Turo aveva capito da un pezzo che nascondere le cose con Sersha – o con i freaks, più in generale – tendeva solo a peggiorare le cose; ma non significava che fosse diventato più facile, per lui, esprimere ciò che sentiva dentro. Ci stava ancora lavorando, stava ancora imparando, e tutti sapevano che la curva d’apprendimento di Arturo Maria Brook Hendrickson Jiménez fosse terribilmente lenta. Ma una cosa l’aveva imparata — a sue spese, e fin da subito: «mi fai paura» Cioè, l’aveva sempre saputo, ancora prima di essere compagni di casata, ancora prima di essere conoscenti, ancora prima di essere circa parenti. E, soprattutto, l’aveva saputo ancora prima di iniziare a reputare Sersha Kavinsky una sua amica. La bionda era terrificante, e solo uno scemo non lo avrebbe ammesso. Arturo non si faceva più problemi ad esprimere quella verità a voce alta; aveva smesso persino di fingere di non allontanarsi da lei perché spaventato, ora era decisamente più palese sui propri stati d’animo. Che dire: aveva messo un po’ di sale in zucca, e aveva imparato la lezione. Per quanto vere – e Merlino solo sapeva quanto lo fossero – quelle parole venivano sempre accompagnate da un mezzo sorriso da parte dello spagnolo, prima di distogliere le iridi azzurre e riportarle verso altri orizzonti. Arturo sapeva che Sersha sapesse; e sapeva anche che la ex concasata trovasse quasi piacevole quel genere di ammissioni. E per uno che aveva impiegato quasi diciassette anni prima di capire se stesso, figuriamoci gli altri, quella consapevolezza era davvero qualcosa di grande. Di insostituibile. Così come lo era quella di sapere che fosse ormai diventato un freaks onorario — con tutti gli alti e bassi che quello comportava. Turo non era come loro, non avrebbe mai avuto l’ardore di pensare di poterlo essere, eppure col tempo, dopo un inizio incerto in cui aveva temuto di essere finito nuovamente nel posto sbagliato, era giunto alla conclusione che, a modo suo, fittasse perfettamente tra loro. Lo chiamavano “il sostituro di Sandra” (sostituto, ma è uscito così e non lo cambio nemmeno perché è troppo perfetto.) e lui ci rideva su. Voleva pensare che Sunday non fosse davvero così facilmente rimpiazzabile (soprattutto, non da uno come lui) ma non aveva mai sfidato né CJ, né Barry, ne tantomeno Joey, a dirgli come la pensassero veramente a riguardo. Sapeva che, se lo avesse chiesto, avrebbero risposto: e non credeva di essere pronto. Sersha, dal canto suo, non aveva bisogno certamente di inviti per essere onesta con lui, anche se spesso e volentieri lo era solo sulle questioni che la stessa Kavinsky trovava più facili, più accettabili. E Arturo non avrebbe dovuto sfidare la sorte, era meglio di così, ma quel giorno aveva deciso che se dovevano continuare a spiare Tommy, nascosti dietro i cespugli di Little Arrow come due stalker qualsiasi, tanto valeva che fossero un pochino più onesti l’uno con l’altra. Su tutto. Per questo motivo aveva portato con sé, all’appostamento, una scatola di muffin ricevuto come dolce pensiero da un genitore il giorno precedente, all’uscita di scuola; ingenui come non mai, i Tarles avevano subito affondato i denti negli impasti soffici e cioccolatosi, salvo poi pentirsene quasi subito: il cuore di cioccolato fondente del muffin, a quanto pareva, era accompagnato da qualche gocciolina di Veritaserum. Lo avevano scoperto a loro spese. E Turo, being Turo, aveva subito confessato al collega e amico il suo piano geniale: avrebbe portato con sé i muffin, all’indomani, e li avrebbe offerti a Sersha. In quel modo, la loro ex compagna di squadra non avrebbe potuto più mentire o omettere parti di verità. Geniale! Se solo il destino non ci avesse messo lo zampino, forse per ripagarlo con la stessa, amara, moneta utilizzata dall'Hendrickson! «sono sorpresa abbiano affidato la custodia a serena» Volse lo sguardo in direzione di Sersha, cercando di non mostrarsi troppo ansioso all’idea