broken clocks are right twice a day

run ft. tu?

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    Chissà cosa cazzo le era passato per la testa, quando aveva creduto seriamente di poter essere l’adulto responsabile sul quale altri potessero fare affidamento. Su di lei, che un futuro manco l’aveva mai progettato perché pensava di non averlo. In quale fottuto universo aveva pensato di esserne in grado? Con quale ottimismo, con quale sostanza stupefacente, quale stra cazzo di botta in testa aveva preso per svegliarsi un mattino, sorridere, e decidere di essere abbastanza per tutti. Non era abbastanza neanche per se stessa, Run – tanto da morirci, ed essere ricostruita con pezzi d’altri.
    E ogni giorno. Ogni fottuto giorno, di ogni fottuta settimana, di ogni fottuto mese, Heidrun Ryder Crane, Milkobitch a tempo perso, aveva dovuto guardare Todd e scuotere il capo, tirando le maniche delle maglie fino ai palmi per nascondere sangue d’altri e suo, perché non sapeva un cazzo. Non aveva una traccia. Non aveva indizi. Jeremy era semplicemente sparito dalla faccia della Terra, e non importava quante volte Run avesse ripercorso l’ultima giornata dell’ex Tassorosso, quante ossa avesse spaccato per dei non ne so nulla e quante grida impotenti avesse soffiato ad un tempo solo suo: non sapeva più del giorno in cui aveva scoperto non fosse tornato a casa.
    Non aveva mai smesso di cercarlo. Non le importava degli sguardi tristi della sua famiglia e dei suoi amici, delle strette ed i lo troveremo vacui, dei non è colpa tua soffiati piano per timore di romperla. Era già rotta. Spezzata dalla nascita, montata con pezzi di ricambio e costretta ad una manutenzione che talvolta cedeva, e la costringeva a ricominciare. Non era colpa sua? Forse, ma poteva escluderlo? Tante, troppe persone avevano il suo nome sulla lista nera – gente cattiva, gente vendicativa. Jeremy avrebbe tranquillamente potuto essere l’ennesima controindicazione di esistere nel suo stesso ecosistema.
    Aveva smesso di promettere a Todd che sarebbe andato tutto bene, limitandosi a stringerlo a sé quando ne aveva bisogno - se ne aveva bisogno. Aveva smesso di fare promesse che non fosse in grado di mantenere.
    Tipo vi piacerà un sacco il nostro secolo. Tipo vi tengo al sicuro. Tipo ci penso io a voi, e poi ritrovarsi Harper Hale a guardarla con quegli occhi troppo grandi, troppo tristi e persi, e domandarle se avesse avuto notizie di Mac. Lo stesso ragazzino raccolto sanguinante e muto in una chiesa, a cui aveva offerto il mondo e non era stata in grado di dare neanche una casa sicura. L’aveva visto migliorare, e peggiorare, e migliorare e peggiorare, ed aveva detto di esserci sempre per lui e Harper – per poi non farlo. Ovviamente. Perchè quella era la persona che Run era, giusto? Inaffidabile. Bugiarda.
    E non poteva farci un cazzo. Niente! In quei mesi, la tentazione di cadere nelle vecchie abitudini e bere per dimenticare, era stata alta, ma se l’era impedito a forza, perché aveva bisogno di rimanere vigile. Un calice di vino, era concesso. Una bottiglia di rum prima di andare a dormire? Parzialmente concessa, perché c’erano dei fottuti giorni in cui semplicemente ne aveva bisogno.
    La cosa peggiore
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    era che non riuscisse ad essere ottimista. Non riusciva a incrociare lo sguardo di Todd o di Harper. Non riusciva a colpire qualcuno, e colpire e colpire, con la speranza di trovare risposte: lo faceva e basta, senza più uno scopo. Solo come mezzo per sopravviversi.
    Murphy a stringerle la mano, e suggerire vie che avevano già percorso e trovato vuote pur di far qualcosa. Kieran a portarle tutti i giorni il dolcetto da mangiare dopo pranzo, tristemente conscia che il pranzo, Run, ormai lo saltasse abitudinariamente. Non riusciva neanche a fingere una normalità, non ...non sospesa in quel limbo insensato di ignoranza.
