Me and the Homies waiting for the post-credits scene

post-q10 | #macfamily [libera]

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    Avete mai avuto fame in un momento in cui sembrava assolutamente inopportuno e anticlimatico averne?
    Ecco, immaginate di avere fame dopo essere sopravvissuti a una Guerra Magica e aver visto Abbadon far abbassare il sipario su tutto. Con un certo stile, avrebbe aggiunto Corvina, ma fortunatamente nessuno le ha chiesto un'opinione a riguardo, quindi rimaniamo sereni.
    Qual era la sua recensione finale della Quest 10 della Guerra della Primavera Magica? Beh, si era divertita molto, aveva incontrato persone nuove, aveva ucciso gente e non era morta alla fine del tutto, diciamo che nel complesso le era piaciuta. Una di quelle esperienze che ti spronano a migliorarti sul lungo periodo, anche dopo che sono finite.
    Vorrei dilungarmi in introspezioni e traumi, ma l'unica cosa di cui sentiva il bisogno Corvina dopo essere stata rattoppata da guaritori e medimaghi era un po' di cibo spazzatura.

    Era stata una cosa quasi buttata lì, l'Ultima Notte Prima di Morire al campo con Reggie, Heather e Mac.
    Iniziato come un gioco, per dire, sul ridere.

    "Se sopravviviamo tutti e quattro ci andiamo subito a mangiare hamburger e patatine da qualche parte."

