S.O.S. please someone help me

PREQ 10 | ft. kiel

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    Andava ancora agli allenamenti, malgrado ormai fossero rimasti solamente in due a giocare. Era un appuntamento fisso che Mac prendeva sul serio, una giustificazione per stare insieme ai suoi amici perché non era in grado di mantenere rapporti senza avere una scusa. Giocava con Joey, perché Joey non gli chiedeva niente. Si faceva rattoppare da Kiel, che dei lividi e i tagli freschi sulla pelle pallida non chiedeva niente.
    Lavorava al Ministero.
    Si (faceva picchiare) allenava con Darden.
    Imparava a sparare con Ptolemy.
    Lanciava coltellini (e si faceva colpire) con Olga.
    Non dormiva.
    Mangiava, però.
    Non dormiva.
    E pensava, Mckenzie. Cercava di farlo il meno possibile, ma si guardava allo specchio e pensava che Matthias Hale sarebbe stato fiero di lui. Si vedeva riflesso nel cucchiaio con cui rigirava i cereali, e pensava che Daniel Hale non si sarebbe più vergognato fosse suo fratello. Colpiva il bersaglio, e sentiva la risata cristallina di Careen Hale a dire al figlio quanto fosse forte lo zio. Incredibile come più passasse il tempo, e più l’ex Corvonero tornasse alle origini, dove era iniziato tutto. Più cercava di allontanarsi, di cambiare, provare ad essere diverso, più veniva trascinato al posto che avrebbe dovuto appartenergli sin dall’inizio: quello di un soldato.
    Non dormiva.
    E si ripeteva che non fosse la stessa cosa. Che quella volta, fosse una scelta sua. Che sapesse perchè; che l’avrebbe rifatto. Che ci fossero cause per le quali valesse la pena combattere.
    Non fottutamente dormiva.
    Di nuovo, ed aveva già visto quella storia. Labbra incollate fra loro, sguardo verso il pavimento, spalle dritte e fiato assente.
    Parlava, però.
    Non sempre, ma qualche volta sì. Sorrideva ai colleghi, rimandava l’invito di Nicky e Meh a cena da loro ad una prossima volta, giuro che vengo, che non arrivava mai. Quando gli domandavano come stesse, rispondeva stringendosi nelle spalle, biasimando il lavoro; a chi non aveva bisogno di chiederlo, non diceva nulla. Lo sapevano.
    Non troppo tempo prima Heidrun Crane l’aveva abbracciato e gli aveva detto che avesse sperato una vita diversa, per lui. Mac non gliel’aveva detto, che per un paio d’anni si fosse permesso di sognare in grande e credere di poterla avere. Che capitava, raramente ma capitava, che si svegliasse convinto che da quel giorno, da quel giorno, potesse averla.
    Gli aveva detto che fosse fiera di lui. Non le aveva detto, come aveva fatto con Lena, di ripeterglielo quando fosse stato in grado di crederci: sarebbe morto, prima di spezzarle il cuore.
    Non dormiva.
    Ma a Joni scriveva lo stesso, perché non voleva credesse fosse di nuovo sparito. Sono qui detto in meme poco divertenti, o foto della papera che aveva preso il suo nome, perché essere lì era l’unica cosa che potesse ancora assicurare senza mentire o fare vacue promesse.
    Tipo per quanto.
    Per quanto?
    Coprì gli occhi con l’avambraccio, perché voleva abbastanza bene a Kiel da concedersi e concedergli di prendersi cura di lui anche quando quella dimostrazione d’affetto implicava un sacco di contatto fisico. Platonico, ovviamente, metodico e funzionale, ma solo perché si chiamavano massaggi fisioterapici ed avevano uno scopo, non significava che non fossero mani addosso. Non era un amante del contatto fisico da così tanto, che non ricordava più cosa si provasse a rilassarsi.
    E gli mancava Harper. Ogni secondo di ogni giorno di ogni settimana di ogni mese, come ossigeno ed il secondo -tun del battito nel petto, ma sapeva fosse meglio così: lei poteva girare il mondo con Willow, e lui avere crolli mentali senza sentirsi troppo in colpa.
