we're all just the same, what a shame

ft. ben

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    Non era così che Mona aveva immaginato sarebbe andato il suo pomeriggio.
    Quando aveva accettato di passarlo allo zoo con i Ben10, aveva dato per scontato che, in un momento imprecisato della passeggiata, sarebbe riuscita a rapire Bennett per qualche minuto, con la scusa di andare a vedere questa o quell'altra gabbia di animali pericolosi, per stare un po' da sole; non un posto romantico, certo, ma infondo loro due non erano Erisha Byrne — avevano un concetto di romanticismo ben diverso dal capitano blu-bronzo.
    Mona sapeva come conquistare il cuore dell'amica e il piano di dieci anni non prevedeva cioccolatini o fiori, ma coltellini dalle lame affilate e rituali di sangue eseguiti sotto la luce della luna.
    Ma comunque, era inutile farsi tutti quei film perché quel giorno Ben aveva scelto di preferire il volontariato – camminando fianco a fianco con Ficus per assicurarsi che il gigante non finisse per sbaglio nella teca dei Jezpot – alla sua compagnia in solitaria; Mona poteva accettarlo perché in cambio aveva avuto il lasciapassare per bullizzare il Goblin (non Marco, ciao Marco). Lo aveva già fatto finire “per sbaglio” in una delle fontane del parco e poi, dopo essersi offerta di accompagnarlo a cercare un bagno per asciugarsi, l'aveva lasciato lì per andare a prendersi un gelato. Avrebbe potuto (mentire) giustificarsi dicendo che lo faceva per lui, per fargli fare le ossa e preparlo al mondo — ma in realtà era solo divertente prendersi gioco di lui, come informò gli altri Ben meno di venti minuti dopo, quando la trovarono sopra una panchina con una coppetta cioccolato e fragola in mano e il cucchiaino stretto tra le labbra ciliegia. Non aveva nemmeno offerto delle scuse al Goblin, a che pro? Lo sapevano bene entrambi - e tutti Ben - che l'avrebbe fatto di nuovo. Perché era lo sgorbio del gruppo, e perché era uno special. Non le servivano tante altre motivazioni.
    Checché ne dicesse Dara, Mona non li considerava tutti nella stessa maniera o degni delle stesse attenzioni e affetto: aveva i suoi preferiti (Ben, Balty, Ficus) e poi c'erano quelli che sopportava a fatica (Delilah, Ictus); tutti gli altri finivano nell'oblio che stava nel mezzo, un posto dove le cure della Benshaw non arrivavano, ma dove non arrivava nemmeno il suo bullismo. Li accettava perché erano lì, così come loro accettavano la sua presenza per via di Ben.
    Pazienza; non tutte le amicizie potevano essere perfette, e non tutte le sorelle maggiori insegnavano a quelle minori come accettare i difetti degli altri e a dar loro un'occasione. Alcune insegnavano come mentire. Mona adorava Cherry e non avrebbe mai scambiato i suoi insegnamenti con nulla al mondo: gli Sgorbi di quella società non meritavano seconde occasioni.
    E, se proprio doveva decidere di darne, allora preferiva farlo con le Bengali della situazione — almeno erano piavevoli alla vista, duh.
    A proposito della Tipton.
    «Non poteva succedere a Parker?» le iridi zaffiro si posarono con decisione sulla serpeverde, poi la studiarono da capo a piedi: era ancora lì, purtroppo per tutti, a differenza di Gali. Andava da sé che, fosse successo a Delilah, Mona non si sarebbe sprecata a cercarla per tutto lo zoo: poteva benissimo rimanere lì, nel suo habitat naturale, in mezzo alle bestie sgraziate e selvagge quale era ella stessa.
    E invece no, era toccato alla pirocineta.
    Vi starete domandando cosa... beh, semplice: Bengali Tipton era diventata un animale e loro se l'erano persa.
    Nello zoo.
    Pieno di animali.
    Come se non bastasse, poi, i nove Ben rimanenti non avevano la minima idea del tipo di animale in cui si era trasformata: praticamente, stavano cercando il proverbiale ago nel fottuto pagliaio.
    «Grandioso.» Decisamente non il pomeriggio che aveva previsto.
    Guardò Ben per qualche secondo, poi sospirando borbottò «immagino che ora dovremo dividerci per cercarla, non è così?» Bengali era davvero fortunata ad avere un bel visino — le priorità di Mona erano molto chiare.
    (E poi, la prigione le aveva unite.)
    (Vedi Dara? Il problema non è Mona — lei è in grado di affezionarsi.)
    Sospirò, tradita dal suo stesso subconscio.
    «Va bene, andiamo a cercare il fiammiferino.» Solo ed esclusivamente perché sapeva che Ben non sarebbe andata via da Carrow's District senza aver prima radunato tutti i suoi anatroccoli: tanto valeva aiutare e sperare di fare più in fretta.
    Incamminandosi in una delle vie del giardino zoologico, iniziò a guardarsi intorno cercando nelle espressioni intelligenti delle creature una che potesse ricordarle la Tipton: fin'ora, non aveva avuto alcun successo.
    Stanca (aveva fatto solo pochi metri ma era più di quanto avesse fatto per nessuno, Bennett Meisner esclusa — perciò era giustificata.) si posò con i gomiti sulla balaustra, studiando con attenzione uno degli esemplari di Moca placidamente a mollo nel bacino d'acqua. Mh. «Bengali?» Con ogni probabilità: no. Ma chiedere non costava nulla, giusto?
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    prompt rubato da quelli di radupisa.
    CITAZIONE
    Un amico di A è stato trasfigurato in un animale, ma non sa quale. B lo aiuta a rintracciarlo.
     
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    «non può essere così difficile» Bennett Meisner, che non poteva rinunciare a vestirsi di nero neanche nelle giornate infernali come quella - il sole è solo un concetto; il caldo è solo nella testa, non esiste, non lo percepisco: manifesting - sbuffò a denti stretti, la lingua contro gli incisivi inferiori. Calciò il coperchio di una ghianda che si portava appresso dall’entrata al parco, la fronte ancora accartocciata nella sua posa riflessiva ingrugnita, come la chiamava Gol appiattendole le rughe con la punta dell’indice. Nulla da aggiungere, tutto vero - d’altronde, la sedicenne portava tutti i propri pensieri sulla pelle come lentiggini, enfatizzandole anziché cercando di nasconderle. Perchè avrebbe dovuto? Era sincera e genuina in tutto quello che provava e pensava, perfino quando, come in quel momento, entrava nella sua delulu era. Non vedeva draghi come Balt che era strafatto metà del suo tempo, e neanche Gargoyle King come Dara, ma aveva anche lei le sue allucinazioni.
