la nostra buona stella è la peggiore tra le luci: se ci credi troppo va a finire che ti bruci

ft. check | @ cimitero

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    Di quel gioco, se così poteva essere chiamato, Hans non aveva capito un bel niente.
    Magari, se si fosse preso un momento per rifletterci su, avrebbe ricordato di qualche battuta fatta cadere da Taichi, qua e là nelle loro (sempre più rare) conversazioni, piccole informazioni, su quanto accaduto l'anno precedente (o quelli prima ancora) riguardo situazioni ai limiti dell'estremo in cui, a quanto pareva, era possibile trovare la propria anima gemella. Ma poi: l'anima gemella secondo chi? Non era chiaro.
    Non lo fece, comunque; non aprì nessun terzo occhio né cassetto sigillato della propria memoria: l’ignoranza, sotto quel punto di vista, gli piaceva e la considerava una benedizione.
    Tanto, comunque, la stessa cosa l’avevano trovata scritta nel biglietto lasciato sul pavimento impolverato della cripta: anche lì, però, come successo già per le parole del meteorologo, Hans non aveva prestato attenzione, lasciando che fossero gli altri a venire a capo delle regole che governavano quello stupido “gioco”.
    In verità, era da un po' che aveva smesso di ascoltare.
    Giorni, forse settimane.
    Dopo aver sentito di entità mistiche, di tizi dispersi nelle fratture spaziotemporali, di seconde (o forse era meglio dire prime) vite e di altre identità, di fratelli e famiglie e ricordi andati perduti, Hans riteneva di aver sentito abbastanza.
    E aveva semplicemente smesso. Facile, come premere un interruttore. Spegnere una luce in precedenza lasciata stupidamente (testardamente) soffusa; con una finalità diversa e maggiore rispetto a quella del passato: era un guscio vuoto abbandonato a se stesso, oramai. Imperturbabile e inscalfibile, estraneo a tutto, persino (soprattutto) a se stesso.
    C'era da dire, che Hans Belby non avesse mai affrontato nulla, nella sua vita. Aveva imparato a non farlo già da piccolo, quando aveva origliato (non) accidentalmente una conversazione non destinata alla sua attenzione; quella (parte di) verità su Freja, di come con uno stupido incubo avesse mandato in fumo, letteralmente, tutta la loro vita, aveva segnato l'inizio della fine. Hans aveva deciso in quel preciso momento che non c'era un modo salutare per affrontare quella consapevolezza, quel senso di colpa così forte da lasciarlo senza fiato — tanto valeva non farlo e basta.
    E aveva tenuto fede a quella promessa per tutti gli anni a venire, uno dopo l'altro: si era lasciato scivolare addosso ogni cosa, accumulandole nelle profondità più recondite del suo inconscio.
    Problema dopo problema, prima marginali e poi sempre più grandi
    (- la situazione degli special, le gabbie, il ghetto: cose su cui non poteva agire, che lo riguardavano da vicino ma fingeva non lo facessero),
    poi enormi
    (- Elizabeth che spariva, e che dopo quattro anni continuava a rimanere dispersa — forse persino morta),
    fino ad arrivare a essere ingestibili
    (- la prima volta che (non) era stato a Tottington, gli incubi, il piano per inscenare la sparizione di Taichi, l'epidemia ad Hogwarts, gli altri incubi, la verità su Freja, la seconda gita a Tottington, Joey).
    Era normale, dunque, che avesse deciso, inconsciamente o meno, di farlo anche dopo quella mattina di ottobre in cui si era ritrovato un ospite inatteso e sanguinante e sotto shock ai piedi della propria finestra. Aveva chiuso a chiave anche i ricordi di quell'incontro, dimenticato e spazzato via con l'aiuto di piccole pasticche colorate e il resto degli eventi che si sarebbero verificati di lì a breve.
    Con lo stupore di letteralmente nessuno, quindi, non avrebbe affrontato nemmeno quel giorno (e quel gioco) nella cripta. Che importanza aveva. Non affrontarli era il suo modo di (non) processarli. Di andare avanti; immagazzinava traumi gli uni sugli altri, convinto di avere una capienza tale, e un disponibilità infinita di zero sbatti e indifferenza, da schermarlo da ogni cosa. Per sempre.
    Ma era solo umano.
    E fallibile.
    E con dei limiti — superati da un pezzo.
    Non che ne avesse la minima idea, il Belby.
    Erano confini resi sfuocati e traballanti da una dipendenza sfuggita di mano ormai da un bel pezzo, recinzioni che aveva scavalcato e abbandonato dietro di sé da tempo. Non era più solo la sua problematica comfort zone; ora era un problema, e basta. Anche se non era in grado di rendersene conto, e forse il guaio stava proprio lì. In quelle pasticche fatte scivolare con caparbietà, una dietro l'altra, come l'appiglio malsano che erano, e a cui Hans si era aggrappato per tutta la vita; amiche che avevano promesso di aiutarlo a stare meglio, a non fargli sentire più nulla, e che avevano mantenuto la promessa. Le uniche di cui potersi fidare. Le uniche a cui potersi affidare.
    Aveva perso di vista l'obiettivo, ormai. Non c'erano più motivazioni (o scuse) dietro cui nascondersi: c'era solo una dipendenza impossibile da scrollare via. Era così impegnato a trovare una soluzione a vecchi problemi, da non rendersi conto di essere finito dritto dritto dentro uno cento volte più grande. Era cieco alle sue stesse debolezze.
    Un'altra cosa, quella, che andava ad aggiungersi alla lista di ciò che Hans Belby non voleva (non poteva) affrontare.
    E la cripta? Come già detto: era solo l’ennesima voce della lista. Così tanto sul fondo delle sue priorità che, accettato in silenzio il pugno sul naso, era tornato nel suo angolino di catacomba come se nulla fosse successo. In silenzio, spalle contro la colonna e ginocchia al petto; lo sguardo a posarsi distratto sulle figure che si muovevano intorno a lui.
    L’occhiata di Mood gli scivolò addosso: lo percepì, come percepiva tutto di quella stanza, ma esattamente come il resto, lo relegò a sogno a occhi aperti. Era sveglio, sapeva di esserlo, ma non voleva dire che fosse anche presente.
    Gli dispiaceva per i suoi compagni di avventura? Si sentiva in colpa per non aver aiutato in nulla? Reputava di poter far di più?
    No, no e no. Il fatto che non avesse reclinato il capo, chiuso gli occhi e lasciato che l’oblio lo reclamasse era già tanto.
    SI voltò in direzione della porta solo quando sentì l’aria fresca smuovere i petali dei fiori marci di quella tomba e accarezzargli il viso; qualcuno aveva trovato l’uscita. Okay, ancora due minuti e sarebbe uscito. Magari, tornando a casa, sarebbe passato a bussare alla porta di Justin già che c’era, alla ricerca di qualcosa di più forte che gli facesse dimenticare anche il dolore al naso.
    Che poi: tornare a casa sembrava davvero un bel problema, uno che avrebbe dovuto affrontare con un po’ più di lucidità, perché non era certo di sapere dove fosse, né come tornare a New Hovel.
    Era un problema per l’Hans del futuro.
    Distrattamente, notò Mood avvicinarsi al fratello — in cerca di un abbraccio? No. O forse sì, siamo sinceri: ad Hans non interessava. Socchiuse gli occhi, trattenendo una smorfia di dolore quando passò la manica della felpa per asciugare rivoli di sangue, arrivati ormai fino al mento. Il sapore metallico in bocca minacciava di farlo sentire male di lì a breve.
