Relax, take it easy!

feat. Gin @Bar dello Sport

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    Erano molte le cose che Ciruzzo non capiva, ma una tra queste spiccava su tutte: Ginevra Linguini.
    Ok, forse non è proprio una cosa, quanto una persona, ma il Grifondoro di certo non badava a queste sottigliezze. La osservava muoversi nel Bar dello Sport – il suo regno – come una Gestapo qualunque, sbraitando ordini a destra e a manca, rigidamente orgogliosa e fiera, e minacciando di morte chiunque non fosse in grado di asciugare decentemente i bicchieri, peccando nell’arte di farli brillare senza quella presenza decisamente fastidiosa del pulviscolo invisibile che solo i suoi occhi da ninja dei cristalli riuscivano a vedere.
    Ovviamente non era così con tutti, c’erano delle eccezioni e, manco a dirlo, riguardavano Lapo e Giacomino. Non ci dilungheremo in questa sede su chi dei due sia il preferito di tutti i cugini Gin e chi si becca tutta la melma. Gli altri, invece, navigavano a vista, lavorando con tentacoli puntati alle natiche, pronti a schiaffeggiarli alla prima burrobirra spillata male. Anche qui… un po’ kinky, ma era sicuro che qualcuno decisamente apprezzasse il metodo punitivo della Linguini.
    Eppure, Ciruzzo non si capacitava di come la fiorentina potesse essere così diversa da lui. Erano nati nello stesso anno, quello che doveva essere uno dei migliori della loro generazione… capite perché le cose non gli tornavano? Lui era… beh, lui era fantastico, stupefacente, affascinante, carismatico, bellissimo, magnifico, spettacolare, eclettico, eccentrico e meravigliosamente italiano. Ginevra aveva decisamente bisogno di una mano e chi meglio di lui poteva dargliela? Gin probabilmente gliel’avrebbe spezzata, ma quel giorno si sentiva un buon samaritano, sapeva che il mondo aveva bisogno di lui e non si sarebbe certo tirato indietro.
    Distese le lunghe gambe, accompagnando il movimento stiracchiando anche le braccia, scoprendo volutamente l’addome per quel pubblico invisibile che avrebbe beneficiato di tutto il suo splendore. Portò lo straccio sulla spalla, come un vero barman, e si recò dietro il bancone, attendendo con pazienza che la cugina finisse di urlare insulti incomprensibili ai più al garzone che aveva osato far cadere il pacco con le conserve di nonna. Onesto? Si era sentito male anche lui, sia per la salsa che non avrebbe mai esaltato un piatto di pastasciutta, sia per l’anima di quel povero ragazzo che stava per incontrare il creatore dopo aver vissuto l’inferno d’ombra in terra.
    Ciononostante, continuò a osservare in silenzio la scena, fingendosi invisibile quel tanto che bastava per non essere incluso in quel particolare monologo.
    Una volta rientrato il pericolo, si chinò dietro il bancone, aprendo il frigo e prendendo due Peroni ghiacciate.
    “Sei troppo nervosa, non ti fa bene al cuore.” Iniziò aprendo un pacchetto di taralli e mettendoli in una ciotola da affiancare a quelle di olive rigorosamente celline e patatine. “Dovresti rilassarti un po’ di più, differenziare i tuoi interessi.” Stappò le due birre e ne porse una alla cugina, inclinando la testa di lato per studiarla meglio.
    “Toglimi una curiosità…” continuò dopo qualche istante di silenzio e un lungo sorso dal sapore annacquato di casa. “… ma tu, almeno ogni tanto, scopi? Perché non si direbbe.”
    E lui, certe cose, le capiva al volo.
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    Gli improperi e le bestemmie che Ginevra Linguini aveva rivolto, rigorosamente in dialetto stretto, al povero garzone a cui era stato affidato il pacco con i boccacci di Nonna Rosetta non si possono riportare, ma furono udite chiaramente nel retro del locale. Povero, sì, perché non avrebbe ricevuto alcun compenso per il suo lavoro e soprattutto non avrebbe avuto (mai) più un lavoro dopo quell’esperienza.
    Purtroppo Gin aveva visto tutta la scena, e quando il ragazzo era inciampato nei suoi stessi piedi e aveva rovesciato a terra uno scatolo pieno di sughi e verdure sott’olio provenienti direttamente da Canosa, aveva avuto un infarto; no, non è un’esagerazione, aveva davvero avuto un infarto. Era durato poco, per sua fortuna, ma per qualche attimo il suo cuore aveva smesso di battere, il suo corpo di reagire, e la sua testa di pensare. Senza alcun dubbio il garzone avrebbe preferito che quel principio di infarto si realizzasse, perché nella fase immediatamente successiva l’ombrocineta era scattata in avanti, con il viso rosso di rabbia e le mani tra i capelli, e aveva iniziato a urlare contro al pover’uomo, che da parte sua non poteva fare altro che guardare la proprietaria del locale con fare spaesato senza possibilità alcuna di difendersi contro quell’incomprensibile cumulo di insulti in una lingua straniera (dove per lingua straniera non si intende l’italiano, ma, peggio, il napoletano).
