i had hope, normal things

ft. reese

« Older   Newer »
 
  Share  
.
  1.     +5    
     
    .
    Avatar

    Member

    Group
    Death Eater
    Posts
    365
    Spolliciometro
    +373

    Status
    Offline
    Aveva chiuso gli occhi, Isaac Lovecraft, ed inspirato molto profondamente; quindi contato fino a dieci, venti, sarebbe anche arrivato a cento se ne avesse avuto il tempo materiale, prima di espirare quanto più silenziosamente possibile. Quando riaprì gli occhi, però, voleva ancora spaccare la testa al ragazzo che aveva davanti; cercò di nascondere il sentimento dietro un sorriso tirato, ma non era certo della sua riuscita.
    Non che gli interessasse poi più di tanto.
    Odiare le persone era un qualcosa che all’ex corvonero era sempre risultata difficile: aveva bisogno di un torto importante anche soltanto per guardare in cagnesco un altro essere umano, di base. Forse era vero che negli ultimi tempi tendesse ad ingigantire un po’ le situazioni e le proprie reazioni in merito, ma non così tanto da detestare qualcuno a prima vista.
    Osmond Abney era l’eccezione alla sua regola, evidentemente – che già soltanto per il nome meritava di essere preso a sberle in faccia ripetutamente.
    Non aveva problemi con gente di rango più alto del suo, per quanto avesse sempre prediletto essere il capo di sé stesso; aveva problemi con gli spacconi che già avevano avuto una promozione e che si credevano più in gamba di lui. Il segugio che gli aveva appena dato una pacca sul sedere e che gli aveva detto «i grandi hanno finito, raccogliete pure le briciole» rientrava tranquillamente nella categoria. Era uscito da Hogwarts a malapena da un paio di anni, e già si permetteva di fare il gradasso con così tanta facilità.
    In quei venti secondi di meditazione profonda, e dato che il Ministero non lo avrebbe ufficialmente approvato, immaginò come sarebbe stato bello trasfigurarlo in un burattino di legno ed usarlo come ornamento in ufficio: immaginava che molti altri colleghi avrebbero apprezzato l’iniziativa. Un’immagine che lo aiutò a mantenere la calma fino a quando non fu uscito dalla casa.
    Non disse ad alta voce quanto morisse dalla voglia di picchiarlo, ma la sua collega doveva averlo percepito perché gli posò una mano sulla spalla e la strinse molto forte. C’era anche da ammettere che colpire qualcosa che non fosse un sacco da boxe sarebbe stato molto terapeutico in quel periodo della sua vita: non poteva continuare a bere per non pensare a Sharyn, già aveva ecceduto i limiti del suo fegato più volte.
    Certo, non aveva pensato che perlustrare la casa del ribelle alla ricerca di ultimi indizi – letteralmente le briciole lasciate loro dai segugi – avrebbe aiutato in quel senso. «lovecraft, io ho finito. andiamo?» digrignò i denti, già dimentico dell’Abney probabilmente già a chilometri di distanza, le nocche a farsi bianche per la forza con cui stava stringendo la spalliera della poltrona. «lovecraft?» alzò lo sguardo, celere a nascondere la fotografia nella tasca della giacca. «ancora a pensare a come uccidere osmond?» che, in realtà… Sbuffò una risata, massaggiandosi le tempie nel vano tentativo di far rientrare l’emicrania a premere contro le pareti della scatola cranica. «sempre.»