    E non solo quello.
    Cercò nelle tasche qualcosa con cui placare tremore e nausea che, lo sapeva, sarebbero sopraggiunti di lì a breve se non si fosse calato qualcos’altro. La canna della bionda aveva aiutato abbastanza, ma non così tanto: il suo stupido corpo bruciava la droga sempre più velocemente e lo costringeva a cercarne sempre più spesso.
    Quando la ricerca si rivelò inutile, tasche vuote e a corto di razioni, prese la coraggiosa decisione di muoversi e andarsene. A fatica, cercò di tirarsi su da terra usando la colonna come appiglio; quando fu in posizione semi eretta, guardò la porta della cripta. Chiusa. Poi guardò Check, in piedi a pochi passi dalla porta stessa. Cosa stava aspettando? Lo raggiunse, e visto che non lo stava facendo il custode, ci pensò Hans a mettere una mano sulla maniglia e aprire.
    «È chiuso.»
    Solo perché mi serviva il parlato.
    johannes
    hans belby

    you've always worn your flaws upon your sleeve;
    I've always buried them deep beneath the ground.
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    check prese l'occhiata obliqua del fratello e ci fece quello che sapeva fare meglio: la ignorò. sostenne lo sguardo di mood, anche quando gli occhi scuri del ragazzino andarono a posarsi su hans; non stette al suo gioco, non lo seguì. qualunque cosa stesse passando in quella piccola mente criminale, check non voleva saperla — molto probabilmente si trattava della verità.
    non fosse stato per quello, quando il quindicenne girò sui tacchi mostrandogli il dito medio, il catalizzatore magico puntato contro la porta ancora aperta della cripta, gli avrebbe fatto il culo. «ammazzati» (affectionate) un sibilo soffiato tra i denti, nel rendersi conto che la merdina gli aveva scippato la bacchetta dalla tasca. sorrise, check, scuotendo appena la testa, riccioli corvini a ricadere sulla fronte: non se l'era immaginata cosi, la sua reunion con il pirocineta. ad essere sinceri, non se l'era immaginata, punto — hans era andato, scomparso, probabilmente morto. non c'era altro da aggiungere. «È chiuso.» stava ancora fissando l'ingresso della cripta, iridi grigio verdi rivolte piu che altro al pavimento di pietra, quando il belby lo aveva raggiunto e superato. avrebbe potuto rassicurarlo, dirgli che sapeva già come uscire di li, che suo fratello così ci era nato e non poteva farci nulla, ma non lo fece.
    check rimase in silenzio, sguardo ora rivolto al ragazzo e alla sua felpa macchiata di sangue, il già citato dejavu ma tutto al contrario «è rotto.» nonostante ci fosse una logica nella risposta del diciannovenne, non si stava riferendo al portoncino della cripta; fece un passo in avanti, cauto: hans aveva poco spazio di manovra, delimitato dall'ingresso sbarrato da una parte e dal corpo del custode dall'altra, e check sapeva per esperienza personale che proprio in quei centimetri ridotti un animale ferito poteva essere più pericoloso. anche se, a guardar bene, il pirocineta non sembrava in grado di reagire nemmeno di fronte ad un conclamato pericolo.
    «stai fermo» non era una richiesta, quella di check. sapeva, anche senza saperlo, che ritrovarsi addosso mani sconosciute senza un esplicito consenso faceva parte delle cose che entrambi mal sopportavano, ma il custode non era dell'umore giusto per chiedere il permesso, conscio che gli sarebbe stato rifiutato. quello che stava per fare, quello che stava facendo, non aveva niente di intimo o personale (ma lo avrebbe fatto con chiunque altro? hhhhh — cit.): quando Hans si voltò, il Vibe lo spinse contro il portone chiuso, l'avambraccio a premere sullo sterno magro del ragazzo affinché tenesse le spalle al muro e limitasse il più possibile i suoi movimenti. da quando lo conosceva, per quelle due (2) volte in cui avevano parlato, non erano mai stati così vicini «farà male» non era un avviso, ma una distrazione. nemmeno il tempo di finire quella breve frase, due parole che attestavano l'ovvio, ed entrambe le mani erano già salite al volto di Hans per risistemare il setto nasale deviato con un movimento secco ma fluido. altro sangue gocciolò denso sulle labbra del minore, e solo per un istinto difficile da razionalizzare check vi passò sopra la manica della propria giacca «dovrebbe andare meglio» le iridi grigio verdi si spostarono dal volto pallido del pirocineta alla macchia fresca lasciata sul polsino, quasi stesse anche lui valutando le motivazioni di quel gesto — il tutti iniziava a fare un po' troppo brokeback mountain per i suoi gusti «tieni la testa piegata all'indietro» glie l'aveva già detto? si. hans lo aveva ascoltato? no. e allora perché non limitarsi a mandare il ragazzo a farsi fottere? perche era il suo piccolo esperimento sociale in miniatura, di quelli che a Mood piaceva tanto metter su come spettacoli dozzinali nei quali l'attrazione principale erano pulci a dondolare sul trapezio.
    persone, come le vedeva lui.
    era più facile raccontarsela così, semplice e impersonale. gli permetteva di riguadagnare il solito distacco anche dopo aver fatto un passo di troppo.
    che ripeté, questa volta nella direzione opposta, offrendo ad Hans le spalle per spostare l'attenzione dal ragazzo a ciò che li circondava: cocci di un vaso rotto, una lapide leccata da poco, altri contenitori di ceramica con dentro fiori ormai secchi, una bara in legno di noce poggiata su sostegni vecchi almeno dieci anni — chissà quale delle tre arpie traslucide possedeva ancora i propri resti là dentro. avesse potuto comunicare con loro lo avrebbe capito subito, perché nel momento in cui mise entrambe le mani sulla superficie impolverata, iniziarono a volare bestemmie che check non poteva sentire. e che, anche nel caso, avrebbe ignorato «hanno sostituito la finestra, mentre non c'eri» quella a new hovel, alla quale il custode non era assolutamente andato ad affacciarsi per controllare se Hans fosse tornato o meno (quasi si aspettava di trovare qualche altro special al suo posto: al Ministero erano molto efficienti se si trattava di occupare gli alloggi rimasti vuoti).
    spinse con tutte le sue forze, facendo scricchiolare sostegni e legno e ossa, spostando la bara di un paio di metri; quanto bastava per avvicinarla ad una parete. di più, nonostante una buona muscolatura dalla sua parte, non sarebbe riuscito. evitò di aggiungere altro, rivolgendo le iridi verde chiaro alla finestrella colorata dalla quale giungeva l'unica fonte di luce: ci sarebbero passati a malapena. non è che avessero molte alternative «comunque sei un coglione» non aveva pensato davvero di dirlo, mentre già lo faceva, ma una volta uscita dalle labbra non se ne pentì; anzi, vi aggiunse anche un'alzata di spalle - i won't elaborate -, salendo in piedi sulla bara (altre bestemmie da parte dei fantasmi), un braccio sollevato a tastare la finestra — ovviamente era solo decorativa, nessun meccanismo di apertura.
    forse era destino che i suoi incontri con Hans dovessero iniziare, o terminare, con un vetro in frantumi. strinse il pugno all'interno della manica, colpendo una volta, due volte, alla terza le incrinature esplosero verso l'esterno, ricadendo sul terreno. con il braccio si aiutò a togliere le schegge rimaste attaccate al telaio, infine controllò non gliene si fossero conficcate nella pelle: solo un graffio superficiale tra le nocche «ce la fai a salire o devo buttarti fuori?» la terza ipotesi (mannagg a tutt cos) se la tenne per sé: se il pirocineta voleva rimanere nella cripta per fare compagnia ad Alicia e socie, chi era check per giudicarlo.