    Avrebbe dovuto dire al Kane che almeno quel giorno non ne avesse bisogno dei massaggi, ma poi come si sarebbero detti che fossero amici? Comunicando come esseri umani funzionali? Ah-ha ah-ha, no grazie.
    Tutto sommato, una giornata nella norma.
    «non siamo noi quelli contro natura. Non siamo noi ad aver distrutto interi ecosistemi per poterci spostare più velocemente: sono la razza più debole. Abietta. Abbiamo avuto pietà per secoli: non la meritano più. Oggi, amici, demoliamo lo statuto di segretezza. E ci riprendiamo il mondo»
    Vi dirò di più: Mckenzie Leighton Hale non si era neanche alzato a sedere. Ancora coricato sul prato del parchetto dove si allenavano; ancora gli occhi chiusi; ancora a fingere che fosse tutto nella norma, anche quando Abbadon annunciò che si sarebbero ripresi il mondo.
    Che fosse guerra.
    Non dormiva, ma era un soldato.
    E sapete cosa disse, quando fu certo che non si sarebbe messo a piangere e la voce non si sarebbe spezzata? «almeno ha aspettato che finisse l’allenamento. chi lo sentiva, poi, joey» Qualcuno avrebbe perfino potuto scambiare la curva delle labbra di Mac per un sorriso.

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    Kiel Idowu-Kane provava a condurre una vita normale. Semplice, onesta, il più possibile tranquilla.
    Aveva degli amici, e non era scontato per il guaritore. Non era facile, quando a colpire tra capo e collo c’erano i ricordi di quelli che aveva considerato tali per anni e che ci avevano messo meno di niente a voltargli le spalle, chiudere gli occhi e puntare indici accusatori contro la sua figura: il dubbio era diventato in fretta il principio su cui basava ogni suo rapporto, ogni scambio con l’altro, e scegliere attivamente di non farlo richiedeva un quantitativo di fatica che si era ripromesso di non usare per alcun motivo – chiaramente non era andata come previsto, per fortuna. Aveva delle persone su cui sentiva di poter contare, più famiglia loro di quella che l’aveva preso in casa negli ultimi tredici anni; persone dalle quali sapeva di poter andare per qualsiasi motivo, fosse anche soltanto fissare il nulla in silenzio per un’ora consecutiva.
    Aveva un lavoro, sebbene non avesse avuto altra scelta. Amava ciò che faceva, lo aveva fatto prima ancora di essere costretto a seguire quella strada, ma aveva richiesto più sacrifici di quanti non ne avesse mai potuti immaginare. Non era quello che aveva programmato: avrebbe voluto essere su quel campo, insieme a Mac e Joey, anziché seguirli ad ogni allenamento solo per sostenerli e mettere in pratica i propri studi medici; avrebbe voluto entrare in qualche squadra professionista, fare del gioco il proprio mestiere – invece no. Non poteva averne la certezza, ma non poteva essere un caso che quando il suo nuovo avvocato gli aveva assicurato la vittoria in tribunale, un pazzo avesse deciso di maledire proprio lui: era la mancanza di prove contro Sabine ad impedirgli di muoversi legalmente, e la certezza che non potesse vincere contro tutti i suoi agganci – ma sapeva avesse voluto avere lei l’ultima parola. Ma andava bene così, perché in un modo o nell’altro si era rialzato, ed avrebbe continuato a farlo.
    Aveva Dylan, nonostante ancora non riuscisse a perdonarla come avrebbe realmente voluto. Non era stata dalla sua parte quando avrebbe dovuto, nel momento in cui aveva avuto più bisogno di sua sorella – ma ci stava lavorando, e lei con lui.
    Aveva una casa, aveva la libertà.
    Aveva una cazzo di vita tutta sua, costruita a partire dai cumuli delle macerie di progetti e speranze che avevano voluto radere al suolo in ogni maniera possibile ed immaginabile.
