I don't need batteries to play

preq10| Neffi

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    Era sul divano di casa, Azrael Lovell.
    Dopo un turno straziante, e quindi di conseguenza una doccia rilassante per distendere i nervi, aveva fra le mani una tisana alla valeriana, per calmare il batticuore, non aveva più l’età per certe cose.
    Poteva impugnare un bisturi o fare una diagnosi dura senza pensarci due volte, facilmente.
    Ma impugnare di nuovo arco e frecce?
    Le metteva ansia, le creava una sensazione di disagio non indifferente.
    Aveva saputo dell’annuncio non molto tempo prima,
    ma aveva captato sperandosi di essersi sbagliata, qualcosa dai discorsi dei propri genitori già prima, erano sempre attenti a parlare dinnanzi a lei, e a sua sorella che non consideravano ancora un pericolo quanto lei, era bene attenta a non spifferare i suoi segreti e a non lasciare indizi che potessero portare al suo secondo impiego, quello non legale e non retribuito, ma probabilmente non era così scaltra come aveva pensato di essere perché gli sguardi sprezzanti e i sussurri erano aumentati senza che lei potesse farci nulla.
    Quella guerra era un problema, non tanto per se stessa, ma per sua sorella, se la conosceva almeno un minimo era convinta che sarebbe voluta partire e combattere; come biasimarla, vivere sotto lo stesso tetto dei Lovell era difficile è maledettamente frustante, sviluppare l’ideologia opposta a chi ti costringeva a fare ciò che più aggradava loro invece, era maledettamente facile.
    Ed era per questo che aveva mandato un gufo, il più veloce aveva chiesto in guferia, per mandare una lettera a sua sorella, dicendole di tornare al più presto a casa, senza darle maggiori informazioni.
    perché la posta poteva essere sempre rintracciata.
    Doveva convincerla a non partire, non poteva combattere con lei al suo fianco, come avrebbe fatto? e se le fosse successo qualcosa sotto i suoi occhi? Azrael non se lo sarebbe mai perdonato.

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    Neffi Lovell era contraria ai sentimentalismi.
    Prevalentemente perché in casa sua erano sempre stati puniti a cinghiate, e ne portava le conseguenze addosso come quei tatuaggi che fai da ragazzo e di cui ti penti talmente da uscire fuori con le maniche lunghe anche se ci sono trentasette gradi. E faceva questo, Neffi, il più delle volte - questo o quell'altro accessorio copriva cicatrici bianche che ne fendevano il corpo, ma che per lei non erano vergogna, no: più un ricordo del perché valesse la pena. Di agire da insider, di fare l'equilibrista su funi troppo alte per una ragazzina della sua età. Dicevano le piacessero i giochi di potere tra le quattro mura di Hogwarts - le piaceva dirigere una squadra a piacimento, schioccare le dita e avere gente che obbedisse. Ma non era questo lo scopo, non era questo l'obiettivo. Eppure, coi suoi occhi truccati e lunghe ciglia scure, riusciva a far credere a tutti di sì. E questo le bastava.
    Non era spaventata. Non ancora, almeno. Aveva letto la sua lettera in santa pace, nel buio pesto del dormitorio a notte fonda, controllando fino all'ultimo che neppure Erisha fosse sveglia a guardarla tenere qualcosa di segreto da lei.
    Non aveva fatto alcuna valigia, convinta di soffermarsi poco, in and out like a motherfuckin' thief in casa propria - solo una borsetta rosa e soffice che pareva più un peluche penzolava dal suo braccio sinistro, all'interno cellulare, documenti, sigarette e un paio di bottiglie d'alcol in miniatura: ciò che serviva per sopravvivere, altro che cambi, quelli, nonostante il gusto discutibile della sorella, poteva di certo chiederli a lei. Si accertò in tutti i modi che i genitori non fossero presenti - con la magia, senza magia, ascoltando, guardandosi intorno -, prima di aprire effettivamente la porta d'ingresso, infilando solo la testa nella stanza e avvistando proprio la sorella maggiore e la sua tisanina, che per un attimo la fecero sorridere. Solo un attimo.
    «Dicono che uno xanny aiuti di più, lei che ne pensa, Doc?».