    check vibe-bigh

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    Forse l'ostinazione, forse l'incredulità, forse il bisogno di fare qualcosa — potevano essere numerose le ragioni dietro al secondo, e terzo e quarto, tentativo da parte di Hans di aprire il portocino della cripta. Contrariamente a molti altri momenti della sua vita, in quel caso ci stava provando davvero. Non necessariamente con lucidità e presenza, ma lo stava comunque facendo: doveva pur contare qualcosa.
    Dopo la quinta volta, però, mollò la maniglia fredda e al «è rotto.» si voltò in direzione del custode, trovandolo più vicino di quanto l'avesse lasciato pochi istanti prima. Troppo vicino.
    Non chiese se parlasse della porta, sapeva non intendesse quella: non poteva essere rotta, se era appena stata aperta. Semplice. Le dita della mancina salirono dunque al viso, tornando a tastare il liquido denso: se da una parte sapeva di trovarlo esattamente in quel punto, come pochi minuti prima, dall'altra temeva ancora si trattasse di un sogno, o di un'allucinazione. Tutto poteva essere, con lui. E una prova tangibile non significava necessariamente che fosse vero.
    O sveglio.
    O - ecco, si era distratto di nuovo.
    La sua mente non riusciva a rimanere concentrata su qualcosa per più di pochi secondi, perdendosi poi nelle parole e nei dettagli e nei flussi di una coscienza chiaramente non più lineare. «stai fermo» Come se avesse potuto fare altrimenti, schiacciato tra la presenza fisica del maggiore e il terrore che una vicinanza così inaspettata aveva suscitato in lui. Hans Belby non funzionava bene (fine, punto.) nei luoghi chiusi e stretti; funzionava ancora peggio con qualcuno di sconosciuto a invadere il suo spazio personale. E infondo, non avevano interagito abbastanza per poter considerare Check nulla di diverso da quello — al diavolo, persino Narah, alle volte, veniva registrata dalla mente del pirocineta come una figura di passaggio. Narah. Una delle persone più importanti della sua vita negli ultimi tre anni.
    Istintivamente, Hans fece un passo indietro rendendosi conto di essere spalle al muro: anche avesse voluto potuto convincere il proprio corpo a reagire, non c'era alcun posto dove andare. O nulla fare, se non lasciare che l'altro chiudesse del tutto le distanze e lo tenesse lì, braccio a premere contro il petto e il peso solido e inamovibile di Check a impedire che l'istinto di fuggire prendesse il sopravvento.
    O che le ginocchia cedessero sotto il carico eccessivo di stanchezza, imprevisti e quella nota amara di panico che si mescolava nella gola di Hans insieme al sapore metallico del sangue.
    Si sentiva in gabbia.
    Erano chiusi in una fottuta cripta.
    Con una bara al suo interno.
    Era chiuso in una cripta con una bara al suo interno e un licantropo.
    E non ricordava quando era stata l'ultima luna piena — perché non lo ricordava? Non che avesse (volontariamente, almeno, o con lucidità) tenuto nota di tutte le lune piene da ottobre a... beh, in realtà, aveva iniziato a farlo prima di finire a Tottington e poi aveva ricominciato settimane prima. Ma insomma, non era quello il punto.
    Era chiuso in una cripta con una bara al suo interno e un licantropo che l'aveva sbattuto al muro. C'erano tutti i presupposti per giustificare l'improvvisa stretta al petto, il respiro affannato e la vista (ancora più) annebbiata: un principio di attacco di panico perché no, insomma.
    Portò una mano ad afferrare il braccio che spingeva contro il proprio sterno, le nocche bianche e la presa stretta intorno alla manica della giacca di Check, un riflesso istintivo: sentiva il proprio battito rimbombargli nelle orecchie, ma tenne (con ostinazione.) la bocca chiusa e lo sguardo fisso in quello del maggiore, cercando di contare i secondi che passavano. Aveva visto Taichi affrontare quelle situazioni più volte di quanto Hans fosse disposto a ricordare, ma in quel momento nella sua testa c'era il vuoto cosmico e nessun tipo di pro tip su come obbligare il battito a tornare regolare, o il respiro a farsi meno affannato.
    C'era solo —
    Dolore cieco e bianchissimo, quando Check portò le mani al viso e riaddrizzò il setto nasale. Per un istante, giurò di aver abbandonato quel piano astrale, solo la presa del maggiore a tenerlo ancora in piedi.
    Realizzò che il buio pesto che era seguito, era colpa degli occhi chiusi: lo capì solo quando sentì la manica di Check sfiorargli le labbra e si ritrovò ad aprire gli occhi, capo reclinato per (fermare il sangue mh mh) osservare il maggiore.
    Non era davvero abbastanza lucido per processare tutto quello: non lo avrebbe fatto.
    "Dovrebbe andare meglio", diceva Check.
    Manco per il cazzo, avrebbe voluto rispondere Hans, perché a quanto pareva quel giorno la fattanza aveva portato con sé anche linguaggio scurrile e un limite di sopportazione così basso da risultare inesistente. Decise, saggiamente, di rimanere in silenzio, le labbra - che ancora bruciavano per l'inaspettato gesto - strette in una linea dura, osservandolo mentre il maggiore riportava le cose tra loro allo status quo, allontanandosi di qualche passo e dandogli le spalle.
    (Quantomeno, l'attacco di panico era passato.)
    Hans resistette all'impulso di scivolare a terra e rannicchiarsi lì, ai piedi del muro della cripta, stanco persino di respirare.
    La verità era che Check non fosse l'unico ad aver confessato più cose del necessario, nei loro limitati incontri: verità, da parte di Hans, erano scivolate nella conversazione in maniera così naturale e spontanea da spaventare il pirocineta.
    L'ultima volta che si era confidato con qualcuno, l'ultima volta in cui aveva abbassato la metaforica maschera e si era messo a nudo con altrettanta spontaneità, era stato due anni prima, attraverso lo schermo impersonale di una chat altrettanto anonima — di quel mosquito, poi, era sparita ogni traccia.
    (Se solo avessero imparato da sara, eli e pandi, e avessero iniziato a *stelline* comunicare *stelline* anche loro, ma vabbeh.)
    Non si apriva facilmente, o spesso - o mai -, il Belby, e quando lo lo faceva non era mai con leggerezza; ogni volta che, suo malgrado, sputava via, con fatica e reticenza, anche solo una mezza verità, ne era al contempo spaventato e sollevato. Non voleva farlo — ma voleva farlo. Era una guerra personale e silenziosa tra volontà e bisogno, tra limite e necessità. Ma non voleva dare a nessuno la possibilità di avere munizioni da usare contro di lui; soprattutto non voleva rischiare di riporre fiducia in qualcuno che poi se ne sarebbe andato.
    E la sua tattica, per quanto anomala, funzionava: Taichi non sapeva praticamente nulla di lui eppure era ancora lì.
    (Lo era?)
    Gli altri, invece? Elizabeth, sua mamma, persino Livy, alla quale Hans aveva concesso più di una volta di stringerlo in un abbraccio senza irrigidirsi troppo in un riflesso istintivo che ancora, a distanza di anni, non riusciva a frenare — persino lei, dov'era?