    Tipo credere che iniziare a lavorare, con un contratto! E delle ore pagate! Le persone!, non fosse così difficile. Lo facevano tutti, perché avrebbe dovuto essere diverso per lei…? Solo perché non conosceva l’ambiente, e non aveva passato gli ultimi cinque anni e mezzo della sua vita con i colleghi con cui avrebbe dovuto collaborare?
    Ugh. Lì stava forse uno dei punti più deboli del testardo carattere della Corvonero – possessiva, e di nicchia. Non voleva aprirsi ad altre persone, contenta del suo piccolo decagono sociale, e di conseguenza partiva prevenuta in qualsiasi contesto che implicasse la presenza di membri esterni alla sua cricca. Come se non bastasse, in quanto cameriera avrebbe dovuto servire degli esseri umani, ed essendoci passata da cliente, sapeva fossero tutti dei rompicoglioni (s’inseriva nel mazzo, perché le piaceva credere di essere coerente). Un altro passo, un altro calcio a quella che era stata una ghianda. Ficus era troppo distratto per darle ascolto, fra i mille suoni ed animali variopinti che li circondavano – ma per una volta non l’avrebbe trascinato a forza sul piano del reale, lasciandolo sorridere ignaro a tutte le creature sul loro percorso. Parlava per se stessa, Ben. Credeva nell’auto affermazione. A essere del tutto onesti, non voleva la sentisse: c’erano dubbi che dovevano rimanere fra lei e Dio, e quelli in se stessa certamente rientravano in categoria. Era pur sempre la sorella di Nelia, e sarebbe stato troppo bello se dalla Hatford avesse preso solo lati positivi. Chiedere aiuto non era un problema per nessuna delle due, anche se la Corvonero faticava ad ingoiare perfino quello, ma ammettere di doverlo fare era uno scalino spesso insormontabile. Richiedeva tanti, tantissimi respiri profondi, e mai nessuna certezza che quei pensieri si sarebbero concretizzati in parole. Non pensava fosse sinonimo di debolezza, ma… sapeva di essere percepita in un certo modo, e ne andava fiera. Ammettere che quel riflesso fosse solo un miraggio, sarebbe stato un colpo troppo duro per la sua autostima.
    Il messaggio arrivò in contemporanea sia a lei che a Ficus, l’unico adolescente al mondo che ancora avesse il telefono non impostato su silenzioso, e Ben si chinò dietro la schiena del Tassorosso per leggere lo schermo sotto il maledetto sole britannico. Le piaceva la pioggia, mentre non sapeva che farsene di tutta quella …. luce. Odiava anche l’odore della crema solare, ma la accettava perché a spalmargliela sul viso era Mona: un passo fondamentale della skin care, a quanto pareva. «hanno ….perso bengali» Corrugò le sopracciglia. Una pausa.
    Bennett valutò seriamente l’idea di sbattersene il cazzo, e continuare con la loro gita.
    Scosse il capo, picchiettando la fronte sulla schiena di Ficus con un sospiro sottile. Ci stavano provando, a riabituarsi gli uni agli altri. Qualcuno (Ben; Paris) sembrava metterci più tempo, ma ci stavano provando, ed anche nei casi più drastici funzionavano come pacchetto unico. «quanto ci dai che è stato balt?» Fece piroettare il biondo sul posto così che potessero andare nella direzione da cui erano arrivati, porgendogli la mano perché la stringesse. Voleva evitare si perdesse anche lui, grazie tante, ma in generale a Ben piaceva tenere per mano i suoi amici. Perfino quella piattola di Lila, che sbuffava tutto il tempo come se a lei non piacesse: non c’era spazio per le stronzate, nella vita di Bennett Meisner.
    Giunsero dal resto del gruppo giusto in tempo per il prevedibile «Non poteva succedere a Parker?» di Mona, a cui Ben alzò gli occhi al cielo (affectionate). Erano amici da un terzo della loro vita, eppure la Meisner ancora non aveva capito con esattezza quale fosse il problema della concasata con la Serpeverde. C’era anche da dire fosse una domanda che si poneva davvero poco di frequente, perché se si fosse fermata a chiedersi i motivi per i quali la Benshaw ce l’avesse con qualcuno, avrebbe perso un sacco di tempo che avrebbe invece potuto saggiamente usare su tiktok. Un modo come un altro per dire che non le importasse abbastanza, fintanto che non avesse odiato lei: faceva parte della dinamica del gruppo, e per quanto Mona fosse edgy, Ben sapeva che a suo modo, e con le sue percentuali, volesse bene a tutti e nove, e li avrebbe comunque preferiti a chiunque altro. Ricambiò l’occhiata della Benshaw, ammonendola con un sopracciglio inarcato. Sì, Mona, andremo a cercare Gali. «immagino che ora dovremo dividerci per cercarla, non è così?» «è più semplice coprire tutto il parco, visto che qualcuno non sa neanche che animale sia diventata» dal caotico scambio di messaggi in chat – metà delle quali erano sticker senza senso – aveva colto abbastanza da poter fare quel commento guardando di sottecchi Balt e Gol, che si strinsero nelle spalle più o meno colpevoli. Immaginava di non poterli biasimare: Gali era andata in guerra, avrebbe dovuto essere abbastanza responsabile da non perdersi allo zoo. In forma d’animale, per giunta. Non poteva biasimarli per essersela persa di vista. A statistica, avrebbe detto che i più papabili a diventare creature fossero Balt e Ficus, perché troppo fiduciosi nel genere umano, e Gol e Dara, perché non sapevano quando tenere la bocca chiusa.