    Il tetro sottinteso che qualcuno avrebbe potuto non farcela, un qualcosa che sicuramente nessuno di loro dimenticava di tenere a mente, a dispetto della speranza o dell'ottimismo che poteva o non poteva esserci a riguardo.
    In un certo senso, era servito anche a sdrammatizzare la prospettiva.
    Però poi erano sopravvissuti davvero.
    Avevano persino vinto.
    « E non festeggiamo? Cioè, non la strage forse, però almeno la vittoria. Il fatto che siamo vivi. » con ancora la divisa strappata indosso, scura di sangue secco e ossidato sul fianco che era ora miracolosamente intonso, Veena si rivolse ai tre compagni di avventure improvvisati assieme ai quali stava camminando. « Ma a parte gli scherzi, ho davvero fame. » qualcuno le avrebbe dato forse dell'insensibile per non essersi fatta chiudere lo stomaco neanche dalla vista di Abbadon che uccideva una ragazzetta a spregio. E avrebbe avuto ragione, ma questi sono dettagli.
    « Chissà se Raggio di Sole dorme ancora. » guardò per un attimo il cielo col naso per aria nel chiederselo. Erano quasi arrivati al fast food non meglio identificato, looking like hell, since they just got back, chissà se avrebbero trovato fila in quei tempi cupi. « Mi siete mancati comunque, là fuori. Tranne Heather, vabbè. » buttò lì infine, con quel tono ridanciano che confondeva un po' le acque sul fatto che fosse seria o meno, ma facendo un cuoricino con le mani verso la bionda.
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    Probabilmente avrebbe dovuto sentirsi in colpa - per le vite rubate, per il mondo che aveva aiutato a creare - invece, camminando per le strade della città distrutto da una guerra civile, fra macerie, oggetti distrutti, e macchie di sangue (dove non corpi abbandonati e mai reclamati), Heather Morrison si sentiva libera come non le succedeva da anni.
    Sapeva di non essere davvero indipendente da Abbadon, non dalla presa che l'uomo (l'essere) aveva e avrebbe sempre avuto su di lei, ma per una sera, una cazzo di sera, poteva tirare un sospiro di sollievo. Se lo meritava, ok?
    Il giorno dopo avrebbe pensato a cosa significava sul serio quel nuovo mondo, avrebbe pensato ai vecchi compagni di scuola a cui Abbadon aveva tolto la magia con uno schiocco di dita cambiando le loro esistenze per sempre, avrebbe pensato a Moka e Jane e gli altri che ora erano come lei, intrappolati, ma più totalmente certi di essere vivi o morti o se stessi.
    Ma non adesso.
    Adesso, voleva essere egoista. Adesso, voleva pensare come uno degli altri soldati di Abbadon, immaginarsi vincitrice, immaginarsi lì per scelta. Faceva un passo dopo l'altro, e si immaginava normale, e si immaginava feroce, si immaginava felice. Era facile farlo, guardando Corvina e Reggie (punto?), e ricordandosi i loro sorrisi alle uccisioni.
    Fra l'altro: non poteva ancora soffiare a Raegan un "te l'avevo detto" riguardo all'aumentare dei diritti per gli special, al fatto che non sarebbe stata fottuta a lungo (non metaforicamente, almeno; letteralmente? Who knows!); purtroppo avrebbe dovuto aspettare il giornale del giorno dopo per quello, o di qualche giorno dopo, ma prima o poi avrebbe preteso di riprendere quella discussione.
    «Mi siete mancati comunque, là fuori. Tranne Heather, vabbè»
    «È regola non scritta che io debba mancarvi sempre comunque» si passò la mano fra i capelli, un tentativo come un altro di essere drammatica o di sistemarseli. «il nuovo motto del ministero sarà più Heather per tutti »
    Guardò di sottecchi Mac, passando col braccio per cingergli il fianco.
    "com'è andata là fuori a voi due?" avrebbe potuto chiedere, per continuare la conversazione.
    Ma non lo fece.
    Aveva visto contro chi avevano dovuto combattere Mac e Reggie, e non credeva si fossero divertiti granchè. Lo scopo di quella rimpatriata non era certo deprimersi. Non pensava fosse una buona idea fargli pensare alla battaglia, a quello che era successo mentre non erano insieme. La guerra era una merda, e checchè ne sapesse lei, anche Mac come Heather voleva fingere la cosa non lo avesse toccato granchè.
    «oh!» disse d'un tratto la bionda «Il wizburg sta davvero ancora in piedi, assurdo» lo indicò sorridendo.
    Ed era aperto.
    Era proprio vero che in guerra i ricchi si arricchiscono e il capitalismo fiorisce. Chissà quanti locali avevano dovuto chiudere, ma la catena di fast food? Quella no - per loro fortuna.
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    mckenzie hale
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    Premette la lingua sul palato, rompendo la crosta croccante della patatina e disfacendola senza morderla. Deglutì la purea ancora intera, con tutti i pezzi affilati a graffiare la gola. Appiattì il resto in bocca, perché il coraggio di masticare non lo aveva, e di non farlo neanche.
    Magari, se si fosse mosso piano. Molto piano. Disturbando la superficie dell’acqua solo il necessario per farla tremare. Magari sarebbe rimasto tutto uguale. Magari lo tsunami devastante non avrebbe raggiunto la sua spiaggia. Magari poteva rimandarlo ancora un po’.
    Capo chino, e sguardo distante. Strofinò il polso sul legno del tavolo per togliere il segno della goccia scivolata involontaria dalle ciglia bionde. Mormorò uno «scusate» così basso, che forse non lo fece affatto. Respirò piano, maledettamente piano, perché il fiato arrivava sempre ad un punto preciso in cui si bloccava e saltava facendolo sussultare. Stupidamente. E quando lo sputava fuori troppo veloce, sperando che liberandosene potesse riprovarci e farlo meglio, gli occhi bruciavano e doveva spazzare un’altra lacrima dal tavolo del wizburger. «scusate» Meccanico, atono. Un mormorio sottile a sgusciare dalla crepa che sentiva al centro del petto, ad allargarsi ed ingoiare tutto il resto. Lo stesso nulla della faglia. Un identico vuoto. Non era manco affamato, quell’abisso lì: prendeva quel che c’era intorno solo perché attratto dalla forza di gravità. Passivo. Incapace di fare altro se non rimanere a guardare.
    Come lui.
    Chiuse gli occhi e sentì le palpebre tremare ancora. Se avesse potuto rimpicciolirsi di più, su quella panca, l’avrebbe fatto. Sparire nella carta unta delle patatine fritte aperta di fronte a lui; nella voce di Corvina, nel braccio di Heather posato vicino al suo, nella curva delle labbra di Reggie. Se teneva gli occhi chiusi, poteva fingere di poterlo fare. Di averlo fatto. Potevano tenerselo incastrato in quel bugigattolo come un segreto nascosto al mondo, ridendo della loro vittoria come se la fosse stata e ne fosse valsa la pena.
    Magari era davvero così.
    Mac non era obiettivo. Avrebbe dovuto, ma non poteva. Si ripeteva la parole scelte e cosa c’è di diverso dall’Azerbaigian; si diceva non sono stato io, e quella era forse la menzogna più vera di tutte: perché poteva crederci, di non essere stato lui, ma era come l’avesse fatto. E se poteva cascarci con il raziocinio, non ci credeva dove contava di più, in una coscienza ed una morale deturpata da tante cose che aveva cercato di lasciare integra sulla punta. Almeno in quello. Di principi ne aveva pochi e sempre meno, l’Hale. Era partito con centinaia di ideali, e li aveva visti cadere anno dopo anno, vita dopo vita. Aveva vent’anni ed ormai gli bastavano entrambe le mani per contarli; forse una e qualche dito. Le stesse mani che strofinava sul tavolo bagnandole nell’ennesimo scusate, che sfregava fra loro cercando di liberarsi dal sangue. Che strizzava sperando di non sentire.
    Voleva dirlo e non sapeva come. Non voleva dirlo perché sapeva esattamente come, e non poteva perdere la risata cristallina di Veena e la stretta della Morrison alle spalle. Non poteva perdere io e te? perché anche se non serviva a salvarlo come naufrago, lo accompagnava come un miraggio.
    Ma Dio. Dio.
    Mckenzie Leighton Hale aveva davvero creduto fosse la cosa giusta da fare. La migliore.
    Mi credete?
    Era stato facile finché i soldati nemici non li aveva conosciuti. Di loro aveva potuto immaginare il peggio, lasciarsi cullare dalla beata ignoranza. Pensare un po’ quello che preferiva. Crudele, ed incoerente - lo sapeva. Lo sapeva.
    Ed avrebbe dovuto essere uguale.
    Non lo era.
    Faticava a comprendere come scorresse il tempo, a rimontarlo in un ordine che non fosse casuale. Tornava tutto a frammenti, anche quando credeva di non star pensando a nulla.

