dei Quinn.
    E quando il fumo denso e scuro fuoriuscì dalla faglia, quando Abbadon sancì il destino dei maghi, Sinclair divenne conscio del fatto che quel luogo sarebbe divenuto la sua tomba.
    Mi dispiace, Al. Perché non se lo meritava, di essere messo in mezzo. Perché lo aveva abbandonato per così tanti anni. A lui e Richard, una famiglia che avrebbe dovuto proteggere anzi di disfare.
    Uno sguardo a Jekyll, ad Arturo. Era colpa sua, se avrebbe trascinato loro padre in una tomba.
    Uno sguardo a Bengali. Perché non sarebbe mai stato il padre che si meritava, che era già troppo tardi, anche se nessuno dei due poteva ancora saperlo.
    E Murphy- un sospiro,
    E prima i sette nani.
    E poi Arianna e i monologhi.
    Ma come si fa.
    A scrivere cose serie.
    Roberta che finge nonchalance.
    Basta.
    Ok.
    E Murphy- Murphy non era lì, una fine calzante data come era iniziata la loro storia. Avrebbe voluto stringerla in un abbraccio per un’ultima volta, dirle che era fiero di lei, nonostante tutto. Che sperava avrebbero avuto più tempo, ma che era grato per gli anni che avevano avuto. Avrebbe voluto-
    La nube l’aveva raggiunto.
    Non vi era più un battito, all’interno del petto di Sinclair Hansen.


    16 novembre 2016
    «e se vi dicessi che, ipoteticamente s’intende, potrebbe esserci la possibilità di riportarli indietro?»
    Elijah. Heidrun. Aloysius.
    Non credeva ai miracoli, Sinclair, non voleva riporre fede in un uomo che non aveva alcuna garanzia da dargli. Ma aveva un’altra scelta?
    «Omnia vincit amor et mors cedat amori»
    Un battito debole, e poi sempre più forte, vivo a pulsare contro la sua pelle.
    Ce l’avevano fatta. Ce l’avevano fatta?
    «se muore uno di voi, muoiono anche gli altri due»


    Sinclair Hansen era stato un dottore estremista nei Laboratori per quella che era parsa un’eternità. Aveva torturato, fatto a pezzi e ricucito insieme decine di essere umani- alcuni, erano cadaveri. Non si era mai considerato un brav’uomo, una definizione fin troppo vasta e resa torbida da conflitti etici e morali di cui non voleva nemmeno iniziare a preoccuparsi. Aveva voltato pagina, pregando che il suo passato non lo tormentasse più, aveva cercato di fare una differenza. Ma non era bastato, non bastava mai.
    Non ricordava molto, Sinclair, ma quello che era rimasto impresso a fuoco nella sua mente era sufficiente.
    Aveva amato i suoi poteri, una conquista, il culmine di tutto ciò a cui aveva lavorato. Li aveva considerati un dono, una nuova opportunità per chi come lui non aveva avuto altra scelta. Non pensava che un giorno avrebbe sterminato un’intera città, preso e preso vite ancora ed ancora fino a che non era rimasta più alcuna traccia di civilizzazione.
    Ma non era stato lui, no? Era quello il nocciolo della questione, determinare quanto la colpa ricadesse su di lui e quanto fosse stato semplicemente un burattino. Sinclair Hansen non aveva mai avuto paura di addossarsi le proprie responsabilità, ligio al dovere e proiettato verso un futuro che ancora in pochi potevano comprendere. Ma quello? Non era opera sua, nemmeno lontanamente.
    Era solo felice di essere vivo.
    Di non portato a fondo con sé Aloysius.
    Anche se sui fratello si rifiutava di guardarlo negli occhi, di riconoscere la sua esistenza a meno che non fosse attraverso il fondo di una bottiglia. Quattro anni sobrio, gli aveva gridato contro una delle prime sere che aveva messo piede alla Testa di Porco. Quattro anni sobrio, per poi buttarli nel cesso e autodistruggersi sera dopo sera, bicchiere dopo bicchiere.
    Gli aveva strappato via quello, gli aveva strappato via la Resistenza.
    Sinclair non rimpiangeva le migliaia di vite sulla sua coscienza, ma le conseguenze che avevano avuto sulla sua realtà.

    Ancora reggi?
    Dai, collassa.

    E nonostante tutto, Sinclair era lì alla fine della nottata ad offrire a suo fratello un bicchiere d’acqua, a rimettere al loro posto le bottiglie sul pavimento. Non era raro che lo riportasse a casa, trascinando fuori Troy per dargli una mano. Ci sarebbe stato comunque, anche se non il Crane voleva, anche se il mattino dopo avrebbe attributo quei ricordi ai fumi dell’alcol.
    Forse Sinclair sentiva di avere un debito karmico da pagare, qualcosa che appagasse quella voragine che aveva nel petto da diversi giorni. Non sapeva cosa lo spinse ad avvicinarsi al ragazzo seduto su una delle seggiole di plastica, forse l’impressionante somiglianza con un suo ex paziente. Sempre se di paziente di potesse parlare, lo aveva incontrato solo una volta. Cosa ci facesse alla sua sessione di riabilitazione, poi, era un mistero. «Lawrence?» tentò di attirare l’attenzione del ragazzo, fin troppo immerso in qualcosa che teneva sul grembo per accorgersi della sua presenza. «Posso?» i muscoli lo stavano uccidendo dopo la fisioterapia, non credeva di voler rimanere in piedi ancora per lungo. Non aspettò il permesso di Lawrence per sedersi, poggiando poi le stampelle sulla seduta accanto a lui. Avrebbe avuto molte domande da fare, come se non l'avesse visto combattere per l'altro lato -quello giusto, sbagliato, dipendeva dal punto di vista- ma preferiva non ritornare a quei momenti, concedersi almeno qualche minuto di pace. «Alla fine hai risolto quel problema?» che problema. Beh, quello per cui era venuto da lui per poi non varcare mai più la soglia del suo studio.
