Me and the Homies waiting for the post-credits scene

post-q10 | #macfamily [libera]

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    mckenzie hale
    I play dead So that the monsters in my head
    Think that they’ve done their best
    And they can take a rest
    I think that I just might have played this part too well
    Uno dei problemi di esistere come un Mckenzie Hale, era non esserlo tutto il tempo; non sapere come farlo, o non poterlo fare a basta. Altalenante nella sua stessa pelle come il pendolo di Schopenhauer, persistente nell’oscillare fra dolore e noia – o indolenza, nel suo caso. Passava metà del proprio tempo a farsi scivolare le cose addosso perché incapace di afferrarle, e l’altra metà a piangerne le conseguenze in singhiozzi asciutti e notti insonni. Si domandava perché, e si rifiutava di trovare una risposta attiva: accettava che fosse così e basta, e non ci fosse un altro modo per vivere. Che sarebbe passato, con il tempo. Che avrebbe trovato la propria stasi di quiete dove riattaccare tutti i pezzi nel modo giusto, ed allora avrebbe compreso come aprire il palmo e stringere, nella pioggia, tenendo solo le gocce che contavano, anziché farsi inzuppare e non sprecarsi ad aprire l’ombrello.
    Non voleva che lo vedessero così.
    Così come?
    Disperatamente, tragicamente, ed interamente se stesso. Non c’era nulla di quel crollo che non fosse Mac: lo era piangere; lo era scusarsi; lo era supplicare che lo tenessero con loro; lo era non saper esprimere cosa, cosa, facesse così male; lo era non trovare un senso. E chi, chi, con un minimo di raziocinio ed amor proprio, avrebbe mai voluto quello nella propria vita? Perchè poteva essere altro, per un po’. Poteva essere il ragazzo con la mazza che si addentrava in una missione in Siberia senza sapere un cazzo di strategie militari, ma comunque ; poteva essere quello che lanciava oggetti a dei maledetti zombie. sfondandogli il cranio; poteva essere quello che si univa ad una guerra perché qualcuno doveva pur farlo, ma non poteva durare. Come poteva, durare. Ed allora tornava ad essere la bozza di un essere umano che nessuno si era mai preso la briga di concludere. Dimenticato in un quaderno; rivisto anni dopo, la promessa che quella matita sarebbe diventata pennarello, e nuovamente scordato. Non voleva lo vedessero così perché era come svelare il trucco di un gioco di magia, e nel momento in cui si fossero rese conto di quanto banale fosse, avrebbe perso tutto lo stupore iniziale. «Certo che puoi restare, tesoro. Piangi quanto ti va» Ma il punto era quello, no? A Mckenzie non andava di piangere. Non capiva neanche perchè. Voleva credere fosse semplice chimica, che lo scemare dell’adrenalina avesse causato un crollo di tutti i sistemi. Era terribile nascere come creature logiche e razionali, ed essere schiavi dell’intangibile: se avesse potuto afferrarlo, si convinceva, avrebbe potuto fare qualcosa. Drizzare le linee storte, unire i puntini, dipingerci un cazzo di Van Gogh per cancellare la macchia d’inchiostro, non sapeva che cosa. Qualcosa. Ricambiò la stretta di Heather Morrison perché sapeva già di addio, di una di quelle porte spalancate per caso e destinate a rimanere serrate per sempre. In quel momento era sincera, lo sapeva, e non c’era nulla nel bacio soffiato sulla guancia a suggerire che non lo sopportasse, ma Mac avrebbe ripensato a quel momento e sarebbe riuscito comunque a renderlo diverso, leggerci tutto un altro vocabolario. La sua specialità. Così fragile, che perfino nell’istante in svolgimento riusciva a riconoscere che fosse una prima ed ultima volta. Perchè non avrebbe dovuto esserlo? La vita era già complicata senza le complicanze altrui, e l’Hale sapeva di essere esattamente quello: un problema. Una variabile. Un peso ad impedire alla barca di galleggiare come avrebbe potuto, ancorandola a terra.
    Mac tendeva ad isolarsi perché sapeva di infliggersi agli altri come una malattia, e che non sempre, alla presenza di sintomi, fosse in grado di allontanarsi. Era di carne e sangue, alla fine. Di battiti, anche se a saltelli. Non sapeva vivere da solo.
    Magari era giunto il momento di imparare a farlo.