    Hunter Oakes che si pugnalava al petto.
    Gli sembrò di sentire le grida di Halley e Nicky, ed alzò colpevole lo sguardo oltre le proprie spalle.
    Un battito di ciglia. Due. Mi credete? Ricordava i cartelloni con su scritto che Hunter, in sala comune, non ci potesse entrare, perché aveva vestito i colori rosso-oro alla partita contro i Corvonero. Ricordava di averlo trovato assurdo e divertente; che per Harper avrebbe fatto lo stesso, e che per il sorriso di Halley nel vedere il fratello sugli spalti, ne fosse valsa la pena. Ricordava Mac?! Tutto ok? Vuoi… parlarne? Ti sta minacciando? Sei sotto imperio? Dai, siediti qui, ti faccio un po’ di spazio. che era stato assurdo, e divertente, e perchè si era preoccupato per lui quando non gli doveva niente?. Un concetto ancora astratto per Mckenzie, qualcosa di cui continuava a stupirsi, perché certe ferite rimanevano aperte indipendentemente dalla quantità di cerotti a tenere stretti i lembi della pelle. Che qualcuno si interessasse; che allungassero una mano verso di lui. Costantemente. Che esistessero al mondo persone in grado di essere gentili perché potevano, e non perché dovevano. Perchè sceglievano di esserlo.
    Scelte.
    Mi credete?
    Capace solo di fare quelle sbagliate, perfino quando drizzava le spalle, respirava profondamente, e si dicesse che quella fosse la volta giusta. Che avrebbe smesso di basta provarci, Mac ed avrebbe realmente reso il mondo un posto migliore. Una volta. Chiedeva solo una volta.

    Spezzettò un altro pezzo di patatina con le dita. Lo spinse fra i denti e non morse.

    Il crack del collo di Rebekah.
    Lei che non aveva perso tutto. Che ci aveva creduto, e ci credeva ancora. Una scintilla nello sguardo che l’Hale le aveva invidiato anche quando si era spenta, e non perché avesse fatto la scelta giusta, ma perché avrebbe voluto essere in grado di illuminarsi allo stesso modo. Per qualcosa. Qualsiasi cosa. Invece non ricordava neanche più quando avesse smesso di sentire. Sentire e basta. L’inizio di quella guerra? La Siberia? Tottington? Gli esami? Bodie?
    Il boato ed il sangue, tutto quel sangue.
    Mac aveva di nuovo sedici anni, era ad Hogwarts. Il suo primo passo nel nuovo secolo, con ancora il 1919 incollato sulla pelle. Aveva sedici anni, ed Heather Morrison era morta, e Barrow Skylinski era morto, e Floyd Villalobos era morto, ed Erin Chipmunks era morta, e lui non aveva capito il gioco, ed aveva stretto la mano della sorella nella propria fino a sbiancare le nocche. Guardato le lacrime sul volto di Bucky senza comprendere. Il cuore a battere sulla lingua ed il rame a spandersi sui denti. La testa a vorticare e tutto quel sangue. Sui vestiti ed i polpastrelli.
    Era stato lo stesso a Stonehenge, ma non c’era stata Harper, e Mac non aveva fatto niente e basta, perché aveva di nuovo sedici anni ed erano tutti morti. Occhi spalancati. La caverna. Bocca dischiusa. Gli spuntoni. Lo sguardo a cercare qualcuno. Non c’era nessuno. Più terrificante, perché quelle persone le conosceva. Perchè aveva voluto essere quello grande ed indipendente che manteneva le distanze, ed invece finiva sempre per arrotolarsi sul dito ogni gesto gentile e riguardarlo sorridendo quando si sentiva solo. Per ricordarsi che al mondo qualcosa di buono ci fosse. Rendeva quei fili anelli e promesse, come se fosse mai stato in grado di mantenerne una. Incapace di concedere fiducia, ma disposto a lasciare un pezzo del proprio cuore anche a chi non lo chiedesse. Supplicando, anzi, che potessero tenerlo. Nascondendoglielo nel taschino così che non dovessero neanche guardarlo, o sapere ci fosse.
    Una cosa solo sua.
    Mi credete?
    Reggie – dov’era Reggie. Nicky – dov’era Nicky.
    Dominic - ? Hunter e Halley? Arci?
    Moka – dov’era Moka.
    Un passo, e la gamba a cedere. Sopracciglia corrugate. Sguardo abbassato sull’osso sporgente.
    L’aveva toccato e non aveva sentito nulla, perché Mac aveva sedici anni, era ad Hogwarts, ed erano tutti morti. Un respiro, due respiri, ed al terzo aveva aperto gli occhi perché aveva vent’anni, era a Stonehenge, e non erano ancora morti, ed allora aveva preso marginalmente nota dei corpi.
    Tanti.
    Turo?
    Respira. Battè le ciglia e respira, Mac - un monito a se stesso, tinto dal conforto del sollievo sul viso di Costas. Gli Oakes e Nicky erano insieme. Dominic ed Isaac. Adrian Corvina ed Heather. Il terreno a tremare ancora. Tentò un passo, si fermò, abbassò lo sguardo su Mort e pensò che il Serpeverde dovesse trovarsi degli amici. Lo afferrò comunque dalla divisa, trascinandolo lontano da chi morto lo era davvero. Si assicurò perfino che respirasse ancora – esitando appena, perché non voleva saperlo.