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    «non li voglio più quei trenta galeoni»
    Lawrence aveva guardato Cherry socchiudendo le palpebre — e temendo che, in un modo o nell'altro, qualcuno di loro li avrebbe riscossi. La domanda, la roulette russa, era capire chi.
    Anche se lui un'idea ce l'aveva.
    Per una rarissima volta nella sua fottuta vita, Lance sperò di sbagliarsi; di aver commesso un errore di valutazione, di aver calcolato male le probabilità e i pronostici, di non averci capito un emerito cazzo.
    Non era così.
    Perché era troppo sveglio, troppo furbo, troppo intelligente.
    Non si ripeteva così ogni giorno della sua vita, da ventitré anni? Non ne andava maledettamente orgoglioso? Non ne aveva sempre fatto un vanto, di quella spiccata percezione che lo contraddistingueva?
    Strizzò le palpebre, e sospirò.
    Era un dono, e una maledizione, sapere di avere ragione.
    Perché non c'era altro modo in cui tutto quello potesse finire — uno schieramento vinceva, e uno schieramento perdeva. Era così che doveva finire; non c'erano pareggi. Solo dei fottuti calci di rigore che avrebbero decretato il nuovo ordine delle cose.
    E per come si erano messe, non sarebbero stati loro a perdere. Non Cherry, non di certo Lawrence; lui sapeva sempre dove schierarsi per assicurarsi di risultare vittorioso. Era un altro dei suoi doni, uno che ora desiderava aver passato a suon di insulti e commenti piccati a quella testa di cazzo di Moka Telly Jr.
    Coglione. Infame. Bastardo.
    Non c'erano abbastanza epiteti dispregiativi che Law potesse rivolgere allo special, per essersi schierato dalla parte sbagliata. Per averci quasi trascinato anche Cherry.
    Lo odiava.
    Lo odiava come si odiano i fratelli.
    Perché in quella raduna Lawrence aveva un fratello, poco ma sicuro, e non era il grifondoro che adesso si contorceva in terra per il dolore; forse in un altra vita lo era stato, e forse avrebbe potuto esserlo in quella se le cose fossero andate diversamente; ma non era Wyatt quello per cui Lawrence aveva serrato la mascella e per il quale sentiva gli occhi pizzicare (è solo polvere, è solo sangue, figurati se piango per quel pezzo di merda di una presa elettrica) — era Moka. Moka che veniva circondato da una nube densa e nera; Moka che si inginocchiava a terra di fronte ad Abbadon; Moka che spariva per interminabili minuti; Moka che tornava e li osservava tutti come se non li vedesse, occhi impossibilmente neri e vuoti; Moka che batteva le ciglia e crollava a terra, nello sguardo confuso e disperato qualcosa che Lance, da quella distanza, non riusciva a distinguere.
    Moka, che era morto davanti ai loro occhi.
    E Lawrence, sempre il solito egoista, non riusciva a non odiarlo per avergli fatto una cosa del genere. Per aver fatto a Cherry una cosa del genere.
    Cherry che soffocava un grido sulla sua spalla, e affondava le unghie nella sua pelle, e lo stringeva con tutte le sue forze, come se quel gesto potesse portare Moka da loro.
    E Law.
    Law fissava in silenzio l'elettrocineta; e desiderava con tutto se stesso di poterlo prendere a calci, perché doveva sempre fare una cazzata? Perché non poteva essere come loro? Perché doveva — perché?
    «cosa ti posso dire, dio ha i suoi preferiti. non moka, stava messo peggio di te»
    Aveva detto la Benshaw.
    Avrebbe dovuto ridere quando ne aveva avuto la possibilità, Lawrence. Ghignare della sorte del Telly, e delle sue sfighe; lui aveva una gamba rotta, e Moka un pezzo di roccia a spuntare dallo stomaco. Ah, coglione.
    Ma quello era prima. Prima che Moka Telly facesse guadagnare quei trenta galeoni.
    Avrebbe dovuto ridere quando ne aveva avuto la possibilità, perché ora non c'era fottutamente nulla da ridere. Non quando “peggio” significava morto.
    E okay — aveva aperto di nuovo gli occhi, il Telly.
    Ma era davvero lui?
    Law immaginava che l'avrebbero scoperto col tempo.


    Col senno di poi, non sappe dire come fosse finito. Chi fosse stato il primo a muoversi dopo che Abbadon aveva girato i tacchi e li aveva lasciati a fare i conti con le conseguenze di quanto accaduto. Alcuni si smaterializzavano da soli, altri venivano trascinati via da amici e parenti; altri ancora erano stati risucchiati dalle faglie, ed erano spariti per sempre nell'etere. Altri erano lì, nella radura, immobili. Increduli. Alcuni rotti, altri semplicemente .
    Lawrence — Lawrence non era più schiacciato dal monolite, quel tanto lo sapeva; ma dopo aver visto gli occhi verde acqua dell'amico spegnersi, aveva smesso di comprendere tutto il resto.