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    «Dicono che uno xanny aiuti di più, lei che ne pensa, Doc?»
    Per prima cosa, le venne un colpo: sua sorella era maledettamente silenziosa, non era la prima volta che le appariva alle spalle facendole perdere diec’anni di vita, fortuna volle che non si fosse rovesciata la tisana bollente sulla pelle.
    Seconda cosa «Nefarious Lovell, mi stai indirettamente dicendo che hai preso ansiolitici senza il mio consenso?» Non solo Azzy era contraria a quel genere di medicine, se non in casi in cui c’è ne fosse davvero bisogno, ma voleva essere avvisata prima che la sorella prendesse medicinali, soprattutto se mandato dai propri genitori, anche lei non si fidava, e preferiva che Neffi si riferisse a lei per le questioni mediche.
    «Lascia perdere, spero di no, non costringermi a farti i prelievi» fece con la mano un gesto come a voler scacciare una mosca, fossero state in un contesto normale avrebbe attaccato col pippone sulle droghe e la dipendenza assolutamente non richiesto, ma aveva altri pensieri per la testa attualmente «non devi partire» sussurrato, perché non si poteva mai sapere in quella casa chi ascoltava, anche le mura avevano le orecchie, ed era sicura che la sorella già sapesse,
    proprio come lei, di quell’annuncio fatto in pubblica piazza poco tempo prima «non puoi, resta a scuola, al sicuro, con i tuoi compagni» non ne era nemmeno sicura, che quello poi fosse un posto sicuro, una guerra era una guerra, non esistevano posti sicuri «Neffi, ascoltami» si pizzicò il ponte del naso con indice e pollice, chiudendo gli occhi, ci stava provando intensamente a convincerla, a non cacciarsi nei guai come stava facendo lei, a tenersi fuori dal contesto della guerra, orribile e
    macabro «non è compito tuo cambiare le cose, sei troppo giovane, hai tanto da fare» da vivere, aveva pensato,
    ma se l’era tenuto per se «ti prego, non partire» ed Azrael non pregava mai nessuno.
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    «Fai il gioco dei nomi con me, Azrael - occhioni paurosamente blu che roteando si guardano il cervello per schiarirsi le idee e sopracciglio biondo inarcato ormai pacchetto incluso. Scosse piano la testa, arricciando il naso in finta breccia al proprio orgoglio, e lasciò scivolare la borsetta giù dal braccio sulla poltrona adiacente il divano, avvicinandosi a falcate accompagnate dal ticchettio degli stivaletti bianchi in ecopelle alla sorella maggiore. Poggiandole le mani dalla manicure impeccabile - tutta artigli di un discutibile rosa confetto - sulle spalle, le lasciò un bacio rosso fuoco sulla fronte senza troppi complimenti, scostandosi poi per sedersi insieme al proprio misero bagaglio delle necessità e accavallando le gambe (s)coperte dalla minigonna dello stesso materiale e colore degli stivaletti. «<b>Non soffro d'ansia», le assicurò, un angolo della bocca a sollevarsi docilmente non senza quel malcelato sarcasmo che non era mai riuscita a tenere lontano da ogni suo discorso. Mentiva, naturalmente. Di certo l'alternarsi di punizioni e minacce genitoriali e viaggetti in sala torture a conseguenza di aiuti e protezioni a qualche special di troppo aveva in fondo avuto almeno un po' d'impatto sulla psiche della Lovell, che tuttavia non gradiva farne alcuna menzione. E infatti neanche stavolta la fece, poggiando la schiena all'indietro e lasciando scivolare i capelli sciolti oltre lo schienale. Socchiuse gli occhi, lasciandosi andare a un sospiro prima di riaprirli e sorridere, con amarezza e un barlume di sincerità che si poteva intuire dal luccichio determinato nello sguardo. «Al sicuro, dici?» ... «sappiamo tutti che non siamo al sicuro lì dentro». Anche la sua, di voce, rimaneva bassa, sommessa. Dei loro genitori nessuna delle due si era mai fidata, dopotutto, e quella sfiducia era chiaramente reciproca. «Se non ci impegniamo noi... chi dovrebbe farlo allora? Abbiamo ancora addosso tutta la furia dei nostri anni, ce lo dicono sempre per un motivo o per un altro». Ancora un sorriso le graziava le labbra ma senza arrivare agli occhi. Sospirò, rimanendo in silenzio per qualche istante ad osservarla. Immobile, come volesse ricordare i dettagli, il viso e l'espressione dell'unica persona che le aveva sempre dimostrato cura, premura, amore. Quella che più di tutte sarebbe stata una perdita se qualcosa fosse successo. L'unica a cui al contrario sarebbe mancata. Sentiva quasi gli occhi bruciare, e li abbassò di riflesso. «Tu ci vai», era un dato di fatto, ammesso in tono quasi arrendevole, e spaventato. «Io... se tu andassi e io non fossi lì con te non me lo perdonerei mai». E non solo lei - anche Kaz era coinvolto, lo sapeva, se lo sentiva. Come avrebbe fatto a starsene buona a scuola, frequentare le lezioni, organizzare qualcuna delle sue attività del cazzo, sapendo che i suoi cari s'erano rimboccati le maniche e stavano sputando sangue anche per la sua libertà? «Piuttosto dovremmo aiutarci».