    Forse avrebbe preferito trovarli morti, che non trovarli affatto. Le avrebbe dato uno scopo, una raison d’etre, ed avrebbe cessato di sentirsi inutile ed inetta, nella strada macchiata di cremisi che si sarebbe lasciata alle spalle.
    Al cercava di rassicurarla. Aveva cercato di affibbiarle River e Flow per darle qualcosa da fare - suggerirle sotto voce che valesse sempre la pena combattere - ma vaffanculo, non voleva. Non voleva avere a che fare con nessun essere umano che potesse anche solo lontanamente dipendere da lei. Non voleva – non voleva quelle responsabilità. Non più, perché chiaramente non sapeva come gestirle. Non voleva le braccia sulle spalle di Euge, e le sue proposte di andare allo spacobot come ai vecchi tempi; non voleva l’intelligenza dello sguardo di Jade, perché faceva un po’ troppo male. Non voleva i tentativi di Jekyll di tirarla su di morale.
    Voleva scardinare la porta di Jack Daniels e demandare che diventasse una questione di stato – quello sì. Aveva provato a renderlo un problema del suo fratellino, attendendolo sotto casa con la richiesta che facesse qualcosa.
    Le aveva sbattuto la porta in faccia dicendole non fosse un problema suo.
    Heidrun era andata in un bar, aveva iniziato una rissa, e lasciato che l’istinto omicida nei confronti di Hyde scemasse in quello per sconosciuti ed ubriachi – cedendo, ogni tanto.
    Malgrado avesse intrapreso un… sentiero poco ortodosso a cui dedicare il proprio tempo libero, nulla aveva intaccato il suo lavoro. Non era professionale, e chiunque avrebbe potuto dirlo. In quei mesi, si era fatta più severa e distaccata, meno giocosa e più crudele. Lei, che era sempre stata la prima ad infrangere le regole, era diventata intollerante quando a farlo erano gli altri, soprattutto se qualcosa di rischioso. Uscire dopo il coprifuoco. Andare nella foresta proibita. Forse non poteva fare un cazzo per Harper e Todd, ma almeno poteva evitare che si ripetesse per altri.
    Tutti i giorni si presentava a lavoro – puntuale. Tutti i giorni, qualcuno finiva in sala delle torture per colpa sua, perché meglio doloranti che fottutamente morti o dispersi. Tutti i giorni, attendeva che succedesse qualcosa, perché era stanca di trovare riflesso il proprio sguardo in quello di Erin.
    Tutti i giorni, saliva su quella torre. C’era andata con i colleghi della security. C’era andata con il Linguini tirocinante, a mostrargli tutto quello che un giorno non sarebbe stato suo.
    C’era andata con Mac. C’era andata con Jeremy.
    Le piaceva tornarci. Da sola, senza più compagnia su cui poggiare una spalla. Era difficile che qualcuno le rompesse il cazzo lì sopra – in primis, avrebbero dovuto fare tutte le scale per raggiungerla: non una sfida che accoglievano in tanti – e, al massimo, poteva evitare che l’ennesimo adolescente depresso decidesse di non farla finita nel modo più drammatico possibile. Sì, le era già capitato. No, non aveva (ancora.) buttato giù nessuno.
    Conficcò il sai nel filtro della canna, la punta a raschiare le pietre del pavimento. Digrignò i denti, forzandosi a non scivolare nella languida, bollente rabbia che sentiva appena sotto pelle. Meglio la canna di uno degli studenti - o del corpo docenti; forse con i primi avrebbe anche potuto passarla liscia, con i secondi sarebbe stato più complesso. Non fece danzare una fiammella sulla punta delle dita, anche se avrebbe potuto - le avrebbe inutilmente ricordato che da qualche parte in quel di Londra, c’era una Harper ad avere ancora più paura del mondo – preferendo il buon affidabile BIC che tutto poteva tranne che sopravvivere per più di una settimana.
    Emblematico.