    Continuò a rigirarsi la fotografia tra le dita – confuso, intorpidito, arrabbiato. Non riusciva a capire perché una persona di cui non sapeva nulla, un ribelle perlopiù, dovesse avere quella stampa tra decine di altre in un cassetto della scrivania; non riusciva a capire cosa significasse.
    Chiamare suo fratello non era stata la prima cosa che aveva fatto una volta finito il proprio turno – si era preso tutto il tempo del mondo per valutare quanto potesse essere utile quell’immagine, o se sarebbe stato meglio buttarla nel fuoco ed ignorare la sua esistenza; era stato male, gettato sul divano come un sacco dell’immondizia e con le mani tra i capelli, che stupidamente cercavano di contenere pressanti martellate e fastidiosi giramenti di testa; aveva camminato, e camminato, e camminato. Di certo, però, era stata l’unica cosa sensata che avrebbe potuto fare.
    Chiuse gli occhi, gettando la testa all’indietro e respirando l’aria pulita del boschetto. Non si aspettava di veder arrivare Reese. Lo sperava, e non solo per chiedergli se sapesse dare delucidazioni; tutto sommato, quella era l’ultima delle sue preoccupazioni. Era sparito per mesi interi senza che nessuno sapesse che fine avesse fatto, e quando era tornato – dopo essere finito in un cazzo di laboratorio – lo aveva fatto senza un fiato; aveva dovuto scoprirlo per caso, il Lovecraft, che era sano e salvo. Maledetto infame, ma gli voleva bene così.
    La tentazione di piombargli in casa, o di placcarlo al ministero chiudendolo in una stanza per sapere come stesse, era comunque una valida opzione casomai non si fosse presentato.
    isaac
    lovecraft

    A psych ward napkin
    changed the life I tried to kill
    With three words
    let it burn
    26 | 1997 | salem, ma
    2043's | deatheater
    pavor && bartender
     