    «Va bene, andiamo a cercare il fiammiferino.» E mentre Mona si avviava già alla ricerca della Gali scomparsa, Gol, Dara, Ben e Paris facevano morra cinese per dividersi il resto delle persone con più possibilità di perdersi: Paris, bastoncino corto, con Goblin; Gol e Ficus; Dara, Balt e Delilah; eh, avrebbe fatto l’enorme sacrificio di andare con Desdemona Benshaw, che doveva fare. No, non aveva barato: Ben aveva semplicemente un meraviglioso rapporto simbiotico con il Fato (o la palla, o i dadi) che tendeva a volgere le situazioni a suo vantaggio.
    Un Bardo qualsiasi.
    Oddio, era Maicah? (derogatory)
    Arrivò alle spalle di Mona, una smorfia divertita al «Bengali?» verso il coccodrilletto sulla roccia. Si appoggiò con i gomiti al recinto, dando le spalle agli animali per guardare la Benshaw. Un tattico colpo di testa, e fece scivolare le lenti scure degli occhiali da sole sulla punta del naso. «sarebbe stato più strano se ti avesse risposto» incoraggiò, abbozzando un sorriso. Le offrì la mano a palmo aperto, indicandole con un cenno il resto della strada. «se è stata trasfigurata in un animale, non penso sia già nel proprio habitat. Magari possiamo chiedere a qualcuno se hanno recuperato di recente un fuggitivo…?» Un po’ rimpianse di non aver prestato la giusta attenzione alle lezioni di Freddie – a suo favore, era un lesbofobico, lo sentiva nelle ossa - e non avere assolutamente idea di come funzionasse la trasfigurazione umana, se come animali mantenessero o meno la propria identità. Già faticava con la forma animagus, ed era un processo completamente diverso. «è ancora lei?» perché Mona invece era una donna di cultura, e certe cose le sapeva TM, e non si vergognava mai di chiedere alla Benshaw: poteva mansplaining quanto voleva *meme del tipo che spiega e quello di sotto che ascolta heart eyes*
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    «sarebbe stato più strano se ti avesse risposto»
    Non aveva dovuto neppure fare lo sforzo di alzare la testa, Mona, per percepire la vicinanza di Bennett Meisner; ogni Ben aveva il proprio passo, il proprio ritmo, la propria aura, e la cheerleader aveva imparato a riconoscere e isolare quella della mora da anni: sarebbe stata in grado di chiudere gli occhi, in una stanza piena zeppa di gente, e trovare la propria strada fino a Bennett Meisner senza inciampare mai sul proprio cammino, né vacillare o essere indecisa su quale percorso seguire. Un filo rosso, invisibile ma resistente, le legava a doppio nodo l’una all’altra; ce n’erano altri, otto per la precisione, che li legavano agli altri Ben10, ma quello che Mona sapeva, senza bisogno di vederlo, la legasse alla giocatrice era del tutto diverso.
    Lo sguardo, tuttavia, Mona lo alzò lo stesso perché chi era lei per privarsi della vista di una creatura così impossibile e speciale come la sua migliore amica, la sua vera anima gemella. «Una ragazza può sperare, no?» La mano salì immediatamente a cercare quella della compagna, un riflesso istintivo come quello di incanalare aria nei polmoni per sopravvivere; c’era un motivo se le loro dita si incastravano perfettamente le une con le altre, se il modo in cui i loro palmi uniti la facessero sentire completa. «Sembrava molto a suo agio, speravo avesse trovato il suo posto nel mondo.» Inutile dire che, dietro le finte parole apprensive della Benshaw, si nascondeva tutto un mondo: che Gali fosse sparita, di nuovo, non le interessava così tanto. Se era grande e grossa per decidere autonomamente di andare in guerra e rompere il (non così) tacito accordo dei Ben10 di astenersi, e di farlo tutti insieme, era anche abbastanza grande da poter risolvere quel problema da sola.
    Offrì uno sguardo veloce ai Moca, schegge zaffiro impassibili e severe: aveva accettato di cercare la special, non voleva dire che dovesse farlo attivamente. «Ma hai ragione, non penso sia Gali.» Un angolo della bocca virò lievemente verso il basso, in una finta espressione delusa, quasi rattristata, al pensiero di aver fatto un buco nell’acqua: oh no«comunque.»
    «se è stata trasfigurata in un animale, non penso sia già nel proprio habitat. Magari possiamo chiedere a qualcuno se hanno recuperato di recente un fuggitivo…?»
    Ah, Bennett, Bennett, Bennett; Bennett, che aveva scelto di raccogliere per strada nove anime e di stringerle sotto la sua ala protettiva, cuore grande e un po’ troppo in bella mostra, per i gusti della cheerleader, che quel cuore voleva custodirlo a sua volta; Bennett, che presto o tardi si sarebbe resa conto che non poteva proteggerli tutti, tutto il tempo, e che alcuni di loro fossero destinati a incasinare le cose più del necessario, finendo in una fitta rete di conseguenze che nemmeno la Meisner avrebbe potuto sbrogliare. Prima o poi qualcuno dei suoi piccoli anatroccoli avrebbe smarrito la via; e allora, quel cuore grande, e leale e cocciuto, avrebbe sofferto.
    Perché lo aveva già visto, Mona, in quel mese e mezzo di Ben 9; dietro la rabbia e dietro l’orgoglio ferito di Bennett, c’era anche una nota di apprensione che la corvonero aveva mascherato con parole dure, distratta solo dal pensiero dei G.U.F.O. e della corsa alla gloria nella Coppa delle Case.
    «è ancora lei?»
    Preferiresti non lo fosse?