    Si fermò con le labbra strette attorno al filtro, capo reclinato sulla spalla nel percepire dei suoni.
    Minchia.
    «ti consiglio di rimanere dove sei: c’è il coprifuoco, e non sono di buon umore.» E se invece si trattava di un adulto, pazienza: forse non sapeva mantenere in vita neanche una pianta, ma ad ammazzare qualcuno ci metteva un battito di ciglia.
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    31tutta la notte-
    Eugene Jackson

    «non lo so, Vibe. sounds illegal» la voce di Eugene era ferma, seria. professionale. il ragazzetto davanti a lui, custode del castello da meno di un anno, non parve impressionarsi; le sue spalle fecero su e giù, un rapido gesto il cui significato non aveva bisogno di essere spiegato a parole «dico solo che il prezzo mi sembra un tantino alto.. considerato che non è nemmeno roba tua» aveva gonfiato leggermente il petto, euge, le mani infilate nelle tasche dei pantaloni. quella in corso era una gara a chi possedeva la faccia più di merda, e al Jackson doleva ammettere di aver trovato un degno avversario. l'espressione sul volto del diciannovenne (un feto!!!) infatti non cambiò — se non per l'angolo destro della bocca appena sollevato, che euge interpretò come una presa per il culo. gli sorrise a sua volta, fiero «posso sempre buttare tutto nel cesso. da regolamento dovrei sbarazzarmi di ogni sostanza illegale, o non approvata dal preside, confiscata agli studenti» annuí, il professore, conscio che quel regolamento non era mai stato preso alla lettera. altrimenti davvero non si spiegava come avesse fatto uno come barruly a spacciare nel castello per tutto quel tempo.
    god bless him.
    «d'accordo, stronzetto.» probabilmente avrebbe potuto ottenere quanto richiesto da qualcun altro e assolutamente a gratis, ma tenersi buono il vibe non aveva prezzo. soprattutto quando in cambio poteva ottenere un po di gossip spicciolo: se c'era uno che aveva occhi e orecchie in ogni angolo di quella baracca era proprio check. perfetto per quel ruolo, capace di confondersi tra le ombre e mimetizzarsi con i muri — che poi infondesse anche un po di sano timore negli studenti più giovani era solo un ulteriore punto a suo favore. pescò da una tasca il sacchetto con i galeoni pattuiti, e lo fece cadere sul palmo aperto e teso dell'altro; in cambio, check gli diede una bustina di plastica grande quanto quella di un preservativo (scusate, non mi veniva in mente altro.)
    all'interno, due pasticchette gialle senza alcuna scritta.
    «sicuro che siano per dormire? per quanto mi alletti l'idea vorrei evitare di mettermi a correre nudo per i corridoi» been there, done that, ma erano altri tempi. tempi in cui Eugene Jackson aveva quindici anni e niente da perdere, un ragazzino con gli occhiali che faceva di tutto per visitare la sala delle torture un giorno si e l'altro pure «sono quelle giuste. si fidi» il professore arricciò il naso, limitandosi a nascondere la bustina in tasca senza dire nulla: quelle suonavano proprio come le ultime parole famose, ma nel caso sapeva dove trovarlo.
    e lo sapeva anche check.
    non portava rancore, il Jackson, ma gli piaceva sempre restituire quanto gli veniva dato: nel bene e, dio se gli mancava spaccare qualche testa a suon di martellate, nel male.

    e comunque la vita era strana.
    aveva passato i primi anni dalla nascita di uran a non chiudere occhio perché il nanerottolo si svegliava ad orari improbabili esigendo prima cibo, poi conforto, poi qualcuno che lo accompagnasse in bagno a fare la pipì. un ometto.
    c'erano stati anche gli incubi, tanti, troppi, grida soffocate che euge accorreva subito a calmare, i capelli madidi di sudore del figlio che gli premevano contro il petto. e ogni singolo giocattolo nella stanza che galleggiava a mezz'aria. era andata avanti così per un po', notte dopo notte, finché una di queste Uran aveva semplicemente smesso di svegliarsi urlando. dormiva, stremato come solo un bambino di sei anni potrebbe essere, un peluches stretto sotto il braccio (breuge) e il respiro così profondo da non lasciare spazio ad alcun genere di sogno.