    Deglutì a vuoto. Un paio di volte, per essere sicuro. Fece scivolare le dita fino al bicchiere di carta del fast food, premendole sulla superficie per non sollevarle e vederle tremare. Una visione che avrebbe volentieri risparmiato a Corvina ed Heather, potendo; che se fosse stato in grado, se solo ne fosse stato in grado, Reggie non avrebbe mai conosciuto. La sua versione peggiore; quella reale, per intenderci. Che non meritava nessuno. Quella che teneva stropicciata sotto il cuscino su cui non dormiva, Mac e che teneva per quando poteva fissare il soffitto ed ammettere a se stesso che fosse stanco. Quando soffiava a se stesso che avesse bisogno di morire, e si ricordasse che non volesse farlo. Avvicinò la bevanda a se spingendola delicatamente per non rovesciarne il liquido. Lasciò una scia umida di condensa sul legno; passò il polso anche sopra quello.

    Lo sguardo di Moka.
    Ad occhi chiusi. Occhi aperti. Mckenzie tornava sempre e comunque a quel momento. La mano del Telly a premere sul fianco ferito, il braccio libero avvolto alle spalle di Cherry. L’espressione dolorante, lo sguardo a cercare qualcuno e trovare comunque il tempo di posarsi su di lui. Ma perché. Perchè non aveva potuto odiarlo e basta. Perchè nel momento in cui l’aveva visto dall’altro lato, dopo la Siberia e le pistole ed i sorrisi a labbra chiuse, non aveva semplicemente potuto decidere che fossero troppo diversi e non fosse più affar suo. Che non lo conoscesse affatto. Non era stato molto, solo un’occhiata. Ma c’erano una trentina di persone, e Moka aveva comunque guardato anche lui, e - mi credete?

    Sfregò la guancia sulla spalla, imperterrito nella propria litania. Era solo aria soffiata dalla bocca dischiusa, senza voce. La bocca a muoversi verso le ginocchia. Stavano parlando di altro, le ragazze; non avrebbe saputo dire di cosa neanche se ne fosse valsa la sua vita. «scusate» e guardò le bollicine chiare della bevanda a sfrigolare in superficie. Strinse le dita sulla carta e riempì i polmoni con lentezza.
    La cosa giusta. Per una volta. Solo una.
    Sapeva che Corvina stesse parlando perché sentiva la sua voce, e sapeva che qualcuno avesse perfino risposto, ma le sue orecchie ronzavano di -

    «ma potremmo essere dalla stessa parte. Non è troppo tardi»
    Dio ci pensava e ci pensava e ci pensava e.
    Avrebbe potuto andare diversamente. O magari no, ma avrebbe saputo di averlo fatto per qualcosa e ne sarebbe valsa la pena. Avrebbe saputo di averlo fatto per qualcuno e se lo sarebbe fatto bastare. Non era troppo tardi finché troppo tardi lo era stato.
    L’Hale stava ancora guardando quando le piante avevano iniziato ad avvolgersi sui maghi. Seduto per terra, ginocchia al petto, mani arrotolate alla divisa. Gli occhi li aveva chiusi dopo, quando non c’era stato più niente da guardare. Quando anche l’idea di vedersi riflesso sul viso di qualcun altro era diventata troppo. Molto dopo. Arci l’aveva visto sanguinare, e cadere a terra. Bells. Hunter e Halley. Bertie. Erisha Byrne. Neffi. Mi credete?

    Usò l’acqua della condensa per lavarsi le mani. Piantò le unghie sulla pelle e trascinò fino a sentirne il bruciore, che magari se avesse graffiato abbastanza da sanguinare sul serio, avrebbe smesso di vedere il sorriso del nuovo (ex) capitano della squadra dei Corvonero all’ennesima ramanzina del Moonarie. Mise la cannuccia in bocca per fare qualcosa.
    Non bere. Ne aspirò un sorso e lo tenne sotto la lingua, occhi ruotati alle luci al neon del locale.

    «non sono bellissimi?»
    Ci aveva davvero creduto, Mac. Che fosse la cosa migliore, unirsi a Lamovsky.
    Loro gli avrebbero creduto?
    Un atto di fede. Un salto ad occhi chiusi. Perchè l’Hale nella vita non puntava ad essere l’eroe, ma ad essere migliore di se stesso sì. Si lasciava ispirare da Hunter, che una mano l’aveva allungata anche quando l’aveva ferito, e da Arci che gli diceva non fosse troppo tardi, e da Moka che anziché prenderlo in giro gli diceva che la sua mazza fosse forte, e da Ptolemy che gli aveva dato il suo maledetto numero di telefono e gli aveva insegnato a sparare e - ma perché. Perchè in Siberia non l’aveva semplicemente accettato come il caso umano del gruppo. Perchè anziché allontanarlo se l’erano tenuto stretto. Ma perché. Lui che con loro non c’entrava nulla, sempre con i motivi sbagliati. Fuori tempo. Le scelte sbagliate. Da tutte le vite.
    Per una volta. Una sola.
    Aveva imparato e l’aveva usato contro di loro. Danno e beffa. Ed ecco cosa succedeva a dargli fiducia, ed ecco cosa capitava quando gli si dava un’opportunità.
    Spariva per mesi. Uccideva persone.
    Mi credete?
    Magari sì. Magari l’avrebbero fatto. Magari lo sapevano già. Magari non aveva importanza.
    Ma Mckenzie in quella radura aveva nascosto il viso nella divisa e non l’aveva più rialzato.