    Mona non ammorbidì lo sguardo, non sarebbe stato da lei, ma lasciò che le dita accarezzassero il dorso della mano di Ben con movimenti circolari, lenti e calcolati. «È ancora lei», affermò, allontanandosi dalla teca dei Moca e portando con sé la concasata, in una passeggiata che non aveva in sé l’urgenza che avrebbe dovuto, all’idea di una di loro smarrita e trasfigurata; non era nelle corde di Mona Benshaw dimostrarsi inquieta, e non avrebbe di certo peccato di incoerenza proprio quel giorno. «Dipende dalla magia, in verità. In teoria dovrebbe essere ancora lei,» non potevano averla persa da più di dieci o quindici minuti, tutto sommato; anche se fosse stato di più, Mona dubitava che nel giardino zoologico di Carrow’s District, tra famiglie e coppiette e allevatori di creature magiche, ci fossero maghi o streghe o special in grado di utilizzare una magia così forte da cancellare del tutto la coscienza umana e sovrascriverla con quella animale in un tempo che scendesse drasticamente sotto le ventiquattro ore — già quello era inverosimile e pretenzioso. Fece schioccare la lingua contro il palato, le dita ancora ad accarezzare la mano di Ben, come spesso faceva quando era sovrappensiero. «Gli esseri umani trasfigurati in altre creature mantengono la propria coscienza, o comunque stralci di essa,» parlò con fare pratico, recitando le nozioni imparate dai libri e dalle lezioni, e poi fatte sue fino a sentirsi confidente abbastanza da poter parlare e spiegare un qualcosa che poteva dire di conoscere bene, «ciò che basta, in sostanza, a non farli comportare totalmente in maniera animale, ecco. A non farli sparire Se me lo sto inventando? Certo che sì, ma cosa ne so io. «Ma più passa il tempo, e più quella coscienza scivola via. Presto o tardi cedono all'istinto animalesco e diventano la creatura.» Solitamente succedeva in spazi talmente diluiti nel tempo da richiedere mesi, o addirittura anni, a seconda di quanto forte fosse la coscienza della vittima; nel non detto di Mona, e nel tono tranquillo utilizzato per spiegare qualcosa di banale come l’argomento trattato alla fine del quarto anno, c’era tutto quello che a Ben interessava: Bengali era ancora Bengali, sebbene confinata nell’aspetto di chissà quale creatura.
    «È raro, ma può succedere, che un umano che abbia passato troppo tempo costretto nelle sembianze di qualche animale, smetta di sentirsi del tutto umano una storia affascinante, sotto il punto di vista della psicologia, ma anche banalmente comprensibile: passavi così tanto tempo a comportarti da animale che, alla fine, non ti riconosci più nei pattern e negli atteggiamenti tipici dell’uomo. «Come la storia di Sameer Singh, un mago maledetto da un rivale, per qualche motivo banale come i soldi o l’amore o qualche torto subito in passato,» con un cenno della mano libera lasciò cadere la questione: non era la parte importante, «trasformato in un airone, e costretto a seguire la natura di volatile e i flussi migratori; a Sameer era permesso tornare umano solo per ventiquattro ore l’anno, il giorno del solstizio d’estate.» Poetico, e triste allo stesso tempo. «Né la moglie, né la famiglia, sono mai riusciti a spezzare la maledizione; chiedere aiuto ad altri maghi sarebbe stato considerato vergognoso — Sameer aveva gettato sul loro nome un’ombra di imbarazzo, per questa o quell’altra cosa,» ancora una volta: non il succo della questione, «e alla fine, col passare del tempo, e degli anni, quelle ventiquattro ore da umano iniziarono a diventare la vera maledizione di Sameer; oramai la sua vita era nel cielo, insieme al suo stormo di aironi, e quella sulla terra ferma non aveva più nulla da offrirgli.» Tirò a sé leggermente la Meisner, sul finire di quella storia, forse un po’ romanzata, ma basata su fatti reali e confermati dalle testimonianze della stessa famiglia Singh. «Un giorno, all’improvviso, Sameer non si presentò all’appuntamento con la moglie. Nessuno lo ha più visto da quella volta, ma alcuni hanno affermato di aver notato un airone immobile sulla riva del lago del villaggio dove abita, ancora oggi, la signora Singh.» Si strinse nelle spalle, «magari è solo un uccello, magari è Sameer. Immagino che non lo sapremo mai.»
    In tutto ciò: Bengali chi.
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    «Sembrava molto a suo agio, speravo avesse trovato il suo posto nel mondo.» Strinse distrattamente la mano di Mona nella propria, sollevandola per soffiare un bacio sulle nocche. Corrugò d’istinto le sopracciglia, Bennett Meisner, lasciando che il proprio viso tornasse all’espressione truce di poco prima, quella che s’incagliava sempre in pensieri che cercava di evitare. Sfregò le labbra fra loro, mormorando un «l’ha già fatto» amaro, capriccioso e ferito, perché Ben pensava l’avesse trovato con loro molti anni prima, ed invece non erano mai stati abbastanza per lei. Non sapeva cosa le avessero fatto mancare, in quale modo l’avessero costretta a cercare accettazione e spirito di squadra in una fottutissima guerra, e non comprendeva come uccidere civili nella battaglia d’un folle potesse tradursi come posto nel mondo, ma la Bengali Tipton di ritorno dal fronte le era sembrata diversa. Sicura di quel che diceva, e peggio, non diceva. Più nella propria pelle di quanto lo fosse mai stata.
    Avrebbe dovuto essere un bene.
    Ma come poteva.
    Ed oltre al danno morale, c’era lo smacco all’orgoglio della Corvonero, un silente sono stati più bravi di te che mirava a qualcosa che la sedicenne neanche si rendeva conto fosse vulnerabile ed esposto. Non si sentiva insicura, Ben. Mai. Non significava che non lo fosse, e non lo manifestasse nel modo che più le tornasse congeniale: rabbia, fastidio, ed un taglio netto e pulito di tutti i ponti.