    Non osava sognare in grande, il Kane: non era nell’indole di chi aveva dovuto arrancare ogni giorno della propria esistenza, e tutto sommato non aveva nulla di cui lamentarsi. Se non fosse andato tutto storto, probabilmente non sarebbe stato l’uomo che era in quel momento, un sorriso tirato e divertito nel manipolare i muscoli provati di un Hale che lottava con sé stesso per non dare di matto.
    Era felice.
    «avete concesso a delle formiche di occupare tutto il posto che ci spetta? siamo più evoluti. siamo più forti. costretti a nasconderci come – come - come scherzi della natura?»
    Mh.
    «non più. non da oggi.»
    Mmmmmh.
    «da oggi tutto cambierà. sono tornato per riprendere in mano le vostre vite.»
    Alzò gli occhi al cielo, maledicendo sé stesso nel silenzio del boschetto.
    «non siamo noi quelli contro natura. Non siamo noi ad aver distrutto interi ecosistemi per poterci spostare più velocemente: sono la razza più debole. Abietta. Abbiamo avuto pietà per secoli: non la meritano più. Oggi, amici, demoliamo lo statuto di segretezza. E ci riprendiamo il mondo»
    Sospirò, rilasciando poi un’unica nota priva di alcuna emozione od inflessione – apatico, quel «aaaaaaaa.» a seguire il capo che andava a chinarsi sul petto.
    Ma che cazzo.
    Ma che cazzo.
    Ma perché non poteva farsi i benemeriti fattacci suoi, Kiel, e non pensare alla propria felicità? L’universo non era mai stato un alleato al quale affidarsi, e quella non ne era che l’ennesima dimostrazione.
    Sorrise alle parole di Mac, sinceramente divertito – o forse era isteria, la sua: non poteva metterci la mano sul fuoco. «sarebbe stato in grado di farlo fuori.» non molto ironicamente: Abbadon non poteva sapere cosa significasse mettersi in mezzo tra Joey e il Quidditch. Altro che dichiarazione di guerra.
    Si fermò, occhi chiusi e un respiro profondo a gonfiare il petto. «mac?» basta, avrebbe potuto fermarsi lì.
    Ma non lo fece. Non poteva, perché avrebbe significato lasciare che il cervello macinasse più informazioni di quanto non fosse necessario. Se proprio doveva processare, preferiva non farlo nel chiuso della sua scatola cranica.
    «a cosa stai pensando?» doveva essere certo che stessero pensando alla stessa cosa – il che, probabilmente, non era ciò che il suo cuore avrebbe voluto.
    (Mac: 👁️👄👁️)
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    «mac?»
    «mh?» Non spostò il braccio da sopra gli occhi, certo - certo - di non volerlo guardare. Di voler rimanere nel buio forzato delle palpebre abbassate, dove poteva fingere di essere ovunque ed in nessun luogo. Non era un momento propizio per esistere, ed avrebbe davvero voluto potersi mettere in pausa per almeno un decennio o due.
    Pensava anche di meritarselo.
    Forse, era così disperato da accontentarsi di un mese. Un mese consecutivo e pieno di nulla assoluto, svegliarsi senza incubi e perdere due ore della sua vita nel decidere dove ordinare la cena. Non gli sembrava di avere aspettative così alte, no? C’erano persone al mondo che riuscivano ad averlo, quell’assoluto senso di monotonia: non chiedeva gloria ed esaltazioni, solo di essere fottutamente e sacrosantamente lasciato in pace. Manco a vivere, solo in pace. Aveva promesso a se stesso sarebbe diventato una persona migliore, ok? Si presentava a lavoro puntuale, qualche volta cercava perfino di preparare dei pasti commestibili, e si stava addestrando a sopravvivere. Aveva perfino fatto il primo passo, dopo una settimana di tachicardie casuali e vampate di vergogna, contattando Ptolemy al numero scritto sul foglietto. Era… il suo… cazzo di meglio, ok. Il suo meglio.
    Inspirò. Trattenne il fiato cinque secondi.
    «a cosa stai pensando?»