    Se ne andavano tutti, quella era l'unica certezza che Hans Belby avesse mai avuto nella vita.
    Tutti quelli a cui raccontava qualcosa, andavano via. C'era solo un pensiero che lo martellava di continuo: non ne vali la pena. Un tarlo nella testa che non ne voleva sapere di andarsene, una insicurezza nata una vita prima, un'ansia perenne che vibrava nel suo petto senza che se ne rendesse conto, pur sapendo che fosse lì, sempre lì. Un pensiero fisso che cercava di mettere a tacere a suo modo, e che invece non lo lasciava andare. Un veleno che aveva contagiato e rovinato tutto quello con cui era entrato in contatto negli anni; qualsiasi rapporto già messo a dura prova sin dal principio, come difesa automatica e risposta a quella sindrome dell'abbandono alla quale non era disposto a cedere.
    D'altronde, se non dava a nessuno la possibilità di entrare, nessuno sarebbe potuto mai andare via: era una logica infallibile quanto semplice.
    Poi c'era Check.
    Che ogni volta sembrava andarsene, e invece era sempre lì. Non importava quanto Hans dicesse, o quanto non facesse, o quanto non si sforzasse neppure di essere se stesso con tutti i contro che ciò comportava — il custode era lì.
    «hanno sostituito la finestra, mentre non c'eri»
    Anche in quel momento, l'altro era lì. Certo, non per sua scelta — così come non era stata una scelta di Hans trovarsi al cimitero quel pomeriggio, ma doveva pur significare qualcosa no? Il cosa, nello specifico, Hans non era abbastanza coerente per poterlo anche solo iniziare a pensare.
    La stessa mancanza di lucidità si rifletteva nelle iridi ghiaccio che, non senza una certa fatica, si erano posate pigre sulla figura del Vibe alle prese con la bara. Pensare che qualcuno glielo avesse riferito, era più semplice che immaginare un Check in piedi di fronte a quella stessa finestra mandata in frantumi mesi prima; era più logico, anche.
    Più immediato.
    «comunque sei un coglione»
    A quello, batté le palpebre più volte. Non era la prima volta che glielo dicevano, non sarebbe stata di certo l'ultima. Ma quali erano le motivazioni di Check, mh? A lui, personalmente, non aveva fatto un bel nulla.
    Inclinò la testa di lato, osservandolo ma senza nemmeno accennare a muoversi: non sarebbe stato si certo lui a fare la differenza in quel genere di lavoro fisico e di forza. «dimmi qualcosa -» che non so, avrebbe voluto concludere così.
    Ma Check era in piedi sulla bara, utilizzandola come rialzino per raggiungere la finestra e Hans —
    Era abituato ai blackout.
    Era abituato a quella strana sensazione di sentirsi spettatore esterno alla propria vita, ma c'era altro. Un formicolio sottopelle che non sapeva spiegare, lo strano presentimento di dover condividere la propria (scarsa) coscienza con qualcun altro.
    Sapere di muoversi ma avere la totale certezza di non averlo fatto di proposito. Avvicinarsi alla bara e raggiungere Check, ignorando il commento dell'altro; vedere le proprie mani andare a cercare la collottola della giacca e stringere, spingendo il maggiore verso la parete con una forza che non aveva. Un gesto improvviso e così non da Hans che avrebbe colto alla sprovvista chiunque, anche un lupo con i sensi in allerta.
    (Maledetta Alicia.)
    (Non che Hans sapesse cosa stava effettivamente accadendo. Forse era meglio così.)
    Registrò, in maniera del tutto impersonale, il proprio braccio sollevarsi, il pugno stretto e le nocche bianche pronte ad impattare contro il viso di Check; se fosse stato in controllo del proprio corpo (non si sarebbe mai spinto a tanto) avrebbe tremato: non per la rabbia, non per fastidio e l'intrusione — quelle, quelle emozioni che percepiva e che con violenza gli vibravano nel petto, non erano emozioni sue.
    Se fosse stato presente, invece, avrebbe tremato per il terrore di essere di nuovo spettatore esterno e senza rilievo, non lui a muovere il proprio corpo, ma fili invisibili mossi da qualcun altro. Credeva di aver trovato una soluzione; che la droga stesse finalmente riuscendo laddove tutto il resto aveva fallito. Non era cosi.
    Ironico che, se solo fosse stato più lucido avrebbe forse capito più facilmente che non fosse quella la situazione, che non si trattasse di un episodio, non quella volta.
    Ma non lo era.
    Non era lui a voler tirare un pugno sul naso di Check, ma era Alicia (con i suoi kink per la violenza, a quanto pare). Hans era solo il tramite involontario di un fantasma con problemi a gestire la rabbia.
    Giusto perché la loro situazione non era già abbastanza complicata e fragile.


    «mi avete rotto i tre quarti di minchia, gen z di merda» cit.


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    non dovevi farlo.
    fu quello il pensiero che rimbalzò senza preavviso nella mente di check, mentre dall'alto della sua posizione - arrampicato su una fottuta bara - osservava un ancora più minuto hans lottare contro se stesso per rimanere in piedi.
    non violare la sacralità della morte altrui, o tagliarsi per l'ennesima volta con il vetro di una finestra; non fare un atto caritatevole e mettere a posto il naso dello special prima che la deviazione del setto gli impedisse di respirare. la voce nella testa del custode non si riferiva a nessuna di quelle tre cose, ma all'unica che in condizioni normali check vibe non avrebbe fatto: avvicinarsi. fisicamente, sì, ma non solo. che senso aveva quel gesto inatteso, qual era lo scopo? hans avrebbe potuto pulirsi da solo, oppure decidere di fregarsene e lasciare che il sangue si rapprendesse sulla pelle, e il punto sarebbe rimasto sempre lo stesso — non erano cazzi suoi.
    ma ad Hans il sangue non piaceva.
    se n'era accorto subito, il vibe, quella volta che come un ladro si era introdotto in casa sua sgocciolando come un colabrodo sul pavimento; anche se il cuore gli batteva troppo rapido nel petto, e ricordi confusi di rabbia famelica lo opprimevano, check aveva comunque osservato. registrato, immagazzinato, tenuto da parte un'informazione per lui inutile. come lo era il fatto che il ragazzo stesse cercando di risolvere i propri problemi in un modo che non fosse solo spegnere il cervello con le droghe. cosa cazzo poteva fregargliene a lui, se Hans decideva di tornare back on his bullshit e strafarsi come un cocco — niente.
    il che allora non spiegava perché gli avesse dato del coglione.
    perché vederlo così, ombra di se stesso, gli faceva pizzicare ogni centimetro di pelle dalla voglia di prendere il pirocineta a calci in culo. «dimmi qualcosa -» reclinò la testa di lato, il diciannovenne, entrambe le sopracciglia inarcate; in attesa. Hans non aggiunse altro, e check si strinse nelle spalle, le iridi chiare di nuovo rivolte al buco che fino a poco prima era una finestra: dall'altra parte, stava già calcolando, li aspettava un salto di quasi tre metri. e vabbè «cosa vuoi che ti dica? è l'unico modo per uscire» gli sembrava una cosa ovvia, ma magari il belby aveva qualche altra idea della quale non l'aveva ancora messo al corrente. fu soprattutto perché non lo stava guardando, perché la sua mente era ancora concentrata su quel gesto assurdo di passargli la manica sulla bocca, che non lo sentì avvicinarsi; quando se ne rese conto, era troppo tardi. nel giro di una manciata di secondi, due mani che non sembravano affatto appartenere ad Hans lo avevano trascinato giù dalla bara e spinto a forza — una forza non prevista, contro la parete umida della cripta.