    Qualcuno l'aveva aiutato a liberarsi, e aveva commentato che la tibia fosse spezzata, che avesse lacerato la carne, che avesse perso troppo sangue ma fosse, tutto sommato, fortunato. Okay, immagino. Forse quello stesso qualcuno lo aveva smaterializzato al San Mungo. Forse ci si era smaterializzato da solo; impossibile dirlo.
    Ma era lì, all'ospedale magico che strabordava di pazienti con traumi di ogni genere e portata. Era lì, a differenza di tanti altri.
    E nella tasca aveva ancora quella lettera che, nel trambusto finale, aveva completamente rimosso.


    «Lawrence?»
    Non c'è, non è in casa.
    Quale casa?
    Casa non era mai stata un luogo fisico, per il Matheson. Erano sempre state le persone — poche, ma scelte con cura. Selezionate, messe alla prova, promosse; alcune con appena la sufficienza (puoi sempre migliorare), altre col massimo dei voti (non sarai comunque mai la migliore, quel primato è mio).
    Di quelle persone, in quei giorni, non riusciva ad affrontare lo sguardo di nessuno.
    Di uno, perché non sapeva cosa dirgli che non fossero insulti; dell'altra, perché non poteva e basta.
    C'era una persona che voleva vedere, e che voleva prendere a pugni fino a spaccargli ogni fottuto osso del corpo — ma non poteva; temeva che se avesse messo le mani addosso a Wyatt Holland, non sarebbe stato in grado di fermarsi mai più.
    Gli aveva rovinato la vita.
    Sì, era un drammatico del cazzo Lawrence Matheson, ma ne aveva il sacrosanto diritto. Se lo poteva permettere, quando da giorni non faceva altro che osservare la fotografia scivolata fuori dalla busta leggera; una fotografia che aveva fatto tremare e crollare il terreno sotto i suoi piedi. Ogni certezza, e ogni cosa avesse mai pensato di sapere della propria vita.
    Sì, ok, c'era anche la lettera; ma quei “è la nostra seconda opportunità, sfruttala al meglio e non rovinare tutto, puoi ancora guadagnarti la vita perfetta che sognavi” eccetera eccetera erano niente in confronto ad un paio di occhi chiari che lo osservavano sorridendo aldilà della pellicola magica, occhi troppo familiari incastonati perfettamente in un viso che conosceva meglio del proprio — un viso che ricordava più giovane, che solo pochi giorni prima aveva accarezzato asciungando le lacrime con i propri polpastrelli. Un viso che sorrideva felice, genuinamente felice, mentre stringeva al petto un fagotto biondo e con la mano libera richiamava i tre marmocchi che le correvano intorno.
    Un viso che —
    «Posso?»
    Alzò gli occhi dalla foto, e la girò per custodire gelosamente quel segreto che voleva rimasse solo suo. Non dell'uomo che s'era palesato al suo fianco, non di certo della diretta interessata.
    Che, per inciso, continuava ad evitare da giorni come se quello potesse cambiare la realtà dei fatti.
    Sempre che fosse vero.
    Non escludeva ancora che potesse essere uno scherzo dell'Holland, un colpo cosi basso che sembrava un po' eccessivo anche per lui.
    Poggiò le mani sulla foto, su quel retro che non riportava scritto nulla se non un semplice “estate 2030, marocco”; preferiva spiegarlo come uno scherzo, piuttosto che giustificare i protagonisti della pellicola. Serrò il pugno, e alzò lo sguardo su Sinclair.
    «Alla fine hai risolto quel problema?»
    Ci mise un attimo a registrare le parole, a registrare la sua presenza, o a rendersi conto di dove fosse. Riabilitazione, la sessione di fisioterapia. La gamba maciullata. La realtà.
    Non quella raffigurata nella foto.
    Batté un paio di volte le palpebre, cercando di dare senso alle parole dell'uomo, e di scacciare dalla mente qualsiasi altro pensiero.
    Di non pensare al viso di Cherry.
    Al sorriso.
    Alle leggere rughe d'espressione intorno agli occhi.
    Tirò le labbra in un sorriso, provando a renderlo convincente. «Non è mai stato un problema, Doc.» Forse per qualche minuto, qualche ora, quelle che erano bastate a spingerlo a bussare alla sua porta e chiedere un consulto professionale senza alcuna vergogna. «A quanto pare, mi piace e basta.» Eccolo lì, il solito vecchio Lawrence. Lawrence, senza lo spettro di una vita vissuta e dimenticata; senza le parole di Laurie a risuonare nella testa; senza il sorriso di Cherry a prendersi gioco di lui.
    Solo Lawrence.
    O quello che riusciva a permettersi di essere in quel frangente.
    «Difetto di fabbrica, immagino» o pregio? Immaginava che dipendesse dai punti di vista.
    Non che gli importasse davvero.
    Non quando la verità pesava come un macigno sul cuore, e sul grembo, dove riposava stretta nel pugno.