    «se vuoi, continuiamo a parlare di altro per distrarti. Ma se preferisci sfogarti, ricorda che abbiamo sopportato il generale Mort per settimane, e non potresti mai essere peggio di lui» Tenne gli occhi chiusi, perché avrebbe davvero preferito non viversi in quel momento, ma un angolo delle labbra si sollevò comunque verso l’alto. Valutò di socchiudere le palpebre solo per poter guardare il viso della Morrison mentre faceva battute su Mort Rainey, in una squallida tavola calda, per alleggerire Mckenzie Hale: immaginava dovesse essere una visione straordinaria. Heather non era decisamente come aveva creduto fosse; come Heather, aveva voluto credesse fosse. Deglutì, e nel nodo alla gola sentì qualcosa di diverso dalla solita stretta. Un solletico a suggerire affetto, e adorazione, ed un po’ di più, al limite con la venerazione religiosa. Quel tipo di amore puro e ingiustificato che i cristiani giuravano a Dio, e di cui l’Hale aveva spostato chiesa a quel fast food cambiando croce e altare. «con tutto rispetto per il futuro miniftro, mort 2k24» Cedette ad una risata umida e rauca. Cedette perfino all’aprire gli occhi, posati con reverenza sul sorriso della bionda. «mort...rainey» mormorò piano, decidendo di non elaborare: si commentava già da sé, con solo il proprio nome. Non ne sarebbe uscito nulla di lusinghiero nei confronti del Serpeverde, come suggerì lo sbuffò a fior di labbra dell’Hale, ma comunque tinto di qualcosa di incredibilmente vicino all’affetto. In parte ammirazione, perché ci voleva davvero… molto per essere Mort Rainey, ed esserlo sempre. Quasi invidiabile. Stupido e senza senso in qualunque contesto, perfino in guerra, e solo Dio – e tutti gli infermieri del San Mungo – poteva immaginare con quale monologo avesse deciso di sancire la fine della guerra.
    Gli mancava quasi.
    Un pensiero che bastò molto in fretta a fargli sparire il sorriso, sostituendolo con sopracciglia corrugate ed un rapido sfarfallare di ciglia. A suo favore, era davvero molto stanco.
    Prese marginalmente nota del fatto che Corvina si fosse alzata, ma non lo sfiorò neanche per un istante che la ragazza l’avesse fatto per andarsene. Sapeva non fosse quel tipo di persona: se avesse scelto Mac fosse troppo patetico, gliel’avrebbe detto e basta - magari l’avrebbe anche colpito, più o meno forte. Fu però sorpreso quando fece il giro del tavolo e si posizionò alle proprie spalle, le braccia su di lui e la guancia contro la sua testa.
    Oh. Ogni muscolo fino a quel momento si sciolse, facendolo affondare sul divanetto e maggiormente nella stretta dell’altra. Quando chiuse gli occhi fu per sentire tutto, piuttosto che non togliersi dall’equazione. Sapeva di addio anche quello, e Mac lo sapeva, ma scelse comunque di prendersi tutto, almeno per quel momento. Strinse di più la mano di Heather sollevandola per portarla sul proprio cuore, e chinò il capo non per nascondersi, ma per posare un bacio sul dorso di Corvina. Non gli capitava spesso di sentirsi… accettato.
    Forse perché non aveva mai permesso a nessuno di farlo.
    Quasi, nessuno.
    « Mah, figurati se ti cacciamo, ti abbiamo già adottato... tira fuori tutto, Musetto... »
    Oddio. Strizzò le palpebre, ma non bastò ad impedire la nuova ondata di lacrime. Più lente, però; più dolci, più un arrivederci. Un andrà meglio. Il pendolo a scendere per cambiare zona, ed esitare al centro dove tutto andava bene.
    Nulla andava bene.
    Ma andava bene comunque, perché il contrario non era contemplabile.
    «grazie» un bisbiglio, ma il più onesto che possedesse. Nudo, strappato da tutto, gonfio della venerazione che provava nei confronti delle donne al suo fianco. «scusate» d’obbligo, ma a cui aggiunse il fantasma di una risata. «mi dispiace» arricciò il naso, perché il dispiacere per aver chiesto scusa era un circolo che non sapeva come fermare. Si schiarì la voce, un paio di volte.
    Poteva sfogarsi.
    Non voleva, però. Non era sano, e non gli avrebbe fatto bene, ma non voleva. Non in quel momento. Soffiò piano, però, che «ho sentito che al san mungo ci sono psicomaghi molto bravi» sillabato lettera per lettera, a concludere ufficialmente la discussione. Una promessa, a se stesso più che a loro, che avrebbe cercato aiuto in qualcosa che non fossero l’alcool o le droghe. Magari non il giorno dopo o quello successivo, ma… l’avrebbe fatto. Doveva solo uscire dalla mentalità con cui era nato e cresciuto.
    Un gioco da ragazzi.
    «dovremmo comprare delle caramelle alla cassa. Per adrian» un sorriso sulle labbra dell’Hale – sincero, anche se frammentato. «alla menta piperita, ovvio» abbassò il timbro di voce mimando quello dell’uomo, un sopracciglio a scattare verso l’alto ed un’occhiata divertita, ma titubante, alle ragazze.
    Ci stava provando.
    gif code
    2003
    (1903)
    ((2043))
     
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