    Se la stava cercando, era solo per principio – quello di non darle ragione, e di esserci sempre e comunque, perché era maledettamente quello che facevano gli amici. Perfino quando si odiavano, non riuscivano mai a farlo nel modo giusto; era un odio troppo corrotto da altro perché restasse solo quello. «È ancora lei» Fece per annuire, e trascinare la Benshaw verso uno dei luoghi di recupero - scelti a inizio di ogni gita, altrimenti con il cazzo che si ritrovavano a fine giornata – quando quella continuò la spiegazione, togliendo speranze ed un sospiro alla cacciatrice. Un sospiro un po’ sognante, perché le persone intelligenti le facevano sempre un certo effetto, e Desdemona Benshaw era sempre partita avvantaggiata. «Dipende dalla magia, in verità. In teoria dovrebbe essere ancora lei, gli esseri umani trasfigurati in altre creature mantengono la propria coscienza, o comunque stralci di essa, ciò che basta, in sostanza, a non farli comportare totalmente in maniera animale, ecco. A non farli sparire.» Piegò il capo verso il cielo, offrendo al sole le lenti scure degli occhiali in cui riflettersi. I suoi amici dovevano ringraziare che non fosse abbastanza brava negli incantesimi di Trasfigurazione, o almeno metà del loro tempo l’avrebbero passata in forma animale, nascosti al mondo nel taschino della sua giacca. Ben era quasi sempre al loro fianco per mettere in riga le occhiate che spesso, alcuni di loro, guadagnavano da compagni e non, ma sentiva non fosse abbastanza. Le minacce, non erano abbastanza; i coltellini ficcati nelle (s)palle, non erano abbastanza; i calci alle ginocchia, non erano abbastanza. Il prossimo passo, se non fosse riuscita a capire come impedire all’universo di farli sentire, consapevoli o meno, inadeguati al mondo, era l’omicidio. Potevano cavarsela da soli? Certo, ma non era su quello che avevano fondato il loro patto di sangue. «Ma più passa il tempo, e più quella coscienza scivola via. Presto o tardi cedono all'istinto animalesco e diventano la creatura.» Ah, ecco. Un piano che si autoescludeva da solo, allora: erano già abbastanza bestie senza il suo intervento divino. «È raro, ma può succedere, che un umano che abbia passato troppo tempo costretto nelle sembianze di qualche animale, smetta di sentirsi del tutto umano,» Aveva senso. Immaginava non fosse poi così diverso dall’essere graffiati da un lupo mannaro in forma umana, ed acquisire… peculiarità di specie. Continuò a camminare senza una meta precisa, trascinandosi appresso una Mona Benshaw ormai partita per la tangente. Sorrise fra sé, liquido affetto strizzato fra labbra e lingua, ascoltando la voce della concasata narrarle la tragedia della vita di Sameer Singh. Si fermò solo quando si ritrovarono nei pressi del Palo Santo Verde che portava le indicazioni al rettilario, uno dei psb (posti strategici ben) indugiando presso la panchina con sguardo a veleggiare fra persone ed animali. «magari è solo un uccello, magari è Sameer. Immagino che non lo sapremo mai.» La trovava una storia molto emblematica ed affascinante, anche se il secondo aggettivo era forse dovuto più alla voce narrante che alla storia in sé. Si sentì comunque in dovere di fare un unico, arido, commento in merito, sbuffando dispregiativa aria fra i denti. «uomini e uccelli» tutto quel che non le piaceva in tre umili parole (salvava Tuc, perché era malvagio, e il suo terrificante gufo spettro, perché faceva paura). Ammiccò a Mona, tirandola leggermente per il braccio. «secondo me è solo un airone. Perché Sameer dovrebbe tornare? Ormai ha la sua vita» tendeva a semplificare le cose, la Meisner, secondo un preciso sistema di giusto e sbagliato che raramente poteva davvero applicarsi al mondo, e su cui un giorno avrebbe preso una bella facciata. Non quel giorno, sperava. Ancora un po’. «magari è tornata ad hogwarts. Dovremmo mandare un messaggio a qualcuno? Se vedessero arrivare una… creatura randomica» Corrugò le sopracciglia, prendendo il telefono e scorrendo la sua lista di contatti. Di numeri ne aveva tanti, ma che le importassero? Mh. La scelta intelligente sarebbe stata sua sorella, ma preferiva che Gali rimanesse animale vita natural durante che ammettere alla Hatford si fossero persi uno dei ben. «erisha? Neffi?» tentò, un’occhiata di sottecchi a Mona. Alzò lo sguardo sugli altoparlanti da cui provenivano gli avvisi dello zoo. Battè le palpebre. «possiamo provare a chiamarla con uno di quelli. Se e se stessa, arriverà. Se non la è» diede le spalle alla bionda, fingendo di guardare qualcosa dall’altra parte del parco, ma non lasciò la presa sulla sua mano. «amen, è andata così. Troveremo un altro ben. Il tizio tassorosso senza denti, tipo»
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    Contrariamente a quanto succedeva con il resto della popolazione (di Hogwarts, e mondiale) Mona non provava volontariamente a rovinare l'umore di Bennet Meisner; tutto il contrario, a dire il vero: veva fatto della felicità della concasata la sua missione principale, perciò vederla accigliarsi al pensiero di Bengali, la fece sospirare. E non in maniera cute o romantica.
    «l’ha già fatto»
    Certo, certo.
    Prima o poi Ben avrebbe capito che non tutti avevano la sua stessa cieca lealtà, e che non poteva pretendere che altre anime la pensassero esattamente nel suo modo, che condividessero quella territorialità così feroce: qualcuno di loro era destinato a perdersi, nel tempo, e i soldi di Mona erano banalmente piazzati sulle Bengali della situazione. Soldi fin troppo facili, e che la Benshaw non avrebbe scommesso perché non voleva dimostrare che la Meisner si sbagliasse — ma in cuor suo sapeva che c'era alta possibilità che lei avesse ragione. Una situazione senza vincitori, in pratica.
    E tanto sapevano entrambe che ormai, per certi versi, l'avessero già persa.
    Nella rabbia della concasata, Mona poteva leggere qualcosa che forse neppure Ben stessa si rendeva conto di possedere: paura di non essere all'altezza, una insicurezza che non aveva modo di esistere, perché se qualcuno – poniamo l'esempio: Bengali – pensava di poter trovare di meglio nel mondo, meglio di Bennet Meisner, nella sua feroce e cieca lealtà, la sua forza e la sua dedizione, allora non avevano davvero capito nulla del mondo.
    Per sua fortuna, Mona Benshaw era più sveglia dell'essere umano medio, e aveva capito già da tempo le sue priorità, e la teneva stretta per la mano, le lunghe dita ad incastrarsi perfettamente tra gli spazi di quelli della giocatrice.
    Tentò di (conquistarla) distrarla con un racconto, perché sapeva che la via per raggiungere (il cuore di) Bennett Meisner era dimostrarsi colta, socura di sé e piena di risorse, e Desdemona Benshaw rientrava perfettamente nella descrizione.
    Se chiudeva gli occhi forte forte, poteva quasi convincersi di non essere lì alla ricerca della Ben perduta— oh wait, non aveva bisogno di fingere, era già così.
    In verità, raccontare, a Mona, piaceva davvero: era cresciuta tra le parole, che fossero quelle preziose e colte di sua nonna, quelle gonfie e ipocrite dei suoi genitori, o quelle scritte nei libri che vedeva passare sin da giovanissima sotto il suo naso, quando si intrufolava nella sede della Wizzhard e si perdeva tra i manoscritti in attesa di essere stampati e pubblicati; era solo normale che avesse sviluppato una certa predisposizione per le parole, e la dialettica.