    «stai facendo un ottimo lavoro»

    La voce di Ptolemy incastrata nelle orecchie, anche quelle a ripetizione.
    Sembrava un’altra vita. Erano passati solo due mesi. Sembrava il giorno prima.
    Smise di strofinare i polsi sul tavolo ed osservò solo le gocce espandersi e prendersi gioco di lui.
    Non sapeva che farci – con se stesso, con quelle lacrime, con l’attacco di panico che ancora gli attorcigliava il petto impedendogli di respirare. «scusate» si schiarì la gola ed alzò la voce. Di poco. Pochissimo. Abbastanza da farsi sentire ed odiarne ogni momento. «non -» cosa. «io -» cosa. Dondolò veloce le gambe sotto al tavolo, sentendo il cuore sulla lingua.
    Scusate se esisto nel modo peggiore.
    Per una volta.
    «Stai facendo la cosa giusta»
    Una sola.
    «Sei stato coraggioso. Sei coraggioso»
    Mezza.
    Mckenzie Leighton Hale avrebbe voluto -
    «Sono fiera di te.»
    Fosse vero.
    Mi credete?
    Pensò di chiedere a Corvina se volesse una delle sue patatine.
    Pensò di domandare a Reggie cosa avesse ordinato.
    Pensò di offrire ad Heather la confezione ancora sigillata della propria salsa.
    Pensò tante cose.
    Poi alzò il capo ed il movimento fece collassare l’argine delle ciglia, facendo scivolare gocce salate sulle guance; immaginava fosse tardi per proporre di prendere un hamburger in più. Drizzò le spalle e si impegnò a non far tremare la voce. Continuò a non guardare nessuna delle tre.
    «scusate»
    Battè le ciglia.
    «posso -»
    Deglutì.
    «comunque -»
    Alzò gli occhi al soffitto.
    «rimanere con voi?»
    (vi prego non mandatemi via)
    «la smetto»
    (non posso andare da nessun altra parte)
    Aprì la bocca e la richiuse.
    «la smetto»
    Di provarci. Nessun altra volta.
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    2003
    (1903)
    ((2043))


    Edited by mcscuse me - 4/6/2023, 04:22
     
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    Non se ne accorse immediatamente.
    Sorrise a una battuta, rise quando per la stanchezza rispose con una cosa assolutamente senza senso a una domanda di Veena- ma poi lo notò, ovviamente. Non interruppe il discorso subito per non metterlo in imbarazzo, limitandosi piuttosto ad allungare la mano e prendere sotto il tavolo quella di Mac, accarezzando leggera col pollice il suo dorso.
    Non voleva ignorarlo, o almeno non in modo meschino: non era solo capace a gestire certi sentimenti. O i sentimenti in generale. Punti malus il fatto che fossero appena stati congedati da una guerra a cui erano andati tutti e quattro per le ragioni sbagliate! Che fosse creare caos, spirito di sopravvivenza, o essersi fatto l'idea sbagliata.
    Non erano le persone giusto per rassicurarlo che tante persone erano morte, ma era stato per una giusta causa. Che suoi amici avevano perso la loro magia, ma se l'erano meritato. Che altri avevano perso la propria libertà, ma almeno erano vivi.
    Heather non voleva pensare alle conseguenze delle proprie azioni, ma non era per quello (per paura di finire mentalmente nello stesso stato) che non sapeva cosa dire ad un Mac.
    Che per quelli come lui, la guerra faceva schifo a prescindere dalla vittoria? Che avevano aiutato un mostro, ma era inevitabile? Che Abbadon avrebbe vinto lo stesso, probabilmente, ma almeno ora sarebbero stati nella posizione di aiutare chi amavano?
    Non aveva consolazioni adatte.
    «scusate»
    «va tutto bene»
    «scusate»
    «non ti preoccupare»
    Si voltò a soffiargli un bacio sulla guancia salata. Con la mano libera, gli allungò altri fazzoletti puliti. «Certo che puoi restare, tesoro. Piangi quanto ti va» Già sapevamo l'avresti fatto.
    Lanciò un'occhiata a Reggie e Corvina, un sorriso leggero sulle labbra nel cercare di capire cosa ne pensavano. Dubitava che loro si fossero aspettate un Mac diverso, dopo tutto quello. Se non altro, per lo stress accumulato dopo tutto quel tempo in battaglia.
    «se vuoi, continuiamo a parlare di altro per distrarti. Ma se preferisci sfogarti, ricorda che abbiamo sopportato il generale Mort per settimane, e non potresti mai essere peggio di lui» con un sorriso, si baciò due dita per portarle al cielo «con tutto rispetto per il futuro miniftro, mort 2k24»
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    Ormai lo avrete capito, ma Corvina non era proprio un asso di empatia. Non dico livello i am an empath meme ma davvero pericolosamente vicino. E per quanto fosse mentalmente pronta alle reazioni del suo prossimo dopo venticinque anni di vita vissuta a contatto della gente più disparata, reagire correttamente era proprio un altro paio di maniche.