    sarebbe potuto essere finalmente il momento per Eugene di tornare a riposare come una persona vera — e invece quel cazzone di Jeremy era sparito. che figlio di puttana.
    da buon adult badger™ si era preoccupato anche per scomparsa di Mackenzie e del Belby, ma sarebbe disonesto dire che gliene fregasse quanto non sapere dove fosse finito quel coglione del milkobitch: dopotutto, che Jeremy fosse mai stato d'accordo o meno, era anche un po' suo fratello. il suo bambinone. era una condanna senza possibilità di grazia, ma non è che i catafratti avessero avuto possibilità di scegliere. a nessuno tra quelli che gravitavano nell'orbita di eugene jackson era stato concesso il libero arbitrio — una volta scelti, non esisteva scampo. il Serpeverde aveva sempre agito come un parassita, scavandosi un posto nella vita della gente; se gli fosse mai pesato non essere la prima scelta di qualcuno (no), euge non l'aveva dato a vedere.
    «ti consiglio di rimanere dove sei: c’è il coprifuoco, e non sono di buon umore.» aveva fatto uno strappo alla regola, il Jackson: tutti quegli scalini e neanche un cazzo di corrimano al quale aggrapparsi per riprendere fiato. dov'era il rispetto? ma su in cima alla torre di astronomia ci era salito comunque, tra una bestemmia e l'altra, dita incrociate affinché il legno sotto i suoi piedi reggesse il peso — minchia se non approfittavano ora del bonus 110% per la ristrutturazione tanto valeva lasciar cadere la vecchia baracca a pezzi. e arrivando su in alto con un accenno di fiato corto si era anche beccato la minaccia™. sorrise, senza che lei potesse vederlo, entrambe le mani a premere sul petto assicurandosi che il cuore rimanesse saldo al suo posto «potresti farmi tranquillamente il culo, lo so» quello anche se fosse stata di buon umore, era risaputo. heidrun crane avrebbe vinto sempre, in un modo o nell'altro, con o senza concessioni speciali; era un potere che esulava dal saper copiare quelli degli altri, e sul Jackson aveva effetto sin dall'alba dei tempi «se mi avvicino rischio di volare giù dalla finestra?» chiese, senza avanzare di un passo, una forma di rispetto che raramente eugene era stato in grado di mostrare.
    non aveva paura di lei
    aveva dato parte della propria vita per salvare quella di run, avevano condiviso la parte restante
    ma ne percepiva il dolore.
    lo aveva provato lui stesso.
    la differenza stava nel fatto che Jeremy non era morto — nessun cadavere, ricordate? euge ci aveva campato mesi con quell'unica convinzione, quando tutti gli altri ripetevano incessantemente che doveva accettare la cruda realtà: gli scomparsi non sarebbero più tornati. run, gemes, will, ake, fattene una ragione eugene. e lui se l'era fatta? no.
    erano tornati? si. al Jackson non importava un cazzo di niente oltre a quello.

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    You're facing down A dark hall
    I'll grab my light And go with you
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    Non era sempre stata sentimentale, Heidrun. Non al punto da perdere se stessa, solo la bocca fuori da un’acqua in cui rischiava di annegare. Aveva vissuto troppo, e tutto intensamente, sentendolo sulla punta della lingua come una prima volta ed un addio tutto insieme, ma in ognuna di quelle occasioni aveva mantenuto saldo il proprio addestramento. Presente e concreta a se stessa perfino nei momenti in cui l’adrenalina quasi le faceva dimenticare il proprio nome. Non l’aveva cambiata crescere; l’aveva cambiata rimanere. Stare nello stesso posto abbastanza da non volersene andare, affezionarsi a volti ed abitudini. Per anni non aveva avuto nulla che valesse il terrore di perderlo.
    Lo aveva.