    Non era raro che intrattenesse i ben10 con dei racconti, dai toni più svariati — e poi, le piaceva il suo della sua voce.
    «uomini e uccelli»
    Sorrise, quel genere di sorriso che solo Bennett Meisner, o una sciagura ad abbattersi su Parker e Paride, o la presenza di Cherry nella sua vita, tendenzialmente le strappavano: entusiasta, genuino, capace di illuminare un intero villaggio. Il brillantino sul dente in bella mostra, Mona rivolse il suo sorriso color ciliegia in direzione di Ben, annuendo. «Lo so, davvero una pessima accoppiata, ew. Dovrebbe davvero essere questa la morale della storia.» E invece – purtroppo – non lo era.
    Si lasciò tirare, pur non sapendo non ce ne fosse bisogno: avrebbe seguito la concasata ovunque, e sempre. «secondo me è solo un airone. Perché Sameer dovrebbe tornare? Ormai ha la sua vita» Le rivolse una scrollata di spalle, e un semplice: «per come la vedo io, non può cancellare del tutto la sua natura umana, né i legami creati durante quest'ultima» Il che voleva dire che – ugh – Bengali li avrebbe ancora voluto nella sua vita e considerati suoi amici, a discapito di tutto. «Tornerà sempre, in qualche modo, consapevole o meno di starlo facendo, perché richiamato da quello che aveva un tempo. Esseri umani.» Eccoli lì, i suoi umili due scellini di conclusione messi neri su bianco.
    Derogatory, sempre e comunque; creature difettose e, nella maggior parte dei casi, stupide. Erano davvero rare le eccezioni, e una Mona la stringeva a sé senza la minima intenzione di lasciarsela scappare.
    «magari è tornata ad hogwarts. Dovremmo mandare un messaggio a qualcuno? Se vedessero arrivare una… creatura randomica»
    E, a dimostrazione che Mona avesse già capito tutto, Ben confermò che stessero ormai parlando di Bengali, e che Sameer Singh fosse solo una metafora. «Potremmo.» Ma volevano? Uhm, Mona non molto, ma non poteva continuare a tirare la corda per molto, era un argomento troppo delicato e che bruciava sulla pelle di Bennett, e l'ultima cosa che voleva la bionda era che l'altra sfuriasse contro di lei tutti o sentimento negativi riservati invece alla Ben mancante.
    «erisha? Neffi?» ricambiò l'occhiata, senza aggiungere nulla a parole: lei non parlava con le due special – oh, derogatory so – da quando avevano rimesso piede al castello, ma Ben era libera di contattare chiunque volesse. «chi va con lo zoppo…» “birds of a feather” sarebbe stato più poetico, ma in italiano come lo traduci? Ugh. Anyway.
    Seguí lo sguardo della mora fino agli altoparlanti, valutando il suggerimento. «Ma sì,» non avrebbe contribuito con suggerimenti intelligenti perché: non le interessava così tanto trovarla, era davvero lì solo per Bennett.
    Bengali era stata una delle poche eccezioni di Mona, nella questione special, fino a che non le aveva dimostrato – ancora una volta – che avesse avuto sempre ragione; da quel momento, aveva chiuso con la Tipton.
    La mano libera andò automaticamente a cercare la schiena di Bennett, accarezzandola piano mentre posava il mento sulla sua guancia e nascondeva il viso nell'incavo del collo; Bennett Meisner profumava sempre di pergamena, di shampoo al cocco e vagamente di sangue. «Non pensi siamo già apposto per la quota casi umani? Abbiamo Parker, e lo sgorbio.» Avevano davvero bisogno di un tassorosso senza denti? «Ben9 non suona così male.» sussurrò sulla sua pelle, mantenendo quello strano abbraccio.
    Un'altro motivo per cui detestava la Tipton, di recente, era per via del modo che aveva di rovinare l'umore di Bennett con un semplice pensiero: non se la meritava tutta quella importanza. «Tu hai fatto il possibile, Ben, ad un certo punto non dipende più da te E sapeva che l'altra non la vedesse allo stesso modo, ma Mona era lì anche per quel genere di reality check.
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    Sapeva che Mona avesse ragione. Desdemona Benshaw, quando pensava con la propria testa e non con quanto l’avevano cresciuta essere, aveva sempre ragione, ma saperlo non bastava a placare il battito sconnesso nel petto ogni volta che pensava a Bengali Tipton.
    «Tu hai fatto il possibile, Ben, ad un certo punto non dipende più da te.»
    Ed era tutto lì, no? In quelle poche parole, la Meisner avrebbe dovuto trovare il conforto di cui aveva, evidentemente, bisogno. Sapeva di potersi fidare, perché Mona non le aveva mai mentito, e sentiva nella pressione dolce del mento sulla sua spalla, e le dita nelle proprie, che lo dicesse per lei. Che quella rabbia, e quella tristezza, la stavano logorando dall’interno ogni istante della sua giornata, l’eterna goccia a scavare sulla pietra. Non dipendeva da lei. Bengali era libera di fare le proprie scelte, di decidere come vivere la sua vita - se volerci i ben o meno - e lei poteva solo rimanere a guardare. Strinse la compagna a sé, una mano sul fianco e la guancia sulla sua, cercando nel profumo dei suoi capelli la normalità di cui aveva una disperata necessità. Qualcosa che fosse suo, e che fosse in tutte le sue giornate. Che quando il mondo cambiava e si ribaltava, rimaneva sempre dove l’aveva lasciato. «ma è mia amica» soffiò, debole e nuda. Un tono di voce destinato a quando nessuno poteva vederla, che poteva fingere fosse solo per se stessa. Vulnerabile e disperato come una ferita aperta e sanguinante. Capricciosa, perché sentirla con le sue stesse orecchie bastava a farle provare vergogna ed imbarazzo. Una motivazione così stupida, il fatto che Bengali fosse sua amica.
    Ma non per Ben.