    .
  2.     +4    
     
    .
    Avatar

    avatar © mon amour

    Group
    Death Eater
    Posts
    42
    Spolliciometro
    +72

    Status
    Offline
    «Ti dispiace se accendo una candela?»
    Sì, gli dispiaceva molto.
    «Fai pure.» Mentire mantenendo un sorriso cordiale sulle labbra non era così difficile; serviva solo un po’ d’esperienza e Reese ne aveva accumulata abbastanza in quegli ultimi anni.
    Si accomodò sulla poltrona blu, sistemando il cuscino dietro la schiena per stare più comodo. «Fragranza nuova?» Purtroppo per lui, aveva imparato a distinguerle a spese delle proprie narici e quella era piuttosto certo di non averla mai provata. «Ha un buon profumo.» La odiava. Cos’era? Lavanda? Rosa? Gelsomino? Impossibile dirlo: puzzavano tutte delle stesse note di chimico misto a stoppino bruciato.
    La Buckley rivolse lo sguardo nella sua direzione, sopracciglio arcuato e fiammifero ancora acceso tra le dita. Non gli rispose, ma si limitò ad osservarlo qualche istante prima di prendere posto sulla propria poltrona. «Un regalo.» Ah, ma pensa: che fortuna.
    «Mh.»
    C’era un limite anche alla finta cordialità del Withpotatoes e il fatto di dover essere lì, lo riduceva di molto: la psicomaga aveva detto più di una volta che fosse necessario, al fine di poter stilare un resoconto delle sessioni che fosse il più accurato possibile, che Reese parlasse con lei; beh, lo stratega non era certo noto per la sua indole chiacchierona. Né faceva sfoggio di una gran espansività, o voglia di condividere le sue cose con degli sconosciuti.
    Non che Stacey lo fosse, dopotutto: la vedeva regolarmente da mesi, ormai. Anni. Avevano una certa routine, delle abitudini: lei faceva domande stupide, Reese le dava risposte volutamente evasive ma oneste abbastanza da non poter trovare appigli per bocciare la sessione. Sapeva di starle simpatico, per qualche strano e inesplicabile motivo, ma non voleva dire che la dottoressa fosse disposta a passare su qualsiasi cosa. Doveva concedere qualcosa, e sperare che prima o poi avrebbero messo un punto a quegli incontri.
    Visti gli ultimi eventi, però, al Withpotatoes quella sembrava una prospettiva quanto mai lontana e irraggiungibile: per motivi che non dipendevano minimamente da lui, si ritrovava costretto a dover continuare con quella farsa ancora per un po’.
    Stacey si schiarì la voce; Reese sollevò un sopracciglio.
    «Dunque,» Reese sospirò.
    «Dunque
    Stacey sorrise, quel sorriso dolce ma che lo stratega non poteva far a meno di sospettare nascondesse molto altro. Una conoscenza profonda, una mente brillante; a modo suo, la trovava simpatica anche lui.
    Se solo non fosse stata una strizzacervelli.
    Spostò le iridi azzurre fuori dalla finestra, preparandosi già alla domanda che, lo sapeva, stava per arrivare.
    «Vuoi parlare di quello che è successo?»
    Eccola lì.
    In quanti glil’avevano chiesto? E quante volte aveva risposto che “no, grazie, non voglio”?
    «Ne abbiamo già parlato: ottobre, rapimento, laboratorio, siberia, trasferimento, fuga.» Contò ognuno di quei punti salienti alzando un dito alla volta, senza battere ciglio. «Sto dimenticando qualcosa?» , i dettagli: ma non li avrebbe forniti. Non di nuovo.
    La Buckley schioccò la lingua contro il palato, prendendo appunti. Poi tornò ad osservarlo. «Nessun nuovo dettaglio? Nessun ricordo degno di nota? Nulla?»
    Si limitò a scuotere la testa, e a stringersi nelle spalle. «Deve essere un vizio, Doc.» Non sarebbe stata la prima amnesia per lui, infondo: era credibile. Il fatto che ricordasse ma non ne volesse parlare era un altro paio di maniche.
    «Reese,» il fatto che fossero ormai passati al nome di battesimo la diceva lunga sul loro rapporto, «parlami. Lo sai che-» «-fa bene? Che aiuta?» Un sorriso morbido, lo stesso che rivolgeva ad Idem ogni tanto quando provava a fargli gli stessi discorsi. «Doc, sto bene.» E quella non era una bugia: non era cambiato, era ancora un mago, e tutto sommato gli incubi legati al laboratorio erano preferibili al vuoto cosmico con cui si era svegliato quasi sei anni prima.
    «Hai contattato qualcuno dei tuoi fratelli? Qualche amico?»
    «Certamente.»
    «I colleghi non contano.»
    «Al Black non piacerà sapere che lo reputi senza valore, Stace....» Lei non battè ciglio. «Dovresti scrivergli. È la tua famiglia.» Valeva lo stesso, pure se aveva la sensazione che gli mentissero da tempo? Ne dubitava. «Lo farò, lo farò.» Certe volte, invece, mentiva sapendo di non convincere proprio nessuno. Ed era perfetto così.

    Ala fine, non lo fece.
    Ma fu Isaac a decidere per lui, con una telefonata che Reese aveva valutato di ignorare. E che invece, alla fine, aveva accettato.
    Una telefonata, e un’appuntamento. Perché non poteva semplicemente aspettare di vederlo al Ministero, il lunedì successivo? Cosa c'era di così urgente da doverne discutere subito? «Spero sia una cosa veloce.» Era un mago impegnato, lui, a differenza del pavor.
    Che quell’incontro avrebbe portato solo guai, Reese lo sentiva, più che saperlo; aveva accettato l'invito di Isaac solo per limitare i danni fin dove possibile. «Di cosa mi devi parlare?» Non era andato al parco solo per fare due chiacchiere tra fratelli e recuperare il tempo perso; gli concedeva al massimo una decina di minuti, prima di andarsene, e immaginava che il Lovecraft lo sapesse.
    reese e.p.
    withpotatoes

    I can't hear what your saying,
    now my ears are ringing out,  
    I won’t stay, I'm not waiting
    for the smoke to settle down.
    27 | dec. 1995 | london (uk)
    strategist | deatheater
    2043 | salem hilton-peetzah
     
    .
1 replies since 14/4/2023, 20:05   79 views
  Share  
.
Top