    per semicitarmi: se avessi un euro ogni volta che un mio pg è stato sbattuto al muro in modo così omoerotico che certi porno cominciano in modo più soft, adesso avrei due euro. che non è molto ma è strano sia successo due volte.
    non era il fatto di essere lui, questa volta, ad avere le spalle al muro. a mettere i sensi di check in allarme era il vuoto assoluto negli occhi azzurri del pirocineta, la mancanza totale di una reazione a quanto stava succedendo: troppo vicini, di nuovo, l'ennesimo contatto non cercato. Hans Belby avrebbe preferito bruciare check, la fottuta cripta e se stesso, piuttosto che condividere il proprio respiro con quello del custode e minacciarlo di spaccargli la faccia «se proprio devi, stronza..» non sapeva a quale delle tre presenze stesse parlando, ma non importava. rimase immobile, check, senza neanche tentare di spostare la testa quando le nocche rese bianche dallo sforzo scattarono in avanti — non era certo la prima volta che prendeva un pugno in faccia, tra le altre cose. il dolore esplose una frazione di secondo in ritardo, irradiandosi dallo zigomo colpito fino alla nuca: considerata la vicinanza e un bersaglio immobile, non ci sarebbe stato sa stupirsi se la pelle sottile in quel punto si fosse spaccata.
    non che a check importasse.
    «ti sei sfogata?» chiese, il labbro superiore sollevato in un ringhio sommesso; la spinta che diede ad Hans, con entrambe le mani, fu improvvisa e fulminea: abbastanza da scrollarselo di dosso, magari anche mandarlo gambe all'aria. rapido, infilò la mancina nella tasca del giubbino, tirando fuori quelli che a tutti gli effetti sembrava uno zippo — la fiammella al cherosene già brillava nella luce fioca della cripta, pericolosamente vicina al drappo con cui al tempo della sepoltura avevano foderato la bara «puoi lasciarlo andare e noi ce ne andiamo. o rimaniamo tutti qui a guardare il tuo cadavere mummificato che brucia. sinceramente, non ho alcuna preferenza tra le due cose» magari ad Alicia delle sua spoglie mortali non fregava un cazzo di niente. ma ho deciso che è così, ci sta si sia rotta i coglioni di avere i due problematici e voglia levarseli di torno prima possibile. osservò attentamente i lineamenti di Hans, il loro cambiamento in un battito (confuso) di ciglia «mi sembra una buona scelta» aveva appena rischiato la giocata, il vibe, con altri due fantasmi nelle immediate vicinanze che avrebbero potuto tranquillamente possedere anche il suo corpo e farlo a pezzi, ma come un Bernardeschi qualunque, alla fine aveva vinto lui — capitava di rado, ma capitava «vieni, dobbiamo uscire di qui» fece cenno allo special di raggiungerlo, possibilmente senza fare troppe domande (quelle basic tipo: cos'è successo, perché hai un taglio in faccia), lo zippo di nuovo in tasca e i piedi ancora una volta sulla bara di Alicia; per necessità, quindi lascia fare zia.
    non sappiamo esattamente come raggiunsero la finestra, se a sto giro basta tirare Hans dall'alto o gli tocca lanciarlo fuori di peso, rob è certa solo di una cosa: le madonne tirate da Check - giusto giusto in un cimitero - quando i piedi impattarono sul terreno quasi tre metri sotto, costringendolo ad una piccola capriola per evitare di spezzarsi entrambe le caviglie. quando si volse verso il cielo, schiena a terra e umidità a penetrare nelle ossa, decise che per un po sarebbe rimasto lì, a maledire suo fratello perché era più semplice che pensare alla frazione di secondo in cui aveva tentennato. quella, rapida e infinita, impalpabile come l'erba a solleticargli i palmi, durante la quale avrebbe voluto fare un passo avanti invece che uno indietro — prendersi qualcosa, invece che togliere sangue dalla pelle.
    un pensiero scomodo, un desiderio altrettanto sbagliato.
    i pretend i do not feel see it.
    «sei davvero convinto che la droga ti aiuti a tirare avanti?» chiese, all'improvviso, incapace di farsi i cazzi propri: cristoddio check, che ti è successo? eri meglio di così. lo sapeva anche lui, eppure non fece nemmeno un tentativo di trattenere la domanda. solo si mise a sedere, lo sguardo rivolto ad una luna pallida e sottile che nel cielo terso del pomeriggio si intravedeva appena. magari fosse stata piena.


    check vibe-bigh

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    In parte, Hans poteva dire di comprendere Alicia; era estremamente raro, se non impossibile, che empatizzasse con qualcuno e forse in quel momento stava succedendo solo perché, in un certo senso, condividevano le stesse cose, ma era così. Certo, non ne condivideva l’istinto violento – non sempre, perlomeno – o il tono scazzato – lungi da lui donare enfasi e calore, anche negativo, alle sue parole –, ma anche Hans, esattamente come il fantasma, voleva essere lasciato in pace.
    Non chiedeva nient’altro; non aveva mai chiesto più di quello.
    Odiava, però, tutto il resto.
    Non poter fare nulla, non poter decidere per se stesso, doversi limitare ad osservare dall’esterno Check che, inerme ma incazzato, incassava il colpo. Era stato troppe volte in quella posizione, ma di recente sembrava aver smesso di subire quegli episodi — e se da una parte lo sapeva, adesso, che non fossero la stessa cosa, dall’altra era difficile mascherare il senso di soffocamento che attanagliava il petto, la morsa che gli impediva nuovamente di respirare. Se non fosse stato per la fredda calma di Alicia, Hans avrebbe con ogni probabilità avuto il secondo attacco di panico nell’arco di pochi minuti.
    Chiuse gli occhi — non voleva vedere, né sentire, nient’altro.
    E in qualche modo funzionò, perché quando li riaprì, un quantitativo indefinito di minuti (ore?) dopo, percepiva di nuovo ogni stimolo nervoso del proprio corpo, ogni centimetro di pelle a pizzicare e bruciare.
    Boccheggiò, il respiro che aveva trattenuto fino a quel momento ad inciampare nella strada verso la libertà, e Hans si ritrovò a portare entrambe le mani sulla bara, alla ricerca di un appiglio, un sostegno; gli occhi nuovamente serrati, palpebre strette così forte che il pirocineta vide una moltitudine di luci esplodere contro il nero pece.
    Quando Check lo esortò a seguirlo, Hans non si mosse. Avrebbe voluto, ma non ci riuscì; non voleva rimanere lì ancora a lungo, non senza la certezza che uno dei fantasmi non avrebbe nuovamente tentato di privarlo del proprio libero arbitrio, ma non voleva nemmeno esistere. Già respirare sembrava un’impresa impossibile, figuriamoci muoversi!
    Eppure lo fece.