    Inspirò piano, sapendo che Mona non avrebbe condiviso, ma avrebbe capito. Chiuse gli occhi, rubando quei minuti solo per sé e per loro, togliendole dall’equazione di esistere in uno spazio tempo fisico e concreto. «ho paura che la strada che si è scelta la porterà lontano da noi, e finirà per perdersi, e non posso farci niente» un bisbiglio, perché sapeva non dipendesse da lei, ma odiava aspettare. Non era mai stata in grado di farlo, impaziente di natura ed attitudine. Non era il tipo di persona in grado di lasciare che il tempo desse la sua soluzione, perché di tempo non ce n’era mai abbastanza, e non sapeva come guardarlo passare senza avere la sensazione di star perdendo qualcosa. Possibilità. Alternative. Scelte.
    «vorrei avesse scelto noi» l’ammissione, infine. Appena soffiata a labbra dischiuse. La crepa in un cuore davvero troppo fragile per una Bennett Meisner conosciuta come fortino impenetrabile. C’erano ben (pun intended) poche cose in grado di passare attraverso, ma se potevano farlo, colpivano sempre a sangue. Si irrigidì, volgendo il capo per premere un bacio sulla guancia della Benshaw più a lungo di quanto fosse necessario, prima di riprendere i propri spazi. La mano la tenne nella sua, ma nel drizzare la schiena, ne evitò accuratamente ogni contatto visivo. «non ha importanza.» perché la aveva, ma parlarne non avrebbe risolto nulla se non scavare nello stesso punto ancora ed ancora. «la cercheremo comunque. Per gli altri» sancì pragmatica, reclinando il capo per tornare a guardare gli altoparlanti del parco, cercando la fonte delle trasmissioni magiche. «dobbiamo intrufolarci nella torre di controllo» Un sorriso punse le labbra della Meisner, che si voltò per tornare a guardare la Corvonero. Certo, avrebbero potuto chiedere gentilmente alle guardie di diramare l’avviso, ma avrebbe tolto tutto il divertimento, e visto che Gali aveva già rovinato la loro giornata facendosi trasformare in animale, le sembrava il modo più legittimo per tornare in carreggiata.
    Qualcosa di stupido ed illegale.
    Un bene (per se stessa.) che puntasse a diventare magiavvocato: tutto allenamento.
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    «ma è mia amica»
    Qualcosa nel modo in cui Ben ammise quella semplice verità, vulnerabile e aperto, strinse inevitabilmente il cuore di Mona — perché un cuore, Mona Benshaw, al contrario di quanto sostenevano i più, ce l’aveva, solo che tendeva a battere per poche persone, e per un numero di questioni che poteva contare sulle dita di una sola mano. Sceglieva lei per chi farlo battere, e la Meisner era stata selezionata senza ripensamenti e senza rimpianti ben due secondi dopo aver incrociato il suo sguardo scuro come l’ebano sei anni prima, sull’Espresso per Hogwarts.
    Proprio per quel motivo si preoccupava di Ben come non si preoccupava di nessun altro, e proprio per quel motivo detestava l'idea che ci fosse qualcuno al mondo in grado di poter far del male alla Meisner, che appariva una fortezza inespugnabile di sentimenti ben celati e tenuti a bada, quando Mona sapeva che in realtà fosse molto più fragile di quanto desse a vedere.
    Non conosceva la Hatford così bene, se non per quello che viveva a scuola, tra una lezione e l’altra, ma aveva una mente acuta e uno sguardo attento, Mona, e sapeva che certi lati del proprio carattere, Bennett li aveva ripresi dalla sorella maggiore, allo stesso modo in cui lei aveva ripreso molte cose da Cherry, seppur non rendendosene conto; quel bisogno di avere vicino le persone che amava, di fare tutto il possibile per loro, anche quando queste chiaramente non lo meritavano, doveva averlo ripreso per la troppa esposizione alla prof di combattimento. A Mona quell’elemento non piaceva, perché c’era un limite a quanto fosse lecito spingersi per salvare una situazione che, chiaramente, non aveva nulla di salvabile.
    Ma il suo cinismo, e la sua freddezza, non erano ciò di cui Ben aveva bisogno in quel momento; non le avrebbe comunque offerto parole di conforto vuote o colme di finte speranze – per quello c’erano Ficus e Balt; se Bennett aveva scelto di confidarsi con lei, era perché dentro di sé sapeva di aver bisogno della ruvidezza del suo punto di vista portato ad osservare e analizzare i fatti così come erano.
    La tenne comunque stretta a sé, e si lasciò stringere di rimando, perché se non altro quello era il suo modo di dimostrare alla concasata che per lei fosse ci fosse sempre, anche se non nei modi più convenzionali o necessariamente quelli di cui la maggior parte delle persone avessero bisogno.
    «ho paura che la strada che si è scelta la porterà lontano da noi, e finirà per perdersi, e non posso farci niente»
    Non erano paure infondate, ed era già chiaro che Bengali avesse scelto la strada sbagliata — quella di schierarsi (punto) dalla parte di un megalomane dispotico e fuori controllo, ma d’altra parte condividevano la stessa magia impura, no? Ugh. Era normale che avesse scelto di seguire Abbadon, e di combattere per lui. Mona non era pronta a giustificarla, o perdonarla, ed egoisticamente desiderava lo stesso da parte di Ben.
    «vorrei avesse scelto noi»
    La corvonero non poteva dire di concordare — se non li aveva scelti, c’era un motivo. Ma per Ben era disposta ad aspettare, ad aspettare con lei, tenendole la mano fino alla fine e abbracciandola quando (inevitabilmente) avesse dimostrato di aver ragione nel rimanere della sua – glaciale – opinione. «alle volte bisogna sbagliare e perdere qualcosa per rendersi conto di quanto fosse importante» Socchiuse gli occhi nel sentire le labbra di Ben poggiarsi delicatamente sulla sua guancia, e con la mano libera accarezzò la sua: sapeva che non era quello ciò che la cercatrice voleva sentirsi dire, che ingenuamente desiderasse Bengali realizzasse già, senza dover perdere nulla, quanto i Ben10 fossero importanti per lei, ma ancora una volta: Mona era lì per riportare i fatti nero su bianco, non per edulcorare una verità innegabile.
    Non le sfuggì il modo in cui, per qualche minuto, Ben evitò con cura di incrociare il suo sguardo, ma la lasciò fare: concederle qualche minuto per riprendersi, per rimettere al loro posto le palizzate con cui proteggeva se stessa e il suo cuore, era il minimo che potesse fare.