    Quando Mackenzie scoppiò a piangere, fu come veder scoppiare improvvisamente una grossa bolla attorno alla propria testa, per Corvina.
    Più di una volta nel ritrovarsi separati si era trovata a chiedersi come se la stesse cavando lui, in quella guerra. Così evidentemente sensibile e fragile, almeno per gli standard personali di una persona come la Veen che si lasciava scuotere solo dalle forti emozioni, impermeabile alle cose piccole, insignificanti e meravigliose che invece toccavano le corde dell'animo di persone come Mac e che rendevano anche la vita più banale degna di essere vissuta.
    Veena non era mai stata tagliata per la vita nella sua accezione più consueta. Nata nel privilegio, cresciuta nel freddo abbraccio dell'indifferenza da persone incapaci di amare altro al di fuori di sé stesse, non riusciva a sentirsi completa né nel quadro di superficialità e tradizionalismo per cui era stata destinata, né riusciva a proiettarsi in un futuro dalle docili tinte pastello, di quelli che ti facevano ambire alla felicità compelta e poi ti lasciavano ad accontentarti di quello che riuscivi a tenerti stretto.
    Mackenzie, invece, lo aveva sempre immaginato molto facilmente a desiderare di ricadere nel secondo scenario.
    Certo, non lo conosceva abbastanza.
    Aveva fra l'altro un grado di umiltà sufficiente ad ammettere che la sua fosse una mera ipotesi.
    Nella sostanza, comunque, tutto immaginava meno che potesse uscire illeso, fisicamente o mentalmente che fosse, da un certo tipo di circostanze... ed in effetti stava cadendo a pezzi davanti a loro all'improvviso tutto assieme, rompendo quell'illusionedi quiete dopo la tempesta che si erano sforzati di creare assecondando la fantasia dello stop al fast food immediatamente dopo la fine di tutto.