    Non rispose subito. Nulla di quello che galleggiava distrattamente nei pensieri dell’Hale era condivisibile, pregno di egocentrismo e caducità esistenziale, ma cercò comunque di seguirne i fili per offrire al Kane una risposta quanto meno coerente e sensata. Per quanto poco gli piacesse, e per quanto fosse sconsigliato, pensare restava una delle sue attività preferite.
    Terribile. Un incubo costante, rimanere intrappolati nelle ragnatele della propria testa.
    Si schiarì la voce, deglutendo più volte per allentare la stretta alla gola.
    Sono stanco, Kiel.
    Strizzò le palpebre fino a riempire il buio di colpi di luce, ma non c’era speranza nelle stelle dell’ex Corvonero. Arrendevolezza, quella sì. Assoluta mancanza di resistenza, come polline trascinato dal vento a ingarbugliarsi nel primo aggancio disponibile.
    Non dormiva, ma non aveva bisogno di farlo per avere gli incubi.
    «che dovrei farmi i cazzi miei» roca ed appena un bisbiglio, ma almeno era una risposta sincera. Ingoiò a vuoto, grattando la gola con un colpo di petto, spostando il braccio per aprire gli occhi cenere e puntarli sul compagno. «vero?» non era ancora a livello supplica, ma poco ci mancava. Perchè sapeva di non essere addestrato a quello, sapeva che si meritasse una pausa da tutta la merda, per quanto stupido e individualista fosse pensarlo. Perchè alla periferia del suo sguardo ed il cuore, ancora vedeva quei bambini – sentiva quei colpi, e il sangue sulle dita, e
    Annaspò secco.
    «sto pensando che qualcuno resisterà, ma non tutti» mosse le labbra molto lentamente, cercando di non seguire quel pensiero nella sua concretezza, lasciandolo solo astratto. Un dato di fatto, logico e privato delle lacrime a rigare il viso e mani allungate nella sua direzione cercando di stringerlo, e stringerlo, e stringerlo -
    «che – magari - potrei» intervallò ogni parola con un grumo di saliva buttato giù a forza, lo sguardo ora rivolto al cielo. A Dio forse; non avrebbe saputo dire se fosse una richiesta d’aiuto, o di coraggio. Se negli occhi spalancati ci fosse solo la misera domanda ma almeno me ne fotte un cazzo di qualcosa di vivere che continuava a pungere ai margini del suo raziocinio. Lui non ne era certo, ma qualcuno doveva pur saperlo al mondo. «potrei.» corrugò le sopracciglia, labbra strette fra loro.
    Potrei rendermi utile? Non mirava a tanto.
    «vorrei» corresse, senza specificare cosa.
    Forse solo non essere Mac.
    «dimmelo tu a cosa sto pensando» e se non la era stata prima, una supplica, quella di certo lo era.
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    «che dovrei farmi i cazzi miei» onesto.
    E vero, e reale, e colpiva un po’ troppo forte le fragili fondamenta della casa di Kiel.
    Avrebbe voluto sorridere alle parole del compagno di squadra, sardonico e isterico, ma sapeva perfettamente che quella ferita sul volto l’avrebbe soltanto fatto sanguinare; non avrebbe rilassato muscoli e nervi tesi, né tantomeno l’avrebbe potuto divertire in alcun modo.
    Fletté nuovamente il ginocchio di Mac, come se niente fosse stato appena detto e quella di Seth non fosse stata altro che una inutile interruzione pubblicitaria: un movimento meccanico e quasi involontario, automatismi che con ogni probabilità servivano più a lui che non ad alleviare le tensioni dell’allenamento. Mentre il corpo lavorava, la mente poteva fare altrettanto – distaccandosi dalla realtà per qualche istante, mettendo insieme i pezzi di un mosaico che non era stato ancora distrutto ma che il corvonero già vedeva ridotto in cumuli di macerie.
    Pensava, il Kane.
    Troppo, e mai abbastanza.
    Pensava che non fosse giusto.
