10 stupid things i've done out of a compulsive need to be liked (cringe compilation)

kaz ft. jojo

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  1. …oh kaz
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    The world can be a sad place, sad place
    So why don't you throw it in the backseat
    Show 'em what you can be
    Era vero che ad ogni azione corrispondesse una reazione.
    Era anche vero, e Kaz lo sapeva bene, che i pretesti e le scuse tentassero sempre di giustificarsi come conseguenze, ma lo fossero solo nell’ambito di coscienza lavata su presunzione e moralismo. Insomma, il succo era che quando dovevi rimanerci fottuto, ci rimanevi fottuto indipendentemente da quante volte prima di quella fossi riuscito a scamparla.
    Sapeva che quel momento sarebbe arrivato. L’aveva messo in conto, relegato in un piccolo angolino del suo (magro.) istinto di sopravvivenza, ma aveva deciso di continuare comunque, perché il rischio valeva sempre la pena quando simboleggiava qualcosa. Non era il tipo di persona da saltare nel burrone ad occhi chiusi per divertimento, ma se avesse pensato che potesse aiutare qualcuno, o che potesse aiutare qualcosa, l’avrebbe fatto senza porsi domande. Anche un po’ per spite, ad essere onesti: drizzava sempre le spalle bitorzolute che si ritrovava, l’Oh, quando aveva occasione di un bel vaffanculo al sistema. In parti piccole e misurate, nulla a che vedere con i Guerriglieri che andavano in giro a creare bordello; più alla Beech o alla JD che CJ o Chelsey. Non era in grado di fare graffiti, ma - ma! - poteva fare quello.
    E l’aveva fatto. Per anni. Un (molto piccolo) paladino della giustizia di un (molto piccolo) ritaglio del mondo in cui sarebbe entrato ufficialmente a vivere come adulto l’anno successivo. Il suo modo personale di cambiare le cose e reclamarsi un posto ed un’identità tutta sua. Non era facile quanto si potesse pensare, esistere a se stessi. Sapeva chi fosse per Kul, e sapeva chi fosse per Clay, e per Dylan, e le Furie, ma per se stesso? Sapeva chi volesse essere; non sapeva in quale segmento della linea temporale si trovasse per raggiungere quel Kaz, ma peccando del minimo di modestia sindacale, voleva credere di essere ad un buon punto.
    Poi, insomma. Non era che non visitasse spesso la Sala delle Torture, e per motivi molto meno giustificati di quello. Non aveva una vagina, ma anche lui aveva un suo ciclo mestruale personale: perdeva sangue una volta al mese, non era mai puntuale, e quando la chiamata alle armi arrivava in ritardo, viveva con l’ansia di quando sarebbe giunta, conscio che più venisse rimandata, più avrebbe fatto male. Non gli dispiaceva neanche così tanto: costruiva carattere! Era aesthetic! Poteva fingere di essere il bello due volte e dannato, anziché l’ennesimo special del cazzo a interferire nel quieto vivere di qualche purosangue inviperito - poteva fingere, Kaz, di essere importante almeno per quello, che fosse per se stesso, anziché per quello che rappresentava. Inventava sempre storie affascinanti su come si fosse procurato l’ennesima cicatrice, o perché avesse un cerotto fresco. Nei suoi racconti, era sempre l’eroe.
    Da qualche parte e per qualcuno, fosse anche solo se stesso, doveva pur esserlo.
    L’infermeria, poi, gli piaceva. Dakota era gentile, Willa ed i suoi modi bruschi lo facevano arrossire ed abbassare il tono di voce di un ottava per mostrarle fosse un VERO WOMO, e gli offrivano sempre i lecca lecca alla fragola malgrado fossero quelli che andassero più a ruba. Li tenevano da parte! Per lui! O almeno, di quello si era convinto. La realtà dei fatti era noiosa, e Kaz non era interessato a conoscerla.
    Gli piaceva fare la vittima quando non c’era motivo per esserlo: quando cadeva e si sbucciava un ginocchio; quando prendeva una testata perché non aveva visto un palo; quando agli allenamenti, i bolidi li prendeva di faccia anziché con la mazza; quando quegli arti un po’ meno troppo lunghi, finivano immancabilmente per sbattere contro la mobilia. Nella Sala delle torture, Kaz Oh non era quella persona, perché non avrebbe dato ad altri la soddisfazione di vederlo lamentarsi a causa di una punizione ricevuta per qualcosa in cui credeva o, peggio, qualcosa che era. Capitava che piangesse? Sì, certo, faceva tutto un male cane, ma quelle non poteva controllare, e tendeva a non fare neanche caso alle gocce bagnate scivolate sulle guance.
    «rubare libri in biblioteca è un reato gravissimo. Dovrebbero sbatterti fuori» Spostò la caviglia in tempo per evitare lo sputo del torturatore, il suo amico Sven, e non alzò il capo dall’interessantissima pietra su cui aveva posato gli occhi all’inizio di quel teatrino. Passò la lingua sul labbro gonfio, battè veloce le palpebre per liberarsi di sangue e lacrime; sarebbe rimasto fermo anche senza la catena legata al collo, ma era un tocco di classe per ricordargli quanto ai loro occhi restasse un animale.
    Sì, Kaz aveva preso in prestito un libro. Due, forse. Magari una dozzina o più. Li aveva portati a Different Lodge, perché anche loro meritavano una biblioteca, GRAZIE TANTE, e non rimpiangeva di averlo fatto solo perché ora le conseguenze gli mordevano il culo. L’avrebbe rifatto.
    Qualcuno chiamò Sven all’esterno. Attese di sentire i passi in allontanamento, prima di sollevare le iridi scure su Jojo. Sorrise ed arricciò il naso, scrollandosi nelle spalle. «enemies to lovers» mormorò, fingendo la voce non fosse leggermente spezzata, tentando di arcuare entrambe le sopracciglia. Spostò la mano, mostrando il disegno fra sé e Jojo che aveva nascosto all’uomo con il proprio palmo. Non erano vicinissimi, Kaz e Jojo, ma allungandosi, potevano riuscire ad arrivare alla griglia del tris entrambi. Tamburellò il dito sul labbro, sporcandolo appena di sangue. Dipinse un cerchio nell’angolo in alto a sinistra, quello più lontano da sé. «tocca a te!!»
    sooner or later you're gonna tell me a happy story. i just know you are.
     
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