che non avesse ancora toccato i muffin: come faceva a resistere al cioccolato fondente?! Assurdo. Annuì, i pensieri un po’ più lucidi, attenti, ogni volta che i Beck finivano, invevitabilmente, nella conversazione. Dopotutto, erano andati lì proprio per loro. «già» E lo era anche lui, davvero, nonostante fosse esattamente ciò che aveva sperato sin da quel terribile momento in casa loro, quando i Tersha avevano messo insieme i puntini (circa, dai, ci erano andati molto vicini) e tutto si era concluso tra le lacrime generali — incredibilmente, non quelle di Turo. Girava voce avesse fatto perdere tre galeoni al prof Jackson, mantenendo la sua innaturale compostezza, ma questa è una storia per un altro momento. «e di quanto sperassi» che senso aveva negare a Sersha che le speranze di Turo, per i Beck, fossero andate ben oltre ciò che ci si sarebbe aspettato da un ragazzino estraneo alla faccenda. Era Turo: chiunque si sarebbe aspettato da lui che si incatenasse a casa Beck pur di dar loro un finale, non dico felice, ma dignitoso. Invece, non aveva fatto nemmeno quello. Era proprio cambiato, rispetto a un anno e mezzo prima. «speriamo che -» Hogwarts sia buona con lui, come non lo era stata con Turo, se non fino alla fine. Scosse la testa, lasciando cadere l’argomento e posando invece lo sguardo sulle altre finestre di Little Arrow. Nei mesi successivi all’esame, aveva cercato di dare un senso a ciò che era successo nel borgo babbano la notte del sette agosto: non c’era riuscito. Per quanto fosse certo che le ipotesi formulate da lui e Sersha fossero molto vicine alla realtà dei fatti accaduti, non poteva averne la conferma. E smuovere le acque, che a fatica sembravano esser tornate tranquille dopo una tempesta chiamata TuroSershaCJMacHazel, solo per la propria tranquillità mentale gli sembrava poco carino nei confronti di Giselle e compagnia varia. Forse era davvero meglio non sapere; negazione plausibile a cui appellarsi in caso di convocazione al presunto processo di Mallory. Il fatto che nessuno lo avesse mai chiamato in quasi sei mesi, gli faceva presumere non ci fosse stato alcun processo. Non era sorpreso. Deluso e rammaricato, triste anche, quello sì: ma non sorpreso. Il Ministero della Magia era esattamente il posto dove lupi mannari fuori controllo entravano in manette, e non ne uscivano più. E poi Sersha aveva ancora il coraggio di reputarsi offesa per il fatto che lui avesse declinato l’offerta di andare a lavorare lì dentro. Se non l’avesse conosciuta bene, se non le avesse voluto – loro malgrado – bene, l’avrebbe reputata un po’ scema. Guardò la sua complice in quel momento di criminalità, la fanta-papà al suo essere fanta-mamma (almeno spiritualmente!!) di Tommy Beck, e sorrise. Felice. Sì, tutto sommatto le cose potevano andare molto peggio e almeno loro due, da quella terribile giornata, avevano guadagnato qualcosa di buono — checché Sersha lo ammettesse o meno. «non mi azzarderei a dire “tutto è bene quel che finisce bene”,» “bene” era molto lontano da come stavano le cose a Little Arrow, ma almeno Tommy ora sembrava un po’ più felice ed era tutto ciò che Arturo voleva, «ma possiamo... brindare con un muffin?» Se solo avesse saputo che quel gesto sarebbe tornato indietro per colpirlo in maniera violenta. Molto violenta. (L’avrebbe fatto comunque, ma sarebbe stato meno subdolo a riguardo.) La colpa, la vera colpa, infondo, era da attribuire ad un pallone scivolato via dallo stop di prima intenzione di un ragazzino chiaramente negato col calcio; la palla era sgusciata via, dritta verso la strada, e Arturo aveva agito prima di rendersene conto. Aveva mollato i muffin a Sersha ed era corso dietro al pallone, dimenticandosi per un istante di essere praticamente invisibile. L’ultima cosa che ricordava era il muso di una macchina diretta a tutta velocità contro di lui (ma chi è che correva nei pressi di un parco per bambini?! ANIMALE!) e poi più nulla.
