we're all just the same, what a shame

ft. ben

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  1. [bitch]craft
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    Spolliciometro
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    desdemona benshaw
    teen accused of being a bully:
    'somebody has to tell people
    that they're ugly'


    2006 ✧ ravenbitch ✧ cheerleader
    bitch, he spits;
    'witch', he sneers;

    && I say:
    actually, I'm both
    «sarebbe stato più strano se ti avesse risposto»
    Non aveva dovuto neppure fare lo sforzo di alzare la testa, Mona, per percepire la vicinanza di Bennett Meisner; ogni Ben aveva il proprio passo, il proprio ritmo, la propria aura, e la cheerleader aveva imparato a riconoscere e isolare quella della mora da anni: sarebbe stata in grado di chiudere gli occhi, in una stanza piena zeppa di gente, e trovare la propria strada fino a Bennett Meisner senza inciampare mai sul proprio cammino, né vacillare o essere indecisa su quale percorso seguire. Un filo rosso, invisibile ma resistente, le legava a doppio nodo l’una all’altra; ce n’erano altri, otto per la precisione, che li legavano agli altri Ben10, ma quello che Mona sapeva, senza bisogno di vederlo, la legasse alla giocatrice era del tutto diverso.
    Lo sguardo, tuttavia, Mona lo alzò lo stesso perché chi era lei per privarsi della vista di una creatura così impossibile e speciale come la sua migliore amica, la sua vera anima gemella. «Una ragazza può sperare, no?» La mano salì immediatamente a cercare quella della compagna, un riflesso istintivo come quello di incanalare aria nei polmoni per sopravvivere; c’era un motivo se le loro dita si incastravano perfettamente le une con le altre, se il modo in cui i loro palmi uniti la facessero sentire completa. «Sembrava molto a suo agio, speravo avesse trovato il suo posto nel mondo.» Inutile dire che, dietro le finte parole apprensive della Benshaw, si nascondeva tutto un mondo: che Gali fosse sparita, di nuovo, non le interessava così tanto. Se era grande e grossa per decidere autonomamente di andare in guerra e rompere il (non così) tacito accordo dei Ben10 di astenersi, e di farlo tutti insieme, era anche abbastanza grande da poter risolvere quel problema da sola.
    Offrì uno sguardo veloce ai Moca, schegge zaffiro impassibili e severe: aveva accettato di cercare la special, non voleva dire che dovesse farlo attivamente. «Ma hai ragione, non penso sia Gali.» Un angolo della bocca virò lievemente verso il basso, in una finta espressione delusa, quasi rattristata, al pensiero di aver fatto un buco nell’acqua: oh no«comunque.»
    «se è stata trasfigurata in un animale, non penso sia già nel proprio habitat. Magari possiamo chiedere a qualcuno se hanno recuperato di recente un fuggitivo…?»
    Ah, Bennett, Bennett, Bennett; Bennett, che aveva scelto di raccogliere per strada nove anime e di stringerle sotto la sua ala protettiva, cuore grande e un po’ troppo in bella mostra, per i gusti della cheerleader, che quel cuore voleva custodirlo a sua volta; Bennett, che presto o tardi si sarebbe resa conto che non poteva proteggerli tutti, tutto il tempo, e che alcuni di loro fossero destinati a incasinare le cose più del necessario, finendo in una fitta rete di conseguenze che nemmeno la Meisner avrebbe potuto sbrogliare. Prima o poi qualcuno dei suoi piccoli anatroccoli avrebbe smarrito la via; e allora, quel cuore grande, e leale e cocciuto, avrebbe sofferto.
    Perché lo aveva già visto, Mona, in quel mese e mezzo di Ben 9; dietro la rabbia e dietro l’orgoglio ferito di Bennett, c’era anche una nota di apprensione che la corvonero aveva mascherato con parole dure, distratta solo dal pensiero dei G.U.F.O. e della corsa alla gloria nella Coppa delle Case.
    «è ancora lei?»
    Preferiresti non lo fosse?