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    «Fai il gioco dei nomi con me, Azrael?»
    e quando Neffi alzò gli occhi al cielo, anche Azzy lo fece di conseguenza.
    Non per nulla erano sorelle.
    Maledettamente diverse, colori opposti, stili opposti, lineamenti e pensieri uguali: non avrebbe potuto sperare in una sorella migliore.
    «Nessun gioco signorina Neffi, sono molto seria, niente antidepressivi se prima non vieni in ospedale» decisa, categorica, non credeva che la sorella non soffrisse d’ansia, dopotutto crescere sotto il tetto dei Lovell dava i suoi risultati, ma non voleva che prendesse antidepressivi a caso.
    Quando le stampò un bacio rosso fuoco sulla fronte non poté dirle altro se non «che schifo, non so più come dirti di non baciarmi se hai quel rossetto » era chiaramente un dispetto quello della sorella, non contava quante volte le avesse detto che non era professionale per un dottore avere stampati su guance e fronte baci di rossetto, che fossero di sua sorella non contava.
    iniziò a strofinarsi la fronte per togliere quell’alone rosso «Al sicuro, dici?» ... «sappiamo tutti che non siamo al sicuro lì dentro» le si secco la gola, lo sapeva che neffi aveva maledettamente ragione, che non sarebbe stata al sicuro nemmeno se si fosse rinchiusa in un bunker e ne sarebbe uscita a guerra ultimata, ma cosa poteva fare? doveva dirle di buttarsi nel campo da battaglia? guardarla mentre sparava, colpiva persone? «Tu ci vai» un’affermazione «si. » non aveva motivo di mentirle, lo avrebbe scoperto lo stesso «Io... se tu andassi e io non fossi lì con te non me lo perdonerei mai» Azrael sospirò e di poggiò con le spalle al muro, aveva ragione, anche lei avrebbe fatto lo stesso «tu… non esporti va bene?» rassegnata all’idea di vederla in battaglia, un magone sullo stomaco, quasi la nausea, pensò di avere proprio bisogno di uno Xanax «Piuttosto dovremmo aiutarci» Azzy la guardò, rimase un attimo in silenzio per poi dire «come?»
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    «Gne gne gne» soffiò a distanza, dando qualche altro bacetto all'aria con le labbra decorate dal rossetto rosso. Meno acceso, perché metà era finito addosso alla sorella. «È un rosso universale, sai? Ti starebbe bene, dovresti provarlo!».
    Voltandosi alla propria destra aprì la borsetta per tirarne fuori una bottiglia in miniatura di bourbon, incurante del rimprovero che sarebbe di sicuro arrivato dalla maggiore. Tagliò il sigillo con un'unghia affilata e, rimosso il tappo, bevve un sorso. «Vuoi?». La domanda venne fuori senza però alcun gesto delle mani, avvolte gelosamente intorno alla bottiglia. Voleva offrirglielo davvero, sì, ma non rischiare che glielo togliesse.
    Annuì alla sua richiesta. Le andava bene non esporsi. Di solito si nascondeva in piena vista, ma in battaglia non sarebbe stata la migliore delle strategie, probabilmente - nessuno avrebbe dato peso a una bambolina in battaglia, certo, ma sarebbe anche sembrata un bersaglio facile. «Va bene», confermò. Un altro sorriso andò a graziarle il viso, dal quale il colore pareva risucchiarsi pian piano al continuare della conversazione. Aveva desiderato dell'adrenalina, certo, ma il rischio concreto di rimetterci la vita, o che ce la rimettesse qualcuno che amava, non la entusiasmava per niente. Avrebbe davvero voluto costruirsi un bunker. Ma le cose non potevano cambiare da sole. «Munizioni, per esempio», accennò, abbassando talmente la voce da potersi far capire quasi esclusivamente dal labiale. «Io ne porto qualcuna in più per te e tu qualcuna in più per me».