Letteralmente. «ma ti svegli? non ho tutta la giornata da perdere» Che: rude, okay, scusa? Borbottò qualcosa di incomprensibile, muovendo piano la testa in direzione della voce seccata. Se esistere era difficile, allora muoversi o aprire gli occhi era impossibile. Ma lo fece comunque, si costrinse a farlo, perché il buio era più spaventoso del vuoto totale che aveva nella testa. Ci mise un (bel) po’ a mettere a fuoco i primi dettagli – una figura seduta a pochi metri da lui, una finestra alle sue spalle, una porta chiusa, un mobile con qualche arnese sopra che non riusciva a vedere da quell’angolazione – e alla fine decise che registrare tutto fosse uno spreco di energie, e di soffermarsi solo su quelli che riteneva più semplici da annotare: la ragazza che aveva urlato poco prima, ad esempio. Nella sua testa c’era solo rumore statico, qualsiasi suono sopra un sussurro era comparabile ad un grido spacca timpani. «sono sveglio» E lì finiva la lista di cose che sapeva di essere. Non se ne rese conto subito, nessuna persona sana di mente si chiederebbe “come mi chiamo” appena aperti gli occhi — ma con le iridi azzurre puntate sulla ragazza, e la consapevolezza di non avere la minima idea di dove fosse, domandare «cos’è successo?» era solo che naturale. E quel quesito ne portava con sé altri mille, perché nel vano tentativo di dargli una risposta, bisognava per forza cercare nella mente altri dettagli: luoghi, persone, momenti. Nomi. Il proprio. Ci pensò forte, fortissimo, ma trovò solo buio pesto e un muro contro cui schiantarsi ripetutamente. Forse era dovuto a quello il mal di testa lancinante che l’aveva atteso al risveglio. Ma la testa non era l’unica cosa a fargli male: ad ogni respiro, il suo corpo si incazzava e soffriva. Lui con esso. Soffocò l’ennesimo lamento, muovendo appena il viso per stare un po’ più comodo (impresa ardua, ma necessaria), gli occhi ancora fissi sull’altra. Manco a dirlo, non conosceva neppure il nome di lei: sarebbe stato molto bello avere finalmente una risposta, anziché l’ennesima domanda. Perché aveva come l’impressione di conoscerla, ma la risposta al chi fosse era qualcosa che sfuggiva alla sua presa; così vicina da tormentarlo, stuzzicarlo, eppure lontana abbastanza dal non riuscire ad aggrapparcisi. Era una sua parente? Era una sua amica? Oddio. Era la sua fidanzata? Non sapeva nulla di sé, perciò tutto poteva essere. «magari-» Anche parlare era difficile, cazzo. Ci riprovò comunque, tossicchiando un po’ (di vita e organi) prima di riaprire la bocca. «magari suonerà strano,» ma dai, «ma... ci conosciamo?» sperava proprio di sì, aveva bisogno di risposte e non le avrebbe di certo trovate chiedendo ad una sconosciuta! Bisognava anche accertarsi del livello di amicizia, però: potevano essere solo conoscenti e non avrebbe comunque aiutato la sua causa. «siamo amici?» Prima di ammettere di non ricordare assolutamente nulla nemmeno di se stesso, avrebbe preferito capire quanto, di lui, l’altra sapesse: se si fosse rivelata un buco nell’acqua, avrebbe preferito non (umiliarsi) mettersi completamente a nudo ammettendo di essere vulnerabile. E manipolabile. Un’idea che lo fece rabbrivide: perché qualcuno avrebbe dovuto cercare di usare la sua (momentanea, sperava) amnesia a proprio favore? Dio, ma in che razza di mondo si era svegliato, se quelli erano i primi pensieri che il suo incoscio gli suggeriva? Forse non voleva saperlo, non davvero. (Il karma, comunque, era davvero spassosissimo: Arturo aveva appena ritrovato se stesso, a fatica e dopo innumerevoli tentativi fallimentari, e ora ovviamente non ricordava più chi fosse. Bene, ma non benissimo.) | 'cause when you play the fool, now, you're only fooling everyone else; you're learning to love yourself
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