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    Ormai, il fatto che Sinclair avesse l’indole da crocerossina era stato stabilito. Non vi era alcun motivo di fingere che non fosse così, che al vedere il ragazzo chino su quelle sedie un istinto primordiale non lo chiamò all’azione. Non poteva dire di conoscere Lawrence, se non per quel poco tempo che aveva passato nel suo studio, ma si era fatto una blanda idea della persona che doveva essere. Si domandò cosa avesse potuto ridurre in quello stato un ragazzo che era parso così spavaldo, sicuro di sé- ma, in fondo, la guerra doveva aver lasciato le proprie cicatrici su tutti. Lasciò vagare lo sguardo sulla foto che Lawrence stava custodendo, non ci voleva un particolare acume per dedurre che doveva ritrarre qualcuno di importante per lui. Magari, una di quelle cicatrici che ancora faticavano a guarire. «Non è mai stato un problema, Doc» sorrise, il Matheson, più falso di un Giuda. E Sinclair finse di cascarci, perché era più facile per tutte e due, specie quando quello rappresentava un meccanismo di difesa così palese. E l’Hansen curvò le labbra in un sorriso simile, pigro e congeniale, genuinamente divertito dall’epiteto usato dal ragazzo. «A quanto pare, mi piace e basta» e chi era lui per giudicare, che dopo la rottura con Nicole aveva passato innumerevoli notti tra le braccia di un’altra persona, a caccia di un sentimento che sapeva essere inarrivabile. «a ognuno i propri passatempi, di certo non posso giudicare» alzò le mani, l’Hansen, non era il suo compito psicanalizzarlo, e non aveva nessuna intenzione di farlo «alle volte può essere una valvola di sfogo del tutto lecita. se praticato in modo sicuro, certo» stava avendo quel tipo di discorso con un ragazzo più giovane di sua figlia? Sì, certo, ma Sinclair era una persona professionale. Seria, adulta. Era un discorso del tutto naturale, non c’era nulla per cui arrossire e comportarsi come degli adolescenti. «difetto di fabbrica, dici? come mai?» piegò il capo genuinamente incuriosito, tentando di ricostruire pezzo per pezzo l’incognita che rappresentava il Matheson.
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    Si passò una mano sul viso, stanco, e l'altra si mosse di proprio accordo per stringere appena di più i bordi già consumati di quella polaroid, e la ficcò nella tasca della tuta — se non la vedeva, poteva fingere non esistesse, no?
    Tornò a guardare in direzione dell'Hansen, quello stupido sorriso falso – come ogni altro aspetto della sua vita, si rendeva conto in quel momento, non senza un pizzico di ironico divertimento – ancora appiccicato sulle labbra. Sempre lì, la sua migliore arma e la sua miglior difesa, infallibile specialmente (e forse, solo) con dei perfetti sconosciuti.
    «oh no, ma prego» le mani, adesso libere, lo esortarono con un gesto palese e inconfondibile a proseguire, un invito a fare del suo peggio «giudichi pure» a Lance non interessava che fosse positivo o negativo, quel giudizio; a voler essere proprio sinceri, un po' lo intrigava sapere cosa pensasse una figura professionale e certificata come Sinclair Hansen — che poi fosse un uomo con il doppio dei suoi anni e la sua sola presenza stesse titillando la parte unhinged, come dicono i saggi, di Lawrence, era solo un dettaglio trascurabile. Un bonus.
    Tuttavia non bastava.
    Se fosse stato un altro momento, un altro contesto, e probabilmente anche un altro Lawrence, non ci avrebbe neppure pensato due volte e si sarebbe attaccato a quelle parole in maniera diversa, più maliziosa, giocando con doppi sensi e cose rimaste non dette ma esageratamente hintate; era uno dei suoi hobby preferiti, al pari del suonare la chitarra e giocare a dungeons and dragons. Ma quel giorno gli risultava pesante e difficile persino quello.
    Per una misera volta nella vita, non cercava divertimento; gli avrebbe fatto comodo, non necessariamente bene, certo, ma non lo voleva.
    Voleva, invece, solo qualcuno con cui (non) parlare; a cui potesse dire le cose a metà, e comunque far arrivare il messaggio; qualcuno che potesse fornire un opinione distaccata e al contempo professionale su quanto fosse fucked up la sua vita in quel momento.
    Un'opinione, poi, che Lawrence avrebbe ignorato.
    Non parlava della vita sessuale; quella era bellissima e perfetta anche dopo la guerra, non c'erano abbastanza divieti che Cassandra Turner potesse mettere per tenerlo fuori dal Lilum, Law ci sarebbe tornato ancora, e ancora. Ma non era strano che fossero finiti, alla fine, proprio lì.
    Tutto il resto era una matassa fottutamente ingarbugliata che Lawrence non sapeva nemmeno da dove iniziare per provare a sbrogliare. Forse, dopotutto, non voleva così tanto provare a dargli un senso; ma era quasi poetico, e forse persino un po' inquietante, che Sin si fosse materializzato proprio quando, ipoteticamente parlando, Lawrence aveva sentito la necessità di (non) parlare con qualcuno.
    La cosa ancora più ironica? In circostanze simili, ma in tempi meno sospetti, avrebbe parlato con Cherry. E invece! Ora non poteva farlo.
    Anzi.
    Avrebbe potuto, ma non voleva. Non era nemmeno certo che valesse la pena allarmarla, o preoccuparsi davvero, per quanto ne sapeva poteva davvero essere uno scherzo di Wyatt. E allora perché pesava sul cuore come un fottuto macigno? Perché una parte di lui, piccola ma impossibile da ignorare, lo dava già per una verità incontestabile?
    Si morse l'interno della guancia, distogliendo lo sguardo da Sin e portandolo sulla gamba ancora ingessata: la magia faceva miracoli, e ricostruiva le ossa nella metà del tempo rispetto alla medicina babbana, ma la ripresa, gli avevano detto, sarebbe stata lunga. Beh, almeno il tatuaggio della principessa Peach è salvo, aveva pensato il Matheson, magra consolazione dopo aver saputo che avrebbe necessitato di stampelle e fisioterapia per settimane. Un'altra consolazione era quella di pensare che ad altri era andata peggio di lui.