    Pensava al passato che gli era stato cancellato e manipolato, alle persone che aveva dimenticato e a quelle che erano rimaste incollate nelle pareti del suo inconscio come gomme da masticare sotto ai banchi di scuola.
    Pensava di essere un altruista, ma anche un maledetto egoista; un paradosso che non viveva bene sotto la pelle d’ebano, e che bruciava ad ogni battito nel petto.
    «vero?» sì, assolutamente. Mac avrebbe dovuto farsi i cazzi suoi; con lui anche il guaritore, e probabilmente la metà della popolazione del mondo.
    Non doveva essere necessariamente la loro guerra, quella. Non doveva sedimentarsi nei polmoni, nelle ossa, fottuta calce solida e soffocante.
    «sai,» si schiarì la voce, trovandola secca e gutturale. «stavamo davvero pensando la stessa cosa.» in altri tempi, ne avrebbero sorriso – telepatia tra corvi, unico neurone a rimbalzare da un cranio all’altro, scambi di sguardi che si dicevano tutto senza dover utilizzare stupide convenzioni umane come la parola.
    Ma in quel parco, in quei Mac e Kiel, avrebbe pagato soldi che non aveva per sentire una frase diversa: significava tutto, e significava niente.
    «sto pensando che qualcuno resisterà, ma non tutti.» annuì, anche se non poteva vederlo. Continuò ad armeggiare con la gamba del battitore, una chiaccherata sui massimi sistemi tra terapista e paziente; una distrazione per entrambi, perché forse non pensare era meglio.
    Cercò di stare dietro ai pensieri sconnessi del ragazzo, inseguendoli come farfalle in un campo di fiori: avrebbe voluto dargli un senso, ed avrebbe anche potuto; scelse di non farlo, beandosi nella convinzione che tanto, tutto quello, un senso non ce lo poteva avere davvero.
    Mollò la presa solo quando gli porse quel quesito, adagiando cauto la gamba sul terreno e lasciandosi cadere a terra, ginocchia piegate e testa altrove. «devo proprio?» e a quel punto, il sorriso che aveva evitato era diventato una risata. Stretta tra le mani a conca, lieve ed appena udibile, morta sul nascere quando le dita scivolarono sul volto – sulle sopracciglia, sugli occhi, sulle tempie, tra i corti capelli pece, fino a scendere di nuovo tra i peli della barba.
    «pensi...» il tono melodico, come fosse un gioco; gli occhi a cercare una risposta nel cielo e i polpastrelli a grattare le goti irsute, come se potesse dar loro una risposta. «di voler fare la cosa giusta, anche se non credi la sia. pensi che farà male. pensi che sarebbe giusto farsi i cazzi propri una volta tanto, per davvero
    Forse non era così, solo Mac poteva confermarglielo – ma sperava con tutto sé stesso lo facesse.
    Non credeva fosse la cosa giusta scendere in campo contro i babbani, Kiel, ma poteva tirarne fuori qualcosa che lo sembrasse.
    Credeva che avrebbe ferito sé stesso, e altri intorno a lui, ma che sarebbe successo comunque – ed un medico faceva sempre comodo.
    Pensava di volersene tornare a casa e fingere che nulla fosse, mettere su un caffè e chiamare Dylan o andare a fare una scappata al Lilum dal monento che aveva il giorno libero.
    E pensava, Dio se pensava!, di non voler perdere tutto quello che era riuscito ad ottenere dopo tutto quel tempo.
    Ma questo non lo disse: non voleva che, per quanto possibile, i suoi unici amici capissero quanto fosse realmente egoista.
    «stiamo sbagliando?»
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    «devo proprio?» Sì, doveva, perchè Mac era stanco di pensare da sè. Non poteva, evidentemente, permetterselo, vittima di un sistema che aveva creato e nel quale si era rinchiuso da solo gettando via la chiave. Finiva sempre in spirali senza via d'uscita, smarrito in labirinti dei quali non riusciva a vedere neanche i muri. Quindi sì, ti prego, Kiel, dimmi a cosa sto pensando, perchè tutto nell'Hale si rifiutava di accettare la realtà alla quale era giunto. Patetica e triste. Vacua e piatta.