    Chiuse gli occhi. Una Run precedente, avrebbe riconosciuto i passi sulle scale della torre come fossero stati propri – forse, in parte, perchè lo erano. Batteva lo stesso cuore nel petto della Crane e del Jackson, da prima che la magia li legasse ad uno stesso ritmo. Una pasta simile, il sorriso a completarsi, la capacità di premere un pollice e lasciare un segno indelebile. Avrebbe dovuto sapere chi fosse, perché quegli stessi passi li aveva sentiti per anni echeggiare nel corridoio dell’appartamento a New Hovel, al Ministero quando ancora lavoravano insieme, a battere sul pavimento al ritmo di musica presente o inventata da un bar all’altro.
    Ma non fu così. «potresti farmi tranquillamente il culo, lo so» E non diede segno di averlo riconosciuto, pur avendolo fatto, anche quando la voce di Euge le giunse alle orecchie portando con sé un senso di conforto, e famigliare, e casa. Si concesse ancora un istante solo per se, perché non era pronta. Bisognava essere in un adeguato e preciso stato d’animo per accettare le cose belle, quando nascevi Crane e Milkobitch: bisognava inspirare, ed espirare, e scavare un buco a terra dove poterle seminare senza il rischio di farle marcire o dimenticarle. «se mi avvicino rischio di volare giù dalla finestra?» Contorse le labbra in un angolo, socchiuse dolorosamente gli occhi, e si disse che piangere perché Eugene Jackson la conoscesse abbastanza da domandarglielo, ed aspettare una risposta, non fosse una soluzione accettabile. Era stata tante cose nella sua vita, perfino morta, ma fragile non era un’etichetta che avrebbe accettato di incollarsi sulla fronte senza prima lottare. Si sentiva delicata, e lo odiava. Odiava ogni fottuto istante in cui temeva che un respiro di troppo avrebbe fatto crollare tutto il sistema, perché lei non era così. Vaffanculo. Voleva essere arrabbiata, ma non sapeva con chi; voleva essere felice, ma non sapeva per cosa. Come sempre, Heidrun Ryder Crane voleva troppo, e le mancavano le direzioni per arrivare alla giusta meta senza perdersi un pezzo per strada.
    Attese ancora un paio d’istanti. Ticchettò con l’unghia del pollice sulla cenere della canna, e curvò infine parte della bocca in un sorriso. «nah. non ci ucciderei in maniera così patetica» una fugace occhiata alle proprie spalle verso il docente di Arti Oscure, abbastanza breve da rassicurarlo che ehi, ci sono, è tutto ok ed al contempo da non essere costretta a mantenere il sorriso troppo a lungo. «degli squali magari. Un coccodrillo» non lo invitò a sederle accanto, ma si spostò abbastanza perché potesse farlo. Singhiozzò drammatica, una mano al cuore e l’altra ad offrire il filtro al moro – un giorno, li avrebbero licenziati entrambi. «t-jade» sapevano entrambi che il tricheco non aspettasse altro da anni; magari, prima della loro dipartita, la Crane avrebbe deciso di darle quel contentino.
    Tacque, poi. Perchè di cose da dire ne aveva troppe, ma non voleva. Non avrebbe saputo da che parte cominciare, comunque. Aveva abbandonato la testa sulla spalla di Euge, lo sguardo naufrago sulla superficie del Lago Nero. Così, poteva andare bene. Poteva già bastare.
    Ma non era abbastanza, e fu con voce molto sottile che ruppe il silenzio, la gola a muoversi nel deglutire aria e saliva. «posso odiarti? Per un po’» non tanto, solo un po’. Quanto bastava per soddisfare quella parte violenta, cruda e incontrollata che aveva bisogno di un capro espiatorio, e continuava a trovarlo solo in se stessa. Era un fottuto serpente a mordersi la coda, perché più si sentiva sommersa dai sensi di colpa, più si odiava, e più si arrabbiava con se stessa per odiarsi, e – Crisot santo. Cristo santo. Ma poteva graffiarsi da sola, lasciarsi infettare, e lamentarsi che non fottutamente guarisse? «solo un po’»
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2 replies since 27/12/2022, 18:34   90 views
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