    Una cosa però il garzone doveva averla capita bene, anche perché la Linguini si era premurata di scandire bene ogni sillaba anche in inglese: toccava a lui pulire tutto quel disastro, lei non avrebbe mosso un dito (e nemmeno un tentacolo). E come avrebbe potuto, dopotutto; sarebbe stato come chiedere a una madre di ripulire il sangue di suo figlio appena deceduto: crudele e disumano. E ingiusto, anche, visto che non era mica colpa sua se quel garzone si era rivelato più inutile anche del più inutile dei cugini (Lux, esatto, sempre ubriaca e inaffidabile – addirittura più di Lapo, e ce ne voleva) e aveva rovinato tutto il duro lavoro della sua famiglia – chi rompe paga, e se il ragazzo non poteva ripagare materialmente la perdita visto che le conserve dei nonni erano di valore rarissimo, avrebbe almeno dovuto pulire tutto, lavare a terra, buttare i cocci di vetro rotti, e smaltire, purtroppo, quel poco che era rimasto di intatto nello scatolo. E lo fece senza controbattere.
    Cioè, magari avrebbe anche voluto controbattere, ma i tentacoli neri e ondulanti di Gin dovevano avergli messo il giusto timore e aveva chinato la testa e iniziato a passare lo straccio bagnato e il detersivo per terra.
    «inglesi, che popolo di inutili scansafatiche» con un sospiro, dopo aver sorvegliato i primi istanti dei lavori del soon-to-be-fired garzone, tornò ad affiancare il cugino di turno – quel giorno Ciruzzo – dietro al bancone e cercò di calmarsi.
    «il mio cuore sarete voi a farlo ammalare» la sintassi tipicamente dialettale sottolineava due cose:
    1) che il tentativo di recuperare la calma era stato piuttosto fallimentare
    2) il voi con il quale aveva identificato Ciruzzo non come cugino ma come dipendente della sua attività, e quindi come soggetto a rischio licenziamento se avesse osato commettere un errore simile a quello commesso dall’inglese ora intento a pulire il pavimento del retro del Bar dello Sport.
    Per quanto crudele potesse sembrare, era così che funzionava: appena i cugini mettevano piede all’interno del Bar smettevano di essere dei familiari e diventavano inesorabilmente dei sottoposti. Per quanto le piacesse comandare, in realtà, Gin non era super fan di quel metodo di conduzione della sua attività; avrebbe preferito di gran lunga un clima rilassato in cui si sarebbe potuta anche divertire, ma con i cugini non funzionava così. Avevano bisogno di quel regime totalitario e di quel clima di terrore per rigare dritto e fare il minimo indispensabile, altrimenti era convintissima che sarebbero stati tutto il giorno a guardare Sky Sport 24 stravaccati sui divanetti del locale.
    Ma qualche libertà gliela concedeva anche, e se la concedeva anche lei – quindi lasciò che Ciruzzo versasse i taralli (teoricamente destinati ai clienti) in una ciotolina e che aprisse due birre (anche quelle teoricamente destinate ai clienti) senza dire niente; anzi, affondò la mano nella ciotola e sgranocchiò qualche tarallino, tra un sorso e un altro di birra, mentre non distoglieva un attimo lo sguardo dal retro dove l’inglese era intento a pulire il suo disastro – ed era meglio che facesse un buon lavoro.
    Con gli occhi fissi sull’altro ragazzo, quindi, ascoltava solo passivamente il cugino, ma purtroppo quell’ultima domanda arrivò alle sue orecchie forte e chiara, e le fece spalancare la bocca in un’espressione sconvolta e quasi offesa, e subito dopo attivare un tentacolo per schiaffeggiarlo con questo dietro il collo – e poi fare lo stesso con lo straccio, perché trovava che usare le mani fosse più personale e soddisfacente.
    «certo che scopo, Ciruzzo» l’unico motivo per cui aveva distolto lo sguardo dal ragazzo al grifondoro fu per rispondere a quest’ultimo con tono duro e convinto. «e scopo pure-» con la tua professoressa, se vuoi saperlo; ce l’aveva proprio sulla punta della lingua, ma dovette mordersi le labbra e chiudere gli occhi per evitare di fare quella confessione che aveva promesso a Lupe avrebbe rimandato fino a quando tutte le capre dei suoi cugini non si fossero diplomate. Non era una questione di imbarazzo, aveva detto la sudamericana, ma era difficile mantenere un certo rigore e una certa credibilità con gli studenti se questi la immaginavano mentre faceva sesso con sua cugina – e Ginevra non aveva potuto ribattere, ma aveva un po’ maledetto i cugini per essere dei ciucci che frequentavano ancora la scuola a venti anni inoltrati. Lanciò un’occhiata alla piantina di baby groot che la tossicologa le aveva regalato per Natale e che Gin aveva subito posizionato sul bancone: «culo» disse il baby culo quindi la napoletana nascose un sorriso e sospirò; e va bene, ancora non era arrivato il momento per flexare la sua relazione, ma tutto il resto poteva dirlo, quindi tornò a guardare truce Ciruzzo e continuò: «-pure più di te, se lo vuoi sapere, e immagino pure meglio» l’ultimo particolare era di sua fantasia e per fortuna non aveva alcuna prova su come scopasse il cugino, e non voleva mai averla.