    Uno di quelli, era seduto al suo fianco.
    Era stato troppo impegnato a lanciare maledizioni contro il Telly, a Stonehenge, per rendersi conto che ci fossero anche altri a condividere quel terribile momento con l'elettrocineta. Non chiese nulla, però, perché non erano affari suoi; ma un po' lo stuzzicava la curiosità di sapere come fosse stato.
    Terribile, immaginava.
    E di certo non un problema di cui volesse farsi carico, nemmeno per provare a distrarsi momentaneamente dai suoi. «alle volte può essere una valvola di sfogo del tutto lecita. se praticato in modo sicuro, certo» Ma sì, meglio lasciare che l'Hansen intavolasse conversazioni del tutto casuali sulla vita sessuale del minore, perché no. Un normale martedì nella vita di Lawrence Matheson. «sempre sicuro. sempre» dai, ma per chi l'aveva preso, uno sprovveduto? «dicono ci siano modi diversi per sfogarsi, ma onestamente la violenza non mi hai mai affascinato. e neppure gli sport estremi» due cose che, nemmeno a dirlo, si limitava a praticare solo dietro porte chiuse. «non nella maniera canonica, comunque.» l'angolo delle labbra si piegò appena verso l'alto, sguardo a cercare solo brevemente l'uomo, senza mostrare la minima vergogna, in primis perché non erano certo quelli i discorsi che facevano vergognare il Matheson, e secondo perché avevano già parlato, seppur brevemente, di quelli che Lance aveva ritenuto, erroneamente, essere problemi legati al sesso, non c'era nulla che Sin non sapesse (o non avesse valutato) già. E poi andiamo, erano due persone adulte e vaccinate, non c'era nulla di male ad affrontare certe tematiche; erano il pane quotidiano di Lance!
    «difetto di fabbrica, dici? come mai?»
    Quelli, invece, erano già meno nelle sue corde.
    Si strinse nelle spalle, dando poca importanza a parole uscite direttamente dalla sua bocca ma che non dovevano per forza avere un peso.
    (Ce lo avevano.)
    «Stupidaggini.» Ma in effetti, chi poteva dirlo che non avesse ripreso davvero da sua mamma; magari era qualcosa nel DNA, nel sangue. Non gli interessava nemmeno sapere chi fosse l'altra metà del suo corredo genetico, sapere di Cherry era più che sufficiente. «e "difetto" non è la parola giusta,» fece schioccare la lingua contro il palato, grattando distrattamente la gamba ingessata, «sarebbe più corretto chiamarli... peculiarità. Segni particolari,» nulla di cui ci si dovesse vergognare. «difetto è troppo» derogatory «limitante e poco lusinghiero» due cose che Lawrence non desiderava venissero associate alla sua persona.
    Uno sguardo alle stampelle dell'Hansen, e decise che era il momento di cambiare argomento; dopotutto, quella non era una sessione e Sinclair non era il suo strizzacervelli. Indicó con un cenno le stampelle dell'uomo, e chiese «qual'è la prognosi, doc?» voleva vedere se potesse consolarsi ancora con un verdetto più lungo del suo, perché l'idea di rimanere limitato nei movimenti per altre settimane lo mandava in paranoia, e aveva bisogno di rifarsi un po' godendo della sfiga altrui.
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    Ironico a dir poco, che mentre Lawrence stava avendo la crisi della sua vita, l’uomo accanto a sé stava pensando a cosa preparare per cena. La vita di un adulto qualunque, che anche quando presentato davanti a una tragedia e a un futuro incerto, doveva fingersi ancora funzionale. O meglio, più che cosa preparare per cena, l’Hansen stava pensando oltre. Irrompere al Testa di Porco anche quando la sua presenza era sgradita, seguire la stessa routine di ogni sera con la stessa precisione di una prescrizione medica, soffocare le proprie paure per accollarsi il malessere del fratello. Era il suo casino, e come tale l’avrebbe ripulito. Vi erano anche gli occhi che sentiva puntati su di lui, uno sguardo a cui non aveva saputo dare alcuna spiegazione se non memorie di un futuro distante che non poteva sperare di cogliere. Non era lo stesso uomo che aveva insegnato come gestire i propri poteri a Jekyll, ma avrebbe sempre e comunque esteso una mano verso di lui. «oh no, ma prego giudichi pure» e a questo punto Elisa spera che solo più Pandi stia leggendo questi post, così da poter lasciarsi andare liberamente a determinate considerazioni. L’Hansen era abituato alle formalità, un uomo della sua età e della sua professione non poteva che aspettarselo. Eppure, quando si era trattato di quello che doveva essere un coetaneo di Lawrence, non ci aveva riflettuto più di tanto prima di invitarlo a usare il tu. L’aveva fatto sentire fin troppo vecchio, specie tra quelli che erano compagni di fazione. Non era come Javi o Vince, Sinclair, non era stato tirato su a ordini e rigide gerarchie. Nonostante ciò che aveva invitato Moka a fare, non estese lo stesso trattamento a Lawrence. Thinkin. Lasciò che una risata roca gli solleticasse la gola, per poi ruotare nuovamente lo sguardo sul ragazzo «no, davvero, sarebbe ipocrita da parte mia» meno professionale, quel commento casuale, ma in fondo non si trovavano dentro al suo studio, non più. Non poteva giudicare il Matheson per qualcosa di cui era peccava anche lui. Insomma, chi volesse intendere in tenda, il resto- beh, a fanculo