    Non vi era disappunto nella sua espressione quando Heather sollevò lo sguardo verso di lei.
    Guardava Mac invece, sguardo un po' stretto, a riflettere un momento su come comportarsi. Lasciò che la bionda parlasse innanzitutto, sorridendo alla battuta finale ma tenendosi accuratamente fuori da quella parentesi dedicata solo a Mackenzie. Solo quando l'altra ebbe finito di parlare, si alzò dalla sua seduta per portarsi alle spalle del ragazzo più giovane e poggiargli leggera gli avambracci sulle spalle e una guancia sulla testa, intrappolandolo delicatamente in quella sorta di abbraccio un po' asciutto ma per niente scevro di affetto fisico.
    « Mah, figurati se ti cacciamo, ti abbiamo già adottato... tira fuori tutto, Musetto... » un luogo comune come un altro che si poteva carpire ovunque: non imbottigliare le emozioni, tira fuori tutto e la vita andrà magicamente per il verso giusto. Non che potesse dire di crederci o meno, lei, che di quel tipo di spettro emotivo non capiva assolutamente nulla, e infatti eccola lì ad offrire quel pezzo di saggezza popolare spicciola come contorno a quell'abbraccio, che a conti fatti le sembrava un'idea più efficace di tante parole.
    Perché volesse consolare Mac?
    Forse perché, a scanso di equivoci sul fatto che il non provare un senso di appartenenza a qualcosa non l'avesse mai turbata, essere parte di quel gruppo, anche se solo per un po', le stava facendo persino piacere.
    E per quanto non avesse la minima idea di ciò che stava facendo, se fosse effettivamente utile o meno, sensibile come un muro di mattoni, cercare di fingere di capire come ci si dovesse comportare in una situazione del genere, con persone da considerare amiche, le sembrava l'idea giusta.
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    mckenzie hale
    I play dead So that the monsters in my head
    Think that they’ve done their best
    And they can take a rest
    I think that I just might have played this part too well
    Uno dei problemi di esistere come un Mckenzie Hale, era non esserlo tutto il tempo; non sapere come farlo, o non poterlo fare a basta. Altalenante nella sua stessa pelle come il pendolo di Schopenhauer, persistente nell’oscillare fra dolore e noia – o indolenza, nel suo caso. Passava metà del proprio tempo a farsi scivolare le cose addosso perché incapace di afferrarle, e l’altra metà a piangerne le conseguenze in singhiozzi asciutti e notti insonni. Si domandava perché, e si rifiutava di trovare una risposta attiva: accettava che fosse così e basta, e non ci fosse un altro modo per vivere. Che sarebbe passato, con il tempo. Che avrebbe trovato la propria stasi di quiete dove riattaccare tutti i pezzi nel modo giusto, ed allora avrebbe compreso come aprire il palmo e stringere, nella pioggia, tenendo solo le gocce che contavano, anziché farsi inzuppare e non sprecarsi ad aprire l’ombrello.
    Non voleva che lo vedessero così.
    Così come?
    Disperatamente, tragicamente, ed interamente se stesso. Non c’era nulla di quel crollo che non fosse Mac: lo era piangere; lo era scusarsi; lo era supplicare che lo tenessero con loro; lo era non saper esprimere cosa, cosa, facesse così male; lo era non trovare un senso. E chi, chi, con un minimo di raziocinio ed amor proprio, avrebbe mai voluto quello nella propria vita? Perchè poteva essere altro, per un po’. Poteva essere il ragazzo con la mazza che si addentrava in una missione in Siberia senza sapere un cazzo di strategie militari, ma comunque ; poteva essere quello che lanciava oggetti a dei maledetti zombie. sfondandogli il cranio; poteva essere quello che si univa ad una guerra perché qualcuno doveva pur farlo, ma non poteva durare. Come poteva, durare. Ed allora tornava ad essere la bozza di un essere umano che nessuno si era mai preso la briga di concludere. Dimenticato in un quaderno; rivisto anni dopo, la promessa che quella matita sarebbe diventata pennarello, e nuovamente scordato. Non voleva lo vedessero così perché era come svelare il trucco di un gioco di magia, e nel momento in cui si fossero rese conto di quanto banale fosse, avrebbe perso tutto lo stupore iniziale. «Certo che puoi restare, tesoro. Piangi quanto ti va» Ma il punto era quello, no? A Mckenzie non andava di piangere. Non capiva neanche perchè. Voleva credere fosse semplice chimica, che lo scemare dell’adrenalina avesse causato un crollo di tutti i sistemi. Era terribile nascere come creature logiche e razionali, ed essere schiavi dell’intangibile: se avesse potuto afferrarlo, si convinceva, avrebbe potuto fare qualcosa. Drizzare le linee storte, unire i puntini, dipingerci un cazzo di Van Gogh per cancellare la macchia d’inchiostro, non sapeva che cosa. Qualcosa. Ricambiò la stretta di Heather Morrison perché sapeva già di addio, di una di quelle porte spalancate per caso e destinate a rimanere serrate per sempre. In quel momento era sincera, lo sapeva, e non c’era nulla nel bacio soffiato sulla guancia a suggerire che non lo sopportasse, ma Mac avrebbe ripensato a quel momento e sarebbe riuscito comunque a renderlo diverso, leggerci tutto un altro vocabolario. La sua specialità. Così fragile, che perfino nell’istante in svolgimento riusciva a riconoscere che fosse una prima ed ultima volta. Perchè non avrebbe dovuto esserlo? La vita era già complicata senza le complicanze altrui, e l’Hale sapeva di essere esattamente quello: un problema. Una variabile. Un peso ad impedire alla barca di galleggiare come avrebbe potuto, ancorandola a terra.
    Mac tendeva ad isolarsi perché sapeva di infliggersi agli altri come una malattia, e che non sempre, alla presenza di sintomi, fosse in grado di allontanarsi. Era di carne e sangue, alla fine. Di battiti, anche se a saltelli. Non sapeva vivere da solo.
    Magari era giunto il momento di imparare a farlo.