    Mona non ammorbidì lo sguardo, non sarebbe stato da lei, ma lasciò che le dita accarezzassero il dorso della mano di Ben con movimenti circolari, lenti e calcolati. «È ancora lei», affermò, allontanandosi dalla teca dei Moca e portando con sé la concasata, in una passeggiata che non aveva in sé l’urgenza che avrebbe dovuto, all’idea di una di loro smarrita e trasfigurata; non era nelle corde di Mona Benshaw dimostrarsi inquieta, e non avrebbe di certo peccato di incoerenza proprio quel giorno. «Dipende dalla magia, in verità. In teoria dovrebbe essere ancora lei,» non potevano averla persa da più di dieci o quindici minuti, tutto sommato; anche se fosse stato di più, Mona dubitava che nel giardino zoologico di Carrow’s District, tra famiglie e coppiette e allevatori di creature magiche, ci fossero maghi o streghe o special in grado di utilizzare una magia così forte da cancellare del tutto la coscienza umana e sovrascriverla con quella animale in un tempo che scendesse drasticamente sotto le ventiquattro ore — già quello era inverosimile e pretenzioso. Fece schioccare la lingua contro il palato, le dita ancora ad accarezzare la mano di Ben, come spesso faceva quando era sovrappensiero. «Gli esseri umani trasfigurati in altre creature mantengono la propria coscienza, o comunque stralci di essa,» parlò con fare pratico, recitando le nozioni imparate dai libri e dalle lezioni, e poi fatte sue fino a sentirsi confidente abbastanza da poter parlare e spiegare un qualcosa che poteva dire di conoscere bene, «ciò che basta, in sostanza, a non farli comportare totalmente in maniera animale, ecco. A non farli sparire Se me lo sto inventando? Certo che sì, ma cosa ne so io. «Ma più passa il tempo, e più quella coscienza scivola via. Presto o tardi cedono all'istinto animalesco e diventano la creatura.» Solitamente succedeva in spazi talmente diluiti nel tempo da richiedere mesi, o addirittura anni, a seconda di quanto forte fosse la coscienza della vittima; nel non detto di Mona, e nel tono tranquillo utilizzato per spiegare qualcosa di banale come l’argomento trattato alla fine del quarto anno, c’era tutto quello che a Ben interessava: Bengali era ancora Bengali, sebbene confinata nell’aspetto di chissà quale creatura.
    «È raro, ma può succedere, che un umano che abbia passato troppo tempo costretto nelle sembianze di qualche animale, smetta di sentirsi del tutto umano una storia affascinante, sotto il punto di vista della psicologia, ma anche banalmente comprensibile: passavi così tanto tempo a comportarti da animale che, alla fine, non ti riconosci più nei pattern e negli atteggiamenti tipici dell’uomo. «Come la storia di Sameer Singh, un mago maledetto da un rivale, per qualche motivo banale come i soldi o l’amore o qualche torto subito in passato,» con un cenno della mano libera lasciò cadere la questione: non era la parte importante, «trasformato in un airone, e costretto a seguire la natura di volatile e i flussi migratori; a Sameer era permesso tornare umano solo per ventiquattro ore l’anno, il giorno del solstizio d’estate.» Poetico, e triste allo stesso tempo. «Né la moglie, né la famiglia, sono mai riusciti a spezzare la maledizione; chiedere aiuto ad altri maghi sarebbe stato considerato vergognoso — Sameer aveva gettato sul loro nome un’ombra di imbarazzo, per questa o quell’altra cosa,» ancora una volta: non il succo della questione, «e alla fine, col passare del tempo, e degli anni, quelle ventiquattro ore da umano iniziarono a diventare la vera maledizione di Sameer; oramai la sua vita era nel cielo, insieme al suo stormo di aironi, e quella sulla terra ferma non aveva più nulla da offrirgli.» Tirò a sé leggermente la Meisner, sul finire di quella storia, forse un po’ romanzata, ma basata su fatti reali e confermati dalle testimonianze della stessa famiglia Singh. «Un giorno, all’improvviso, Sameer non si presentò all’appuntamento con la moglie. Nessuno lo ha più visto da quella volta, ma alcuni hanno affermato di aver notato un airone immobile sulla riva del lago del villaggio dove abita, ancora oggi, la signora Singh.» Si strinse nelle spalle, «magari è solo un uccello, magari è Sameer. Immagino che non lo sapremo mai.»
    In tutto ciò: Bengali chi.
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