o come continuava il detto. «dicono ci siano modi diversi per sfogarsi, ma onestamente la violenza non mi hai mai affascinato. e neppure gli sport estremi, non nella maniera canonica, comunque» inserire war flashbacks di Sinclair che insegnava a Wren dell’impact play e dell’importanza del consenso del BDSM, per poi passare ad altri ma altrettanti colorati argomenti di conversazione. Quasi si sentiva trasportato in quella foresta. «lawrence, ti sembro qualcuno che pratica sport estremi?» domandò serio, perché davvero dude ma l’aveva visto. Eppure era perfettamente sano! Kinda, dipendeva dalle definizioni. Chissà che sport estremi conosceva il Matheson, sperava non fosse il rafting. E davvero, finse di non cogliere l’innuendo nelle sue parole, perché non poteva permettersi di concedergli troppo terreno. «non canonicamente, almeno» chissà se lo disse davvero, in qualche au sicuramente. Lasciò cambiare argomento al ragazzo, un qualcosa di buono e giusto, dato il livello di disagio che stava iniziando a toccare Elisa «qual è la prognosi, doc?» thinkin parte due, che dire. Davvero, l’unico commento che si sentiva di dare. Ah, che domanda che gli aveva posto Lawrence, dovette mordersi la lingua per trattenersi dall’iniziare un rant medico non richiesto. Certo che si era informato prima di iniziare la fisioterapia, colpa della sua deformazione professionale «l’ossofast ha fatto quello che poteva, ma mi tocca comunque la fisioterapia. sai, cose come esercizi per il recupero del ROM articolare attraverso una mobilizzazione passiva/attiva-assistita che prevede dorsiflessione del piede, circonduzione del piede, prono/supinazione del piede, flessione plantare del piede» grazie fisioterapiaitalia.com - si era lasciato prendere la mano, vero? A giudicare dallo sguardo perso di Lawrence: sì, e di brutto. Ogni tanto si dimenticava che non tutti parlavano la sua stessa, elementare lingua «scusa, sono affascinato dalla.....medicina» sì, certo, come no. Preferì deflettere l'attenzione del Matheson con una tattica che funzionava sempre: lasciarlo parlare di sé «come hai fatto a ridurti così? e io che pensavo di essere messo male» haha joke's on him, era messo dieci volte peggio di Lawrence.
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    «no, davvero, sarebbe ipocrita da parte mia»
    Lentamente, Lawrence riportò lo sguardo sull'uomo seduto al suo fianco, osservandolo e considerandolo attentamente. «ci sono cose ben peggiori al mondo dell'essere un ipocrita, non lo sa?» tipo, non so: essere poveri, il primo esempio che gli venne in mente.
    Ma lo accettava, perché un parere gli avrebbe fatto comodo, sì, ma non era necessariamente ciò di cui aveva bisogno al momento.
    (O mai.)
    Non lo sapeva, di cosa avesse bisogno, in realtà.
    Di un Oblivion bello forte, probabilmente; chissà se poteva comprare uno dei guaritori, o degli psicomaghi, o persino uno special!, affinché rimuovessero dalla sua memoria quanto scoperto di recente; voleva tornare a guardare la sua migliore amica senza sentire la terra tremare e cedere sotto ai suoi piedi, portando con sé ogni certezza mai avuta in quella vita.
    Ah, wishful thinking.
    Avrebbe davvero aiutato?
    Sì, ne era abbastanza sicuro.
    Ma voleva?
    No, non necessariamente: gli piaceva essere un po' drama queen e crogiolarsi nei suoi stessi problemi. Aveva ancora tempo per decidere su come muoversi e cosa farne, di quella recente scoperta. Al momento, aveva una conversazione abbastanza interessante a distrarlo.
    «lawrence, ti sembro qualcuno che pratica sport estremi?»
    Batté le ciglia un paio di volte, prendendo nota dei tratti del viso di Sinclair, dell'attaccatura alta dei capelli, le rughe d'espressione intorno agli occhi, e decise che era meglio non dare voce ai suoi pensieri (perlopiù impuri). «non credo risponderò alla domanda.» non smise di osservarlo, però, reputando che non avesse assolutamente l'età per determinati tipi di sport, ma era anche vero che «ci sono comunque un sacco di altri sport più tranquilli, sa? Con i quali si farebbe sicuramente meno male.» tipo, boh, il criquet? Il torneo di burraco? «e comunque,» si schiarì la gola, incrociando le mani in grembo, espressione serafica sul volto giovane e dolce, «parlavo in senso più ampio,» sia mai che non l'avesse capito. «lo sport come metafora, ha presente? o come pratica ricreazionale in camera da letto.»
    Chissà se Sinclair stava solo fingendo di non capirlo, o se fosse davvero il genere di persona che teneva quegli argomenti tabù confinati solo nella complicità del proprio ufficio, e li trattava solo lontano da orecchie indiscrete. Non gli era sembrato così pudico quando avevano affrontato il discorso della satiriasi, tempo addietro.
    Peccato, davvero un peccato, ma Law decise di fargli il favore di stare al suo gioco, qualunque fosse, e lasciar perdere, cambiando del tutto argomento.
    Solo che non si aspettava minimamente un rant del genere, in risposta ad una domanda banale come la sua. Aveva immaginato un “eh, qualche settimana, giorno più giorno meno” e le lamentele di circostanza su come la riabilitazione fosse noiosa e dolorosa, ma non di certo... quello.