    «non ha importanza.»
    Non era una così grande bugiarda, la Meisner, oppure era Mona a conoscerla fin troppo bene, ma la lasciò fare non smascherò la sua farsa, rimanendo in silenzio ed incrociando le braccia al petto. «la cercheremo comunque. Per gli altri» «non per me,» si intromise, osservando la manicure ancora perfetta, «possiamo decisamente fare altro» e c’era solo un pizzico di divertimento a colorare le parole della corvonero, e decisamente molta più serietà di quanto fosse lecito. Ben, ormai abituata, sembrò non farci caso — o scegliere volontariamente di ignorarla.
    «dobbiamo intrufolarci nella torre di controllo»
    «oh meisner,» lo sguardo turchese di Mona si illuminò di una scintilla poco raccomandabile, «stai cercando di conquistarmi, proponendo attività illegali?» sciolse la postura rigida, avvicinandosi civettuola alla compagna, e abbassando il tono di voce. «ci stai riuscendo.»
    Poi, con un sorriso felino, le prese di nuovo la mano e la guidò per un sentiero. «vieni, gli uffici amministrativi sono da questa parte» e, da lì, l’accesso alla torre di controllo che gettava ombre su tutto il giardino zoologico. «ovviamente non passeremo per l’entrata principale» puno primo, perché le avrebbero fermate prima ancora di poter entrare nel raggio visivo degli uffici; punto secondo, perché non ci sarebbe stato alcun gusto a fare le cose in maniera legittima.
    A metà della passeggiata, trascinò Bennett con sé lungo un sentiero nascosto da aiuole e vegetazione più fitta, uno che non era segnato da nessuna mappa del parco, e dopo poco le indicò una struttura a qualche metro di distanza. «credo lo usino come magazzino, o ripostiglio… non ne ho idea, non mi interessa. ma–» e, portando due dita sotto il mento della giocatrice, lo sollevò dolcemente per farle osservare un punto più in alto, «è direttamente sotto la torre di controllo. io dico che lì dentro c’è un passaggio secondario per raggiungere la torre, e tu?»
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    Improvvisa come si era aperta, la finestra emotiva di Bennett Meisner era chiusa. Doppia mandata, non si era mai abbastanza sicuri, e petto rivolto al resto delle priorità, perché non si poteva dire che la Corvonero non fosse pragmatica. Se esistevano problemi che non era in grado di risolvere, dopo il lecito stadio di furia semi omicida con cui affrontava ogni ostacolo sul suo cammino, passava oltre, rimandando l’inevitabile al cambio d’aria successivo. «oh meisner, stai cercando di conquistarmi, proponendo attività illegali?» Spinse gli occhiali da sole sulla radice del naso, drizzando la schiena e poggiando un pugno chiuso sul fianco. Si guardò attorno, lasciando sfuggire un angolo della bocca verso l’alto. «illegale? Non mi permetterei mai» Infilò una mano in tasca prendendo l’onnipresente burro cacao, tenere le labbra idratate era un impegno costante ed alquanto drenante, spalmandolo sulle labbra con aria distratta, e sguardo a vagare alla ricerca del modo migliore per portare avanti la campagna #monet di infestazione del Carrow’s. «al massimo, un’attività opinabile, in quanto giustificata da una situazione potenzialmente pericolosa» si aprì in un sorriso soddisfatto, piroettando sul posto fino a trovarsi posizionata nella giusta direzione.
    I suoi clienti, quando infine si fosse diplomata ed avesse ricevuto il permesso di operare al Ministero, sarebbero senza dubbio stati in una botte di ferro.
    «vieni, gli uffici amministrativi sono da questa parte» Intrecciò le dita a quelle di Mona, lasciandosi guidare verso uno dei tanti sentieri dello zoo. Immune ai suoni allegri delle famiglie in gita, e impassibile di fronte alle corse folle dei bambini che, immancabilmente, si concludevano contro le gambe di altri avventori o gli alberi che circondavano l’area, perché troppo concentrata sullo scopo di quell’avventura. Occhi sull’obiettivo, decisa com’era a portare a casa la vittoria. «ovviamente non passeremo per l’entrata principale» Soffiò l’aria in uno sbuffo, senza interrompere il flusso della Benshaw; sapevano entrambe l’entrata principale fosse fuori discussione per un centinaio di motivi, primo fra cui l’incapacità di mentire della Meisner, ma la lasciò proseguire, attendendo il resto del Piano TM. Una pausa al proprio silenzio, e del tutto legittima, la concesse nel lasciare la strada principale per un viottolo dimenticato da Dio e da chiunque avesse progettato quel parco, confusa ed ammirata dalla scelta sicura di Mona. Guardò prima il capannone indicato dalla ragazza, docile nel lasciare le spostasse il viso perché seguisse la sua linea di pensieri, e poi la bionda. «com’è che mona benshaw conosce l’entrata dei magazzini dello zoo?» Sapeva esattamente dove andare, e insomma, si parlava di Mona: non era strano sapesse quel che facesse, ma era certamente particolare in quel contesto specifico. Non aveva l’aria di essere una grande ammiratrice di animali e creature magiche. La era? Eppure, faticava a farsi piacere perfino le loro bestie; poco chiaro. Si affacciò oltre il tronco di un albero, adocchiando il posto ed il suo circondario. Non si stupì di quanto poco trafficata fosse la zona: era proibito l’accesso al pubblico, come indicavano i cartelli gialli e neri affissi ogni dieci metri, e durante l’apertura era difficile i dipendenti avessero bisogno di recuperare materiale dal magazzino.
    Non impossibile, certo; le statistiche, però, sembravano andare a loro favore.
    «tentare non può far male. Alla peggio, diciamo di esserci perse cercando un posto dove pomiciare» si illuminò, lampeggiando un altro sorriso in direzione della bionda. Quella era una menzogna su cui poteva lavorare, perché non trovava fosse così lontana dalla realtà quanto avrebbe potuto esserlo, boh, spacciarsi per la spazzina dei pinguini. Esistevano spazzini per pinguini? Si guardò un’ultima volta attorno, e quando fu sicura che ci fossero solamente loro due, afferrò nuovamente la mano di