    Dopo svariati minuti di riflessione, certo, ma lo fece. Aveva valutato (non così) attentamente i pro e i contro della situazione, arrivando alla conclusione che non avesse davvero una scelta; non solo per le abitanti inospitali del posto, ma perché il tremolio alle mani, la nausea e il fiato corto suggerivano non avesse ancora molto tempo. Doveva uscire da quel posto e raggiungere New Hovel il prima possibile — magari, magari, poteva chiedere a Justin di incontrarlo a metà strada, e portarsi dietro qualcosa. Ma non aveva un telefono — dannazione, prima o poi avrebbe fatto tesoro del consiglio di Joey, ma evidentemente non era quello il giorno.
    All’improvviso, senza nemmeno rendersene conto, aveva raggiunto la finestra e si era affacciato oltre il bordo; sotto di lui, un salto nel vuoto che Check aveva già compiuto.
    (Anche metaforicamente.)
    Nella più totale incoscienza dettata dalla scarsa lucidità, e dalla disperazione mista a necessità, Hans fece lo stesso, incurante dell'altezza e della stoffa che rimaneva impigliata ai vetri rotti — era già tanto che non si fosse aperto le mani, o le gambe, tentando di scavalcare. Quanto al salto in sé, poi, lo special era felice di essere abbastanza fuori di sé da non riuscire a metabolizzare davvero ciò che stava per fare: non amava particolarmente le altezze, ma l'idea di volare non era poi così male quando eri strafatto (been there, done that) — non importava quanta paura avesse, o il senso di panico che le vertigini gli procuravano: in quel momento non sentiva nulla.
    Un attimo dopo era a terra.
    Era anche riuscito, in qualche miracoloso modo, a non spezzarsi l'osso del collo nella caduta; solo un leggero dolore alla spalla, dove aveva impattato col terreno rotolando dopo il salto, reso più sopportabile da altri dolori. Come quello allo stomaco e, in generale, il mal di vivere tipico di Hans Belby. Davvero, una spalla dolorante era l’ultimo dei suoi problemi.
    Si fermò così, la faccia premuta di lato contro l'erba bagnata e il respiro affaticato, lo stomaco completamente stravolto dal salto e dal senso di nausea sempre più forte: ora che erano all'aperto, e i campanelli di allarme scattati al pensiero di essere chiuso in un luogo senza via d'uscita erano stati in parte placati, poteva respirare e lasciare che la consapevolezza si essere in piena crisi di astinenza lo colpisse in pieno, con tutta la forza di cui era capace. Odiava che il suo potere la rendesse così veloce, che bruciasse in fretta quel poco che Hans immagazzinava e che lo rendesse così inaffidabile.
    Poi non seppe bene dire cosa, o come, fosse successo: un attimo prima era lì che rifletteva sull’ennesimo motivo per odiare il proprio potere, mentre osservava il profilo di Check - che non lo stava però guardando -, le iridi ghiaccio fisse sul nuovo taglio sfoggiato dalla guancia del maggiore, e quello dopo si affrettava a mettersi in piedi con gesti scoordinati e meccanici, per raggiungere la bara più vicina e svuotare il contenuto dello stomaco sull'erba fresca. Rimase lì qualche istante, riverso su se stesso e una mano posata sulla lapide di marmo, a riprendere fiato. A combattere contro il conato che sentiva rimontare una seconda volta — una battaglia persa in partenza.
    «sei davvero convinto che la droga ti aiuti a tirare avanti?» solo a quel punto, quando ormai non aveva più nulla da rimettere se non bile e rimpianti, si allontanò dalla lapide imbrattata, solo per crollare di peso addosso ad un altra, schiena a premere contro il marmo gelido e le ginocchia tirate fino al petto.
    Che domanda del cazzo era, quella, da fare ad un tossicodipendente. Certo che ne era convinto. Piantò lo sguardo stanco e provato contro il profilo di Check, che ancora non lo guardava; immaginava che non dovesse essere piacevole realizzare che Hans Belby fosse la propria anima gemella. Non che lui credesse a quelle stronzate; era sempre stata Elizabeth, tra i due gemelli Belby, quella con la vena romantica.
    Come volevasi dimostrare, quel pensiero lo abbandonò con la stessa velocità con cui l’aveva colpito. Si pulì le labbra con la manica del giubotto, il gesto a provocare un tremore che la sua mente poco lucida decise stoicamente di attribuire all’astintenza e a nient’altro.
    «No», ma solo perché queste virgolette colorate mi sembrano davvero inutili, con Hans, quindi ogni tanto mi tocca usarle. La sua risposta si limitò a quell’unica sillaba, lo sguardo chiaro ancora fisso sulla sagoma del maggiore.
    No — ma in realtà sì. Non ci credeva davvero a quella risposta, ma credeva all’aiuto che la droga gli aveva dato nel tempo. E forse era proprio quella la cosa più preoccupante: che Hans ci credesse. Che pensasse di averne bisogno. No, anzi: che sapesse di averne bisogno, di non poterne più fare a meno. E non avere alcuna possibilità di scegliere, nemmeno in quel caso.
    Ma non era forse quello che volevano sentirsi dire, tutti gli altri? Narah, Tai, e ora Check. “No, sono cosciente del mio problema e ho bisogno di aiuto” — beh, Hans non avrebbe utilizzato tutte quelle parole per soddisfare la coscienza del Vibe. Ora che l’aveva chiesto, e aveva ricevuto una risposta, poteva tornare a farsi gli affari suoi.
    Chissà- chissà se era solo uno dei tanti headcanon di pandi Hans sui licantropi (non che avesse perso chissà quanto tempo a pensarci, eh.... ma ogni tanto gli succedeva.) oppure Check sarebbe riuscito a sentire la bugia nel battito irregolare di Hans. Era l'unico modo che l'altro avesse, d’altronde, per capire che il minore stesse mentendo; pur guardandolo, il custode non avrebbe letto nulla nell'espressione neutrale sul viso di Hans.
    Mettendo a tacere le voci nella testa che lo supplicavano di non muoversi (mai più), e cedendo invece ad un bisogno più viscerale e impellente, il pirocineta si trascinò in piedi, a fatica, affidando il peso alla lapide di pietra. Sarebbe stato bello poter chiamare qualcuno e chiedergli di andare a prenderlo, ma non era così che Hans Belby (non) funzionava.
    Se Check voleva rimanere tutta la notte a guardare la luna, erano problemi suoi. Hans ne aveva altri. «Io vado.» Ma dove, di preciso, vuoi andare — non sarebbe arrivato al cancello del cimitero, probabilmente, ma l’astinenza non lo rendeva propriamente lucido o in grado di valutare correttamente le sue opzioni.
    Né faceva funzionare il filtro cervello-bocca, stando alle parole che rivolse al custode prima di dargli le spalle. Parole che, con ogni probabilità, non avrebbero nemmeno scalfito Check; cosa doveva farsene, infondo, no? «Mi dispiace», per una lista bella lunga di motivi: per essergli capitato; per essere sparito; per essere quello che era; per il pugno di poco prima; per le bugie; per non essere rimasto. Ma, più di tutte, per non essere abbastanza cosciente per dispiacersi davvero. Sentiva che fosse così, che non fossero parole vuote, le sue, ma rimaneva un pensiero come tutti gli altri: volubile, effimero. Un momento era lì, e quello dopo non c’era dispiacere nelle iridi ghiaccio che tentarono, ancora una volta, di incontrare quelle bosco del Vibe.
    Magari in un’altra vita, in un altro momento.
    Ma non in quello.
    E allora perché l'aveva detto?
    johannes
    hans belby

    you've always worn your flaws upon your sleeve;
    I've always buried them deep beneath the ground.
    dig them up; let's finish what we've started.
    (dig them up, so nothing's left untouched.)