    Non avrebbe dovuto andare così.
    Avrebbe dovuto avere - qualcosa a cui aggrapparsi ed in cui credere, che lo facesse sospirare e decidere di alzarsi per mettere nuovamente mano ad un'arma. Non era così che era previsto andasse? Un motivo dietro le costole a scandire i passi della marcia?
    Era già stanco.
    E sapeva di non potersi concedere quella stanchezza, perchè muoversi era l'unica cosa che ancora lo tenesse in piedi. Riempirsi le mani piuttosto che la testa. Cucirsi vestiti troppo stretti per non sentire la pelle nuda e i tagli freschi al vento.
    «pensi di voler fare la cosa giusta, anche se non credi la sia. pensi che farà male. pensi che sarebbe giusto farsi i cazzi propri una volta tanto, per davvero.»
    Abbozzò un sorriso, o quelle che avrebbe potuto fingersi tale. Seppe di aver curvato le labbra perchè sentì le guance tirare, un rauco graffio alla gola che avrebbe potuto apparire una risata, se solo non fosse stato così arido da suonare più come un singhiozzo.
    «touchè» uscì solo un mormorio. Aveva bisogno d'altro?
    «stiamo sbagliando?»
    Spostò il braccio, alla fine. Si costrinse a guardare l'amico, perchè quella domanda meritava quanto meno una risposta civile. E faceva male, guardare il Kane e ricordarsi di quando la loro preoccupazione più grande fosse scendere in campo contro i Grifondoro. Faceva male sapere che non stessero sbagliando, e che - che. Che fossero solo due ragazzi, spezzati e malconci.
    Che Dio. Dio. Mckenzie Leighton Hale per una volta volesse davvero fare la cosa giusta. Che volesse prendere la fiducia di Lena, il sono fiera di te, e renderlo qualcosa di concreto. Tangibile. Voleva essere la mano tesa agli occhi spaventati. Voleva chinarsi sui feriti, sentire il battito sui polpastrelli, e promettere (mentire) che sarebbe andato tutto bene. Voleva la vita nella guerra, Mac, e l'ordine nel caos.
    Voleva essere la persona giusta. Per una volta, ok? Una sola, quanto bastava per guardarsi allo specchio e dirsi che perlomeno ci avesse provato.
    Voleva essere un bugiardo migliore, quelli che pur non avendo nulla erano in grado di offrire interi sistemi solari.
    O forse.
    Forse. Banalmente. Tristemente.
    In segreto.
    Voleva una scusa per morire.
    Quello, a Kiel Kane - a Mac Hale - non l'avrebbe mai confessato.
    «ci ha mai fermato?» d'altronde, erano diventati una squadra per errore. Diede un colpetto alla mano di Kiel, segno che fosse il momento di lasciarlo andare. Se avesse avuto più paura di morire, forse l'avrebbe stretta brevemente nella propria, sospirando piano.
    A Mac invece, non importava abbastanza. Di nulla.
    E Harper?
    Si fidava più di Willow che di se stesso.
    Il Legionario non sapeva salutare, e non l'avrebbe fatto. Si sarebbe posto il problema in un secondo momento, se l'avesse avuto. Si sarebbe anche lasciato odiare da Joni, pur di non scriverle di quella partenza, perchè era un cazzo di egoista.
    Non voleva sapere se ci fosse anche lei, su quei campi.
    Non voleva sapere se si sarebbero uniti Gaylord ed Harry. Joey e Willow. Harper. Twat.
    Turo (haha) Run (haha) Darden (haha) Mads (haha) Nicky e Meh e Halley e Hunter (haha)
    (yeah)
    Almeno Hans era una certezza.
    «ti dispiace se mi faccio una doccia da te?» e no, non l'avrebbe guardato in faccia mentre gli chiedeva di poter rimandare ancora l'inevitabile, e prendere tempo per ... boh. Trovare se stesso forse.
    Good luck with that, hun.
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