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«Ti dispiace se accendo una candela?» Sì, gli dispiaceva molto. «Fai pure.» Mentire mantenendo un sorriso cordiale sulle labbra non era così difficile; serviva solo un po’ d’esperienza e Reese ne aveva accumulata abbastanza in quegli ultimi anni. Si accomodò sulla poltrona blu, sistemando il cuscino dietro la schiena per stare più comodo. «Fragranza nuova?» Purtroppo per lui, aveva imparato a distinguerle a spese delle proprie narici e quella era piuttosto certo di non averla mai provata. «Ha un buon profumo.» La odiava. Cos’era? Lavanda? Rosa? Gelsomino? Impossibile dirlo: puzzavano tutte delle stesse note di chimico misto a stoppino bruciato. La Buckley rivolse lo sguardo nella sua direzione, sopracciglio arcuato e fiammifero ancora acceso tra le dita. Non gli rispose, ma si limitò ad osservarlo qualche istante prima di prendere posto sulla propria poltrona. «Un regalo.» Ah, ma pensa: che fortuna. «Mh.» C’era un limite anche alla finta cordialità del Withpotatoes e il fatto di dover essere lì, lo riduceva di molto: la psicomaga aveva detto più di una volta che fosse necessario, al fine di poter stilare un resoconto delle sessioni che fosse il più accurato possibile, che Reese parlasse con lei; beh, lo stratega non era certo noto per la sua indole chiacchierona. Né faceva sfoggio di una gran espansività, o voglia di condividere le sue cose con degli sconosciuti. Non che Stacey lo fosse, dopotutto: la vedeva regolarmente da mesi, ormai. Anni. Avevano una certa routine, delle abitudini: lei faceva domande stupide, Reese le dava risposte volutamente evasive ma oneste abbastanza da non poter trovare appigli per bocciare la sessione. Sapeva di starle simpatico, per qualche strano e inesplicabile motivo, ma non voleva dire che la dottoressa fosse disposta a passare su qualsiasi cosa. Doveva concedere qualcosa, e sperare che prima o poi avrebbero messo un punto a quegli incontri. Visti gli ultimi eventi, però, al Withpotatoes quella sembrava una prospettiva quanto mai lontana e irraggiungibile: per motivi che non dipendevano minimamente da lui, si ritrovava costretto a dover continuare con quella farsa ancora per un po’. Stacey si schiarì la voce; Reese sollevò un sopracciglio. «Dunque,» Reese sospirò. «Dunque.» Stacey sorrise, quel sorriso dolce ma che lo stratega non poteva far a meno di sospettare nascondesse molto altro. Una conoscenza profonda, una mente brillante; a modo suo, la trovava simpatica anche lui. Se solo non fosse stata una strizzacervelli. Spostò le iridi azzurre fuori dalla finestra, preparandosi già alla domanda che, lo sapeva, stava per arrivare. «Vuoi parlare di quello che è successo?» Eccola lì. In quanti glil’avevano chiesto? E quante volte aveva risposto che “no, grazie, non voglio”? «Ne abbiamo già parlato: ottobre, rapimento, laboratorio, siberia, trasferimento, fuga.» Contò ognuno di quei punti salienti alzando un dito alla volta, senza battere ciglio. «Sto dimenticando qualcosa?» Sì, i dettagli: ma non li avrebbe forniti. Non di nuovo. La Buckley schioccò la lingua contro il palato, prendendo appunti. Poi tornò ad osservarlo. «Nessun nuovo dettaglio? Nessun ricordo degno di nota? Nulla?» Si limitò a scuotere la testa, e a stringersi nelle spalle. «Deve essere un vizio, Doc.» Non sarebbe stata la prima amnesia per lui, infondo: era credibile. Il fatto che ricordasse ma non ne volesse parlare era un altro paio di maniche. «Reese,» il fatto che fossero ormai passati al nome di battesimo la diceva lunga sul loro rapporto, «parlami. Lo sai che-» «-fa bene? Che aiuta?» Un sorriso morbido, lo stesso che rivolgeva ad Idem ogni tanto quando provava a fargli gli stessi discorsi. «Doc, sto bene.» E quella non era una bugia: non era cambiato, era ancora un mago, e tutto sommato gli incubi legati al laboratorio erano preferibili al vuoto cosmico con cui si era svegliato quasi sei anni prima. «Hai contattato qualcuno dei tuoi fratelli? Qualche amico?» «Certamente.» «I colleghi non contano.» «Al Black non piacerà sapere che lo reputi senza valore, Stace....» Lei non battè ciglio. «Dovresti scrivergli. È la tua famiglia.» Valeva lo stesso, pure se aveva la sensazione che gli mentissero da tempo? Ne dubitava. «Lo farò, lo farò.» Certe volte, invece, mentiva sapendo di non convincere proprio nessuno. Ed era perfetto così.
Ala fine, non lo fece. Ma fu Isaac a decidere per lui, con una telefonata che Reese aveva valutato di ignorare. E che invece, alla fine, aveva accettato. Una telefonata, e un’appuntamento. Perché non poteva semplicemente aspettare di vederlo al Ministero, il lunedì successivo? Cosa c'era di così urgente da doverne discutere subito? «Spero sia una cosa veloce.» Era un mago impegnato, lui, a differenza del pavor. Che quell’incontro avrebbe portato solo guai, Reese lo sentiva, più che saperlo; aveva accettato l'invito di Isaac solo per limitare i danni fin dove possibile. «Di cosa mi devi parlare?» Non era andato al parco solo per fare due chiacchiere tra fratelli e recuperare il tempo perso; gli concedeva al massimo una decina di minuti, prima di andarsene, e immaginava che il Lovecraft lo sapesse. | | I can't hear what your saying, now my ears are ringing out, I won’t stay, I'm not waiting for the smoke to settle down. | | | 27 | dec. 1995 | london (uk) | | strategist | deatheater | | 2043 | salem hilton-peetzah |
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