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    special | pyrokinetic
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    «no» solo a quel punto le iridi verde scuro di check tornarono a cercare le figura del pirocineta.
    aveva evitato di guardarlo mentre ruzzolava giù dalla finestra, a faccia in giù nell'erba umida; si era sforzato di non piegare il capo nella sua direzione, quando Hans aveva barcollato fino alla prima tomba per rigettare anche l'anima — concedeva a se stesso un attimo di riflessione e raccoglimento, il vibe, lasciando passare il suo allontanamento per concessione di privacy. ma gli fu impossibile ignorare quell'unica sillaba, una balla così perfetta che se gli fosse interessato un po di meno, forse avrebbe lasciato correre. solo che a check non interessava un po di meno, probabilmente gli importava troppo ed era giusto in tempo per rendersene conto e girare i tacchi.
    «mi sembrava avessimo raggiunto una sorta di—» unì le punte delle dita tra loro, dopo essersi rimesso in piedi «punto di incontro? tacito accordo? non serve raccontare cazzate» una nota di frustrazione, appena percepibile, vibrò nella voce del diciannovenne, le braccia a ricadere lungo i fianchi. in realtà l'aveva deciso lui, che la verità valesse sempre la pena di essere detta, Hans non aveva mai acconsentito. voleva solo che l'altro capisse non ce ne fosse alcun bisogno «non devi dimostrare niente, belby, la mia era solo una curiosità» si strinse nelle spalle, portando le mani nelle tasche della giacca «con la tua vita puoi fare quel cazzo che vuoi» conciso, senza dubbio. un pizzico di frustrazione di troppo, forse, ma decise che non era il caso di soffermarsi su un dettaglio tanto insignificante.
    «io vado» check annuì, il mento sollevato per non cedere di un solo millimetro; se avesse abbassato lo sguardo, avrebbe perso una gara con se stesso in primis «mi dispiace» non gli chiese per cosa — preferiva dare per scontato il minore si stesse riferendo al pugno, perché qualunque altro sottointeso iniziava a diventare un po troppo per il Vibe «è solo un graffio» aveva preso colpi peggiori; ne aveva dati altrettanti. dubitava che Hans potesse sostenere ugualmente entrambe le cose. istintivamente portò i polpastrelli della mancina a premere contro lo zigomo colpito, una lieve scossa elettrica che gli si conficcò come una lama dritta nel cervello. ma non disse nulla, limitandosi ad osservare il minore con l'attenzione e la fastidiosa intensità che l'altro non era in grado di ricambiare.
    se vuole andarsene, cazzo, lascia che se ne vada.
    non c'era niente a trattenere il belby, tranne forse la sua stessa instabilità — che check vedeva, come vedeva tutto il resto: i sudori freddi, il battito accelerato del muscolo cardiaco, il respiro più difficoltoso. non aveva mai assistito ad una crisi di astinenza prima, ma non era così naive da non riconoscerne una. aprì la bocca ancora prima di pensare, il vibe, errore che di recente stava diventando abitudine — e che un giorno di quelli avrebbe finito per costargli caro: dopotutto, era quasi ora di quest «dovresti sederti» dejavu; era certo di avergli detto qualcosa di simile, la prima volta che si erano incontrati. ed era altrettanto sicuro, check, che se lo special avesse potuto allora, lo avrebbe mandato a fanculo.
    quale migliore occasione, se non quella.
    «così non arrivi neanche all'ingresso» che stava pochi metri più avanti, tra le file di tombe e fiori ormai appassiti nei vasi che nessuno si ricordava di svuotare «figurarsi a casa tua» ammesso che volesse tornarci a new hovel, e non passare direttamente dallo spacciatore di fiducia; suo fratello, per inciso.
    fece qualche passo in avanti, girando attorno al pirocineta — una distanza forse persino esagerata tra uno e l'altro. dopo averla ridotta al minimo per due volte (quindi due di troppo) nell'ultima ora, preferiva andare sul sicuro «senti, non voglio farmi i cazzi tuoi. prima ho detto che puoi fare quello che ti pare della tua vita ed è cos엻 Hans non voleva parlare? no problema amigo, check poteva farlo per entrambi.
    non era a livello di mort Rainey e dei suoi monologhi, ma se ci si metteva sapeva essere un vero dito al culo
    IMG-20230405-224932
    «solo che per qualche motivo mi rompe i coglioni vedere che hai deciso di buttarla nel cesso» alzò entrambe le mani, mostrandole in segno di resa «non elaborerò» e neanche rob: qui finisce il mio agire e inzia il mio silenzio (e anche quello di check. non parlerà mai più, ha già detto troppo. prossimo passo: tornare al castello, chiudersi nel suo stanzino, attendere la luna piena e uccidere tutti)


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    Forse, dopotutto, i suoi headcanon sui lupi mannaro e le loro abilità erano meno head e più canon. Ma pensa.
    L’occhiata vuota che rivolse al custode, però, non lasciava trasparire nulla; né una maggiore curiosità scaturita da quella nuova consapevolezza, né soddisfazione per aver avuto ragione, nulla.
    Forse, se proprio, c’era un’impercettibile punta di fastidio nelle iridi chiare del pirocineta.
    «mi sembrava avessimo raggiunto una sorta di— punto di incontro? tacito accordo? non serve raccontare cazzate»
    Ah sì? L’avevano fatto? Mh.
    (Sì, ma proprio come aveva detto Check si trattava di un tacito accordo, il loro, che sembravano, chi più chi meno, centellinare le parole come se ne andasse della propria vita.)
    Beh, Hans non aveva ricevuto il memo.
    O forse sì ma, come per molte altre cose, aveva deciso di ignorarlo.
    «non devi dimostrare niente, belby, la mia era solo una curiosità, con la tua vita puoi fare quel cazzo che vuoi» Ah beh, grazie per il permesso Check, come avremmo fatto senza. Chiaramente non lo disse, ma qualcosa nelle linea dura delle labbra e nello sguardo, se possibile, ancora più vuoto, doveva pur suggerirlo.
    Non gli disse proprio nulla, in verità, se non quel «io vado» rivolto più a se stesso che non al maggiore; cos’altro avevano da dirsi?
    (Eh, un sacco di cose, ma non erano di certo la priorità del pirocineta, in quel frangente.)
    Fece l’errore di guardarsi ancora una volta indietro, però, e beccò Check a passare le dita sulla ferita aperta dal colpo che Alicia gli aveva tirato utilizzando il suo corpo come tramite; di riflesso, strinse il pugno nascosto sotto il polsino della felpa, toccando le nocche arrossate e ferite a loro volta. Era solo un graffio, diceva il Vibe e poteva anche essere vero, ma gli era andata bene quella volta; chi poteva promettere che sarebbe stato ugualmente fortunato una seconda? Hans era, letteralmente, instabile come il fuoco che gli bruciava dentro. Era meglio quando si teneva alla larga da tutto e tutti — soprattutto quando perdere il controllo non era una novità, per lui, a prescindere dalle entità traslucide.
    Non si era reso conto di aver tenuto lo sguardo fisso sul maggior per tutto il tempo, e solo quando sentì Check suggerirgli di sedersi, scosse piano la testa e tornò con la mente in quel dannato cimitero.
    Sedersi, diceva, eh. Mh, analizziamo un attimo la situazione.