    «se vuoi, continuiamo a parlare di altro per distrarti. Ma se preferisci sfogarti, ricorda che abbiamo sopportato il generale Mort per settimane, e non potresti mai essere peggio di lui» Tenne gli occhi chiusi, perché avrebbe davvero preferito non viversi in quel momento, ma un angolo delle labbra si sollevò comunque verso l’alto. Valutò di socchiudere le palpebre solo per poter guardare il viso della Morrison mentre faceva battute su Mort Rainey, in una squallida tavola calda, per alleggerire Mckenzie Hale: immaginava dovesse essere una visione straordinaria. Heather non era decisamente come aveva creduto fosse; come Heather, aveva voluto credesse fosse. Deglutì, e nel nodo alla gola sentì qualcosa di diverso dalla solita stretta. Un solletico a suggerire affetto, e adorazione, ed un po’ di più, al limite con la venerazione religiosa. Quel tipo di amore puro e ingiustificato che i cristiani giuravano a Dio, e di cui l’Hale aveva spostato chiesa a quel fast food cambiando croce e altare. «con tutto rispetto per il futuro miniftro, mort 2k24» Cedette ad una risata umida e rauca. Cedette perfino all’aprire gli occhi, posati con reverenza sul sorriso della bionda. «mort...rainey» mormorò piano, decidendo di non elaborare: si commentava già da sé, con solo il proprio nome. Non ne sarebbe uscito nulla di lusinghiero nei confronti del Serpeverde, come suggerì lo sbuffò a fior di labbra dell’Hale, ma comunque tinto di qualcosa di incredibilmente vicino all’affetto. In parte ammirazione, perché ci voleva davvero… molto per essere Mort Rainey, ed esserlo sempre. Quasi invidiabile. Stupido e senza senso in qualunque contesto, perfino in guerra, e solo Dio – e tutti gli infermieri del San Mungo – poteva immaginare con quale monologo avesse deciso di sancire la fine della guerra.
    Gli mancava quasi.
    Un pensiero che bastò molto in fretta a fargli sparire il sorriso, sostituendolo con sopracciglia corrugate ed un rapido sfarfallare di ciglia. A suo favore, era davvero molto stanco.
    Prese marginalmente nota del fatto che Corvina si fosse alzata, ma non lo sfiorò neanche per un istante che la ragazza l’avesse fatto per andarsene. Sapeva non fosse quel tipo di persona: se avesse scelto Mac fosse troppo patetico, gliel’avrebbe detto e basta - magari l’avrebbe anche colpito, più o meno forte. Fu però sorpreso quando fece il giro del tavolo e si posizionò alle proprie spalle, le braccia su di lui e la guancia contro la sua testa.
    Oh. Ogni muscolo fino a quel momento si sciolse, facendolo affondare sul divanetto e maggiormente nella stretta dell’altra. Quando chiuse gli occhi fu per sentire tutto, piuttosto che non togliersi dall’equazione. Sapeva di addio anche quello, e Mac lo sapeva, ma scelse comunque di prendersi tutto, almeno per quel momento. Strinse di più la mano di Heather sollevandola per portarla sul proprio cuore, e chinò il capo non per nascondersi, ma per posare un bacio sul dorso di Corvina. Non gli capitava spesso di sentirsi… accettato.
    Forse perché non aveva mai permesso a nessuno di farlo.
    Quasi, nessuno.
    « Mah, figurati se ti cacciamo, ti abbiamo già adottato... tira fuori tutto, Musetto... »
    Oddio. Strizzò le palpebre, ma non bastò ad impedire la nuova ondata di lacrime. Più lente, però; più dolci, più un arrivederci. Un andrà meglio. Il pendolo a scendere per cambiare zona, ed esitare al centro dove tutto andava bene.
    Nulla andava bene.
    Ma andava bene comunque, perché il contrario non era contemplabile.
    «grazie» un bisbiglio, ma il più onesto che possedesse. Nudo, strappato da tutto, gonfio della venerazione che provava nei confronti delle donne al suo fianco. «scusate» d’obbligo, ma a cui aggiunse il fantasma di una risata. «mi dispiace» arricciò il naso, perché il dispiacere per aver chiesto scusa era un circolo che non sapeva come fermare. Si schiarì la voce, un paio di volte.
    Poteva sfogarsi.
    Non voleva, però. Non era sano, e non gli avrebbe fatto bene, ma non voleva. Non in quel momento. Soffiò piano, però, che «ho sentito che al san mungo ci sono psicomaghi molto bravi» sillabato lettera per lettera, a concludere ufficialmente la discussione. Una promessa, a se stesso più che a loro, che avrebbe cercato aiuto in qualcosa che non fossero l’alcool o le droghe. Magari non il giorno dopo o quello successivo, ma… l’avrebbe fatto. Doveva solo uscire dalla mentalità con cui era nato e cresciuto.
    Un gioco da ragazzi.
    «dovremmo comprare delle caramelle alla cassa. Per adrian» un sorriso sulle labbra dell’Hale – sincero, anche se frammentato. «alla menta piperita, ovvio» abbassò il timbro di voce mimando quello dell’uomo, un sopracciglio a scattare verso l’alto ed un’occhiata divertita, ma titubante, alle ragazze.
    Ci stava provando.
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    heather morrison
    "Didn't you die?"
    that was years ago dude.
    things change
    Sorrise a Veena, conquistata più di quanto già non fosse dalla sua reazione a Mac, osservandola mentre, tranquillamente, posava la guancia sulla sua testa come una sorella maggiore un po' molesta che però ti ama.
    «Mah, figurati se ti cacciamo, ti abbiamo già adottato»
    Oh, quanto quel gruppo disadattato di soldati sbagliati le facevano sentire la mancanza di un gruppo di amici sinceri, da considerare la 'famiglia che ti sei scelto'; quanto avrebbe voluto potessero essere loro, sebbene capiva fosse un desiderio un po' infantile. Lanciò un'occhiata al cellulare, pensando alla gente che avrebbe dovuto contattare per avvisare che era tornata a Londra. Charles, Stiles, magari anche Phoebe si sarebbe fatta vedere per una serata... Forse Heather non aveva un gruppo di amici che avrebbe dato alle fiamme il mondo per lei - non aveva dei freaks, o dei ben, o dei ca(s)ta, ma non per questo amava o era amata meno dalle persone nella sua vita.
    «scusate. mi dispiace»
    Scosse la testa, le labbra ancora incurvate mentre passava lo sguardo dalla mano che Mac si era portato al petto, trascinandosi dietro Heather, ai suoi occhi umidi. Non gli disse che non serviva scusarsi, perchè non voleva metterlo a disagio e farlo credere fuori luogo; voleva scusarsi? Ok, lo facesse, se lo faceva sentire meglio. Citò invece un grande saggio (ciao sara) «non so se ti scusiamo. Ti facciamo sapere in due o tre giorni lavorativi» Alzò nuovamente l'altra mano, per asciugargli col pollice le lacrime.
    «ho sentito che al san mungo ci sono psicomaghi molto bravi» di nuovo il suo pensiero andò a Stiles «i migliori» confermò, e già sapeva che non ci sarebbe andata. Certe ansie preferiva gestirsele da sola, piuttosto che spiattellarle a sconosciuti che avrebbero fatto uscire in superfice sentimenti che lei aveva accuratamente infiocchettato e nascosto in ripostigli lontani della sua mente. «se ti serve un passaggio, hai i nostri numeri» un passaggio morale, più che fisico, qualcuno che lo accompagnasse dandogli la forza di andare. A volte sapeva fosse quello a servire.
    «dovremmo comprare delle caramelle alla cassa. Per adrian. alla menta piperita, ovvio»
    ridacchiò. Che personaggio - Adrian, ma anche e soprattutto Mac. «prese dalla sua giacca» chi dimentica è complice.
    guardò verso l'uscita. Non sapeva se era tempo di andarsene, ma prima di farlo voleva ricordare all'Hale una cosa importante: «la prossima volta, andiamo in un negozio di caramelle in suo onore» ci sarebbe stata una prossima volta.
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