    Lo osservò con la più confusa delle espressioni, sguardo vuoto e lontano anni luci, e labbra appena dischiuse. «Devo ammettere che mi ha perso ad “ossofast”», lo informò, in parte terrorizzato e in parte affasciato dal gergo medico (e in parte anche un po' aroused). «scusa, sono affascinato dalla.....medicina» al ché, Law gli rivolse un sorriso, il primo sincero da quando Sin aveva preso posto sulla sedia di plastica vuota accanto alla sua. «si nota,» affectionate e derogatory insieme, era difficile da spiegare. «ma temo proprio di non aver capito granché, e che parlando di attivo e passivo non intendesse proprio la stessa cosa a cui pensavo io, eh doc?» Niente, era più forte di lui: si era trattenuto anche abbastanza, alla fine la sua natura unhinged prendeva sempre il sopravvento. «stessa cosa per il prono e supino» termini che mai avrebbe accostato, come prima immagine, alla fisioterapia. Ma dimmi, elisa, hai cercato di proposito la parte più caotica di fisioterapiaitalia o è un caso hhhhhh ok. Va bene. Lo accetto. «se vuole, può rispiegarmelo in altri termini» e se c'era una sottile nota di malizia, nel suo tono, non sarò di certo io a smentirlo.
    «come hai fatto a ridurti così? e io che pensavo di essere messo male»
    Si strinse nelle spalle, picchiettando sulla gamba maciullata, la stessa nella quale Sergione, in quel del Cremlino, aveva conficcato già un pallottola settimane prima. «uno dei monoliti di Stonehenge mi è caduto addosso, e ha rotto qualche osso» eufemismo del secolo «niente che un po' di sano moto attivo e passivo, prono o supino non possa curare» if you know what I mean!
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    Sapete, arrivava un punto nella vita di tutti dove si fermavano a riflettere sulla propria esistenza e come fossero arrivati a quel punto. Era la stessa conversazione che Sinclair stava avendo con se stesso ora che si ritrovava a discutere di dubbie tematiche con un ragazzo molto più giovane di lui. Certo, non era la prima volta che si sfioravano argomenti simili, ma la volta precedente era stata in veste del tutto professionale. Forse aveva battuto la testa più forte di quello che pensava. «parlavo in senso più ampio, lo sport come metafora, ha presente? o come pratica ricreazionale in camera da letto» se avesse avuto dell’acqua in bocca, si sarebbe soffocato. Lanciò uno sguardo allarmato ai suoi dintorni, sollevato nello scoprire che nessuno del personale avesse sentito. Non era imbarazzato dell’argomento, uno del tutto naturale in fin dei conti, ma era anche una persona con del riguardo verso le orecchie altrui. Senza contare che alcuni di loro erano suoi ex colleghi. Decise di sorvolare oltre, perché sentiva di dover assumere il ruolo di adulto maturo nella conversazione, nonostante Lawrence glielo rendesse impossibile. Stava cercando in tutti i modi di infilarsi sotto la sua pelle e suscitare una reazione, come se fosse un gioco che gli procurava la più grande soddisfazione- e forse era così, i giovani lo spaventavano. Sinclair, da parte sua, doveva ammettere con rammarico che non gli dispiaceva. Forse era stato plagiato dalla magia antica di Abbadon, si sarebbero spiegate molte cose. «ma temo proprio di non aver capito granché, e che parlando di attivo e passivo non intendesse proprio la stessa cosa a cui pensavo io, eh doc?» Sinclair, che era abituato a parlare in gergo medico senza che nessuno vi percepisse doppi sensi: 0_0. Con il senno di poi, doveva ammettere di non aver scelto i termini più consoni a una conversazione già alla deriva da tempo. Era sempre più certo che il Matheson stesse cercando di provocarlo, in cerca di una soddisfazione forse a premere i bottoni giusti sarebbe arrivata prima o poi. Non aveva mai detto di essere un santo. «Stessa cosa per il prono e supino. Se vuole, può rispiegarmelo in altri termini» ovviamente avevo letto porno, ma sorvoliamo. Sinclair passò una mano tra la barba, i polpastrelli ad accarezzarla brevemente- ma cristo santo. Si fossero trovati in un altro contesto, uno fatto di luci soffuse e alcol a scaldare il sangue e il corpo, gli avrebbe mostrato esattamente come rimetterlo al suo posto. Ma non poteva, quindi si limitò a socchiudere le palpebre leggermente, lo sguardo a scivolare brevemente sui lembi di pelle scoperta, o sul quel maledetto neo sul volto che continuava a distrarlo «non lo so, sento che potrebbe essere necessaria una dimostrazione pratica» potevano essere in due a giocare a quel gioco, dopotutto si sapeva che la migliore difesa risultava essere l’offensiva. «Dopotutto, si impara meglio quando si sperimenta qualcosa in prima persona» lasciò cadere il tono di voce, una bolla riservata a loro due dove nessuno avrebbe fatto caso alle loro parole, il busto a sporgersi appena in avanti «gli esercizi per la terapia, ovviamente» ovviamente. Erano fondamentali, specie dopo un trauma come quello che aveva subito alla nascita. «niente che un po' di sano moto attivo e passivo, prono o supino non possa curare» era proprio un demente, ma in maniera endearing e un po' derogatory. Lanciò uno sguardo dismissive alla gamba rotta «conciato così? Starei molto attento, Lawrence, e mi preferirei affidarmi alle mani di un esperto» esperto di medicina, qualcuno che prendesse il suo stato seriamente e che non gli concedesse di svolgere attività troppo estenuanti per il corpo. Appunto, esercizi di fisioterapia attentamente selezionati. Peccato Sinclair non fosse un esperto, ma conosceva ottimi fisioterapisti.