    Tutto sommato, fino a quel momento era stato piuttosto fortunato in quanto a sintomi: era raro che Hans rimandasse una dose abbastanza a lungo da vederli arrivare in pompa magna, ma l'anno precedente, non per sua volontà, era stato obbligato a settimane alterne di forzata sobrietà che non avevano portato a nulla se non a far stilare, al pirocineta, una lista più o meno completa delle cose spiacevoli a cui sarebbe andato incontro anche quella sera, nel giro di poco tempo grazie alla sua meravigliosa fisiologia, se non si fosse calato qualcosa per calmare i sintomi dell’astinenza. Nello specifico, oltre i tremolii ed il sudore freddo e il vomito, che ormai erano dei fedelissimi, sapeva bene che presto o tardi sarebbero arrivati anche:
    – gli improvvisi sbalzi d'umore (che faceva ridere e riflettere, considerando quanto Hans si sforzasse quotidianamente per dimostrare di non averne nemmeno uno, di umore, figuriamoci abbastanza tra cui saltare);
    – l'irritazione (che, vi dirò, iniziava già a sentire pizzicare sulla pelle, non mentirò amici);
    – la stanchezza (una cara vecchia amica, che non lo lasciava praticamente mai);
    – confusione e allucinazioni (dopo esser stato posseduto da un fantasma e aver visto Barbie leccare una bara, poteva dire di aver già messo un check anche su quei due, ma chi era lui per escludere che sarebbero tornate);
    – le vampate (perché no, insomma, a questo punto non ci facciamo mancare nulla);
    – disorientamento (quindi sì, non gli sarebbe dispiaciuto andarsene da lì fin tanto che era ancora in grado di camminare sulle proprie gambe);
    – altri poco carini che non elencheremo perché mi paiono già abbastanza così, senza riportarli tutti tutti.
    (Internet suggerisce anche “cravings” ma è un argomento che non si può affrontare (punto, fine) in questa sede, e di questi periodi, quindi lo sorvoleremo.)
    Sapeva per esperienza che si trattava solo di una questione di quale sintomo sarebbe arrivato per primo a lasciarlo scombussolato e senza fiato. Perciò no: sedersi non era un'opzione valida, a meno che Check non avesse con sé qualcosa con cui mitigare almeno in parte i sintomi della sua astinenza. Hans ne dubitava, visto il modo in cui il custode aveva evitato di cedere all'offerta del pirocineta, mesi prima, quando il Belby aveva messo a disposizione del maggiore la sua intera scorta come rimedio al post-luna piena. Quindi eh: non si sedette. Quella volta però non lo fece per dispetto, ma solo per il bisogno fisico di andarsene da lì il prima possibile. E se Check non aveva la bacchetta per smaterializzare entrambi, rimaneva solo la cara vecchia passeggiata sulle gambe già tremolanti.
    «così non arrivi neanche all'ingresso» Ma dai? Roteò lentamente gli occhi verso il cielo, respirando a fatica tra un tremore e l’altro, prima di riabbassarli, stanchi, su Check: aveva forse un'idea migliore? Registrò solo marginalmente di essersi nuovamente accasciato contro il tronco di un cipresso. «figurarsi a casa tua» Non mi dire. Non è che avesse molte altre alternative. Però cazzo, Hogsmeade e New Hovel erano davvero, davvero lontane. Ma davvero un sacco. EH, non che Hans avesse capito di essere a Hogsmeade, ma insomma: lo avrebbe capito presto, bastava uscire dal cimitero.
    Non staccò gli occhi di dosso al Vibe, quando lo vide incamminarsi nella sua direzione pur rimanendo ad una distanza di sicurezza che Hans apprezzò. Era già pronto a fare lo sforzo di dirgli di lasciarlo stare, che in qualche maniera avrebbe risolto, che sarebbe tornato a casa in un modo o nell’altro, ma quanto detto dal Vibe lo lasciò interdetto. «solo che per qualche motivo mi rompe i coglioni vedere che hai deciso di buttarla nel cesso» Onestamente, Check? Sounds like a you problem. Erano nozioni difficili da far penetrare attraverso la spessa coltre di necessità e dolore che Hans provava in quel momento — ma riuscì comunque a percepire qualcosa di sbagliato nelle parole di Check. Sensazione che lo portò, suo malgrado, a scuotere leggermente la testa. Il Vibe non poteva — no, anzi, non doveva. Avrebbe fatto meglio a smettere finché era in tempo: non lo sapeva che quel genere di consigli erano solo parole buttate al vento, con il Belby? Che era, per inciso, una testa di cazzo e non ascoltava nessuno?
    «non elaborerò»
    Ecco, bravo. Bravo.
    Hans non si sarebbe fatto problemi a trattare male il Vibe, se il caso lo avesse richiesto: per amor del cielo, aveva urtato volontariamente la sensibilità di Narah Bloodworth più e più volte solo per dimostrare di aver ragione e di non meritarsi quelle inutili attenzioni, o che la special si prendesse delle pene al posto suo, per lui. Figurarsi se non l’avrebbe fatto con Check Vibe. Non era affatto un problema di (o per) Hans.
    Eppure non disse nulla.
    Cosa doveva dire?
    “Dimmelo ancora tra qualche mese, quando forse sarò in grado di elaborare meglio quello che stai cercando di dire.”
    Si strinse nelle spalle, il tatuaggio con la scritta “dick” a bruciare un po’ di più sulla pelle, nascosto sotto strati di vestiti, come a ricordargli che fosse quanto mai azzeccato: era proprio una merda, il Belby. Non aveva nemmeno una giustificazione, era così e basta. Una testa di cazzo. «okay» era tutto ciò che poteva offrire in risposta al Vibe; doveva farselo bastare.
    “Ma non è nemmeno una risposta” Eh, amen. Che poi se ci pensate avrebbe potuto dire di peggio, in effetti, tipo: “puoi non guardare” che spesso sembrava funzionare, perché fingere che quello non fosse un problema ma solo parte del *scintille* fascino *scintille* del Belby era più facile. Ma non lo fece; e qualcosa dovrà pur contare.
    Era davvero molto stanco; quel gioco nella cripta lo aveva messo a dura prova (“ma non hai fatto nulla, Hans”) (still.) e la crisi aveva fatto il resto. «adesso possiamo andare?» Eh. Doveva essere davvero più stanco del previsto. «posso Insieme non dovevano andare proprio da nessuna parte. «è un po’ troppo tardi» Per un sacco di cose, nel dubbio, per rimanere ancora lì, certo — ma nello specifico era tardi per il Vibe preoccuparsi ora; la sua vita, Hans, l’aveva gettata nel cesso già da un pezzo e dubitava ci fosse ancora qualcosa di salvabile.
    Il filtro cervello-bocca era difettoso, e quando dimenticava di funzionare Hans finiva col dire cose che forse non avrebbe voluto.
    O forse sì.
    Gli rivolse un'ultima occhiata stanca, poi tentò di incamminarsi verso quello che sperava fosse il sentiero che portava all'uscita. «e poi», non si voltò per controllare se Check lo stesse seguendo (né controllo se stava effettivamente camminando lui stesso) ma parlò comunque, «non hai tipo una scuola da custodire? altre priorità di cui preoccuparti» cosa voleva dalla sua vita?
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    hans belby

    you've always worn your flaws upon your sleeve;
    I've always buried them deep beneath the ground.
    dig them up; let's finish what we've started.
    (dig them up, so nothing's left untouched.)
    19 | 2004 | Malmö, swe
    special | pyrokinetic
    addicted | unsupervised mess
     
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