    «e poi scusa, ma che cazzo c’entra questo con quell’idiota che ha fatto cadere le conserve di nonna?» ecco, cioè ma vedi tu se uno non poteva neanche arrabbiarsi per motivi assolutamente validi che le veniva detto che doveva scopare. Era abbastanza sicura che questo fosse sessismo, ma non le sembrava il caso di litigare anche con il cugino davanti a tutto il bar, quindi rimandò mentalmente la discussione a più tardi e riprese a sorseggiare il peroncino.
    dici che dovrei staccare
    un po' la mente
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    ma io lavoro
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    Ginevra Linguini non aveva colto un dettaglio estremamente particolare: a parte Giacomino, nessuno dei suoi cugini amava particolarmente condividere del tempo con lei al bar dello sport.
    Sia chiaro, la adoravano ed era ancora una di loro (nonostante avesse fatto rapire il pupillo di casa e avesse quasi rovinato il Natale all’intera famiglia), ma c’era in corso una scommessa su chi l’avrebbe fatta crollare prima. Ahimé, non sarebbe stato Ciruzzo a rivelare maggiori dettagli sul punto, ma l’obiettivo era proprio riuscire a farle venire una crisi e non c’era modo migliore di farlo se non prestandosi come aiutanti in quell’impresa che aveva più tratti affini al concetto di totalitarismo che di familiare.
    Gin continuava la sua dittatura ignara del piano malefico degli altri, così concentrata nel godere della sua posizione da Gestapo da non essersi resa conto della loro capacità di trarre vantaggio in ogni situazione. Al momento la Linguini poteva dormire sogni tranquilli, ma non sarebbero durati a lungo, non con loro in giro e pronti a dare sempre spettacolo. Era nella loro natura e ci potevano fare ben poco.
    Allungò le lunghe dita da eccelso pianista verso la ciotola di tarallini e ne prese un paio, lo sguardo fisso sul volto della cugina. Continuò a studiarne i lineamenti anche quando lanciò in aria uno dei piccoli anelli friabili, prendendolo poi al volo. Sorrise, i gomiti puntati sul bancone e la schiena sapientemente inarcata, quasi il suo corpo fosse stato plasmato per quel tipo di ambiente, con cui si fondeva in modo perfetto.
    Diede un altro sorso alla sua birra, canticchiando appena un motivetto improvvisato sul momento, la testa ad ondeggiare seguendone il ritmo, in attesa che la cugina cogliesse il senso delle sue parole.
    Ed eccola lì, la reazione che tanto stava aspettando, al punto da essere pronto a salvare se stesso, la sua birra e la ciotolina di olive dallo spietato tentacolo di Gin, prima, e dallo straccio, poi.
    “Che tecnica! Con chi la stai affinando?” Domandò sornione, osservando il lembo di stoffa e imitandone le mosse, quasi fosse uno spadaccino. “Sei diventata quasi una pro. Son curioso di vedere le rosse natiche del vincitore o della vincitrice di tale trattamento.” Tornò a poggiarsi sul bancone, succhiando provocante una delle olive. “Pensi che così vada bene o devo migliorare qualcosa?” Chiese ancora, sopprimendo una risata che stava per sgorgargli dal petto.
    “Certo che scopi, Ginevra, non lo metto in dubbio. Ma non parlavo del pavimento del tuo bellissimo Bar Spo…” Si bloccò, affilando lo sguardo e lasciando perdere l’oliva. Puntò la bottiglia di birra verso l’ombrocineta, insinuandosi in quella pausa di troppo, in quell’interruzione che nascondeva chiaramente qualcosa. “Nascondi qualcosa.” Riusciva a fiutarlo nell’aria, a sentirlo, a vederlo nei denti che andavano a premere sulle labbra morbide della cugina.
    855190“Chi.” Non era una domanda, perché in quel caso avrebbe potuto pensare che le stesse offrendo la possibilità di non rispondere. “Perché non penso proprio sia il tipello sul retro, troppo succube.”
    Portò il collo della Peroni alla bocca, soffiandoci appena sopra, meditabondo. C’era anche qualcosa di nuovo e di diverso nel locale che gli stava sfuggendo e questo non gli piaceva affatto.
    “Amo, immagini molto, molto male.” Nel dirlo le poggiò una mano sulla spalla, dandole una pacca leggera, poi un’altra e un’altra ancora, cercando di farle capire l’enorme cazzata che aveva appena detto.
    “Cosa c’entra? È una questione di reazioni e gestione delle situazioni.” Rispose piano, come stesse parlando ad una bambina speciale. “Non lo dico io, ma la scienza. Sei sempre così tesa e nervosa che altrimenti non si spiega… Ammesso non ci sia qualcun altro a stuzzicare ogni tuo nervo.”
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