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    Lance non nascose l’espressione divertita nel notare il disagio di Sin, quando il dottore iniziò a guardarsi intorno, forse preoccupato che qualcuno potesse accidentalmente origliare la loro conversazione e farsi una cattiva – ma sarebbe stata anche sbagliata? – idea di lui. Non la rese neppure troppo palese, però, nascondendola dietro un sorriso innocente e un guizzo brillante negli occhi castani, che prometteva un sacco di cose poco innocenti, ma che riservò solo ed esclusivamente all’uomo; non gli disse che gli dispiaceva di averlo messo a disagio – perché non era così –, anche se avrebbe voluto, solo per vedere, e godersi, la reazione dell’altro.
    E invece continuò a fingersi volutamente confuso, sottolineando termini inequivocabili con il candore di una damina ottocentesca: gli mancavano giusto le gote imporporate per l’imbarazzo di aver tirato in ballo un argomento così controverso, e poi sarebbe stato il ritratto del pudore. Non poteva farci nulla, era semplicemente la sua natura quella lì: non c’era conversazione che Lawrence non fosse in grado di rendere sporca e piena zeppa di allusioni. Si divertiva così!
    Il modo in cui lo special stava reagendo alle sue provocazioni, tentando di resistere, poi, non faceva che aumentare il divertimento; Law sarebbe potuto andare avanti per ore, fino a vedere l’autocontrollo dell’uomo sgretolarsi come sabbia asciutta. Aveva già capito che fosse una preda facile, gli era bastata una mezza occhiata distratta mentre era in fila al bancone Lilum per inquadrarlo e farsi un’idea molto precisa di Sinclair.
    (Spoiler: non aveva davvero capito nulla.)
    Attendeva solo il momento in cui avrebbe potuto riscuotere il premio per la sua dedizione e gli sforzi compiuti: lo sapeva che era solo una questione di “quando”, e non di se.
    Era molto sicuro di se stesso e delle proprie capacità, il Matheson, e conosceva perfettamente le armi a sua disposizione; aveva imparato ad usarle sin da giovanissimo, e raramente sbagliava. Sentiva che non fosse lontano dal centrare l’obiettivo anche quella volta — e pensare che, per una volta!, all’inizio della conversazione, quello era stato l’ultimo dei suoi pensieri. Poi Sin aveva iniziato a parlare di argomenti fraintendibili e… beh, Lawrence era solo umano, infondo.
    «non lo so, sento che potrebbe essere necessaria una dimostrazione pratica»
    «oh,» improvviso stupore colorò appena le sue gote, costringendolo ad abbassare lo sguardo sui palmi ancora uniti in grembo, «si sta offrendo?» ogni parola, ogni mossa, e persino il tono di voce, era tutto calcolato dall’ex serpeverde, così come il mostrarsi abbastanza pudico da avere il buonsenso di abbassare gli occhi e non incrociare quelli del maggiore quando lasciava cadere quella velata provocazione nella conversazione, sapendo che avrebbe potuto essere fraintesa — desiderando che venisse fraintesa. Solo dopo qualche secondo di intima riflessione, trovò il coraggio di alzare nuovamente il mento e cercare il viso dell’idrocineta. «per la terapia, intendo.» E nient’altro, ovviamente. «sono disposto a imparare in prima persona, se vuole insegnarmi.» Conosceva poco Sinclair, e nonostante la sostanziale differenza d’età tra i due, Law era più che certo di avere molta più esperienza dell’uomo, in ambito di “terapia”; tutt'al più, le dimostrazioni pratiche avrebbe dovuto essere Lance a darle. Ma agli uomini piaceva credere di avere controllo, no? E Lance era disposto a sacrificare il proprio ego, in determinate situazioni.
    Tipo quella.
    «gli esercizi per la terapia, ovviamente»
    La luce maliziosa nello sguardo lo rese ancora più scuro e profondo, mentre si avvicinava con il busto, per quanto la gamba ingessata lo permettesse, incontrando Sinclair a metà strada. «ovviamente Era assolutamente d'accordo, al cento percento, completamente, mille su mille.
    Mh mh.
    E infatti lo rese palese con quel suo commento sul “prono (e non porno, perché era un bravo ragazzo) e supino; attivo e passivo”, esclamato senza battere ciglio e con la più pura delle espressioni.
    «la giusta terapia è importante», aggiunse, palmi aperti ed aria del tutto innocente.
    «conciato così? Starei molto attento, Lawrence, e preferirei affidarmi alle mani di un esperto»
    «e lei se ne intende, Doc?» parole studiate ma lasciate cadere con semplicità, nonostante il tono di voce e il sorriso morbido potessero suggerire altro — ma solo ad una mente viziosa come la sua, perciò Sin: è anche un po’ colpa tua, sappilo, se vuoi capire qualcosa che Lawrence non sta dicendo. «è abbastanza esperto con le mani?» ancora una volta, non c’era un doppio senso nelle sue parole: ce n’erano mille. Lo sguardo castano non vacillò nemmeno un secondo, ancora fisso in quello altrettanto scuro dell’uomo. «o, non so…» fece una pausa, arricciando le labbra, già triste al solo pensiero, «ha qualcuno da raccomandarmi? qualcuno a cui possa–» mh, come aveva detto Sinclair? «affidarmi Chiedo.
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