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    «Vuoi?» Azrael alzò un sopracciglio, mise le mani sui fianchi.
    Sua sorella le offriva del liquore in miniatura? a lei che poco prima stava bevendo una tisana alla valeriana?
    Il mondo stava proprio iniziando a girare al contrario se Neffi, quella che la chiamava bacchettona (cockblocker, come te freddino ciao), le offriva del bourbon non «no, e nemmeno tu dovresti» alzò gli occhi al cielo iniziando a camminare, a piedi nudi, in lungo e largo per la stanza, con un dito sul mento, era il suo modo di smaltire l’ansia, e a volte pensare «Va bene», continuò la sua missione nel consumare il pavimento, e sbottonò i primi bottoni del pigiama di raso, sentendo un peso opprimerle il petto e la gola, come aveva già detto non aveva più l’età per queste cose non «seriamente, non fare stupidaggini, non fare niente che io non farei, va bene?» il linguaggio poco scurrile di Azrael non l’abbandonava nemmeno in quei momenti, l’aveva fatto solo in casi estremi , tipo in una delle sue liti con i genitori o in casi particolari al San Mungo. «Munizioni, per esempio» Azzy sospirò e si poggiò al muro, rilassandosi leggermente «lo sai che non le uso, le munizioni» non le sapeva usare, le armi da fuoco, tutto ciò che sapeva fare era scoccare frecce, grazie all’istruzione da ricchi purosangue che i loro genitori le avevano impartito «so usare solo arco e frecce, se non riesco a trovarne uno sono spacciata» e quello l’avrebbe fermata dall’ andare in guerra? certo che no.
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    Vedere la sorella in ansia non era una novità, per lei, ma questa volta la cosa la preoccupava. Non aveva nemmeno il sincero istinto, che l'inglobava come una seconda pelle da quand'era nata, di prenderla bonariamente in giro o farle il verso. Semplicemente, rifilandole una lunga occhiata da sotto le folte sopracciglia biondo cenere, si limitò a continuare a sorseggiare il suo bourbon. Più o meno come fosse acqua nel deserto dopo giorni di cammino sotto il sole. L'osservava quasi di sottecchi camminare in circolo, e questo, a un certo punto, parve tingerle la bocca di un sorriso accennato. Scosse piano la testa. «Non fare niente che io non farei» «Potrei... rimproverare a morte i seguaci di Abbadon», suggerì, quell'aria stupida di sventatezza giovanile attanagliata al suo volto come una camicia di forza. In verità, forse non aveva ancora realizzato, o si rifiutava di farlo. Forse era così abituata al sentimento di costante paura, apprensione, preoccupazione per se stessa e per gli altri da non darvi peso, almeno non quello necessario, quello che avrebbe dovuto. Di certo non aveva intenzione di mostrare alcuna di quelle emozioni ad Azzy, che a quel punto l'avrebbe chiusa in casa e avrebbe trovato anche il modo di toglierle la magia pur di non farla andare.
    «Allora ti tengo qualche freccia in più. E tu mi tieni i proiettili». Terminata la bottiglina la ripose nella borsa come se niente fosse, il gomito puntellato sul bracciolo della poltrona e la guancia appoggiata al palmo, artigli in bella mostra e occhi attenti sulla sorella maggiore. «Di sicuro ce ne sarà più di uno nascosto da qualche parte. Se non qui, a scuola». La voce manteneva ancora un tono basso, ma si faceva più decisa ad ogni parola. «Andrà tutto bene, vedrai», una promessa che non poteva mantenere.

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    «Potrei... rimproverare a morte i seguaci di Abbadon» Ad Azzy venne quasi da ridere, era vero, il suo compito fra le due era quello di essere la sorella maggiore, responsabile.
    Ma quale sorella avrebbe lasciato la sua unica famiglia venire a combattere?
    Neffi era giovane, bella, talentuosa.
    Non avrebbe dovuto prendere parte a quella pazzia.
    Se la parte di se più responsabile reclamava il suo ruolo da maggiore, quasi genitore, l’altra parte di se era consapevole che Neffi non si sarebbe mai fatta abbindolare dalle sue parole.
    Perché lo sapeva, lo sapeva e come che Azzy predicava bene ma razzolava male, e sapeva che sarebbe stata la prima a impugnare il suo arco senza aver paura di morire, o quasi.
    si avvicinò alla sorella poggiandole una mano dietro la nuca, avvicinò le labbra al suo capo, sui capelli, lasciandole un leggero bacio «Ti voglio bene Neffi» la strinse di più, come non aveva mai fatto «sei l’unica famiglia che mi rimane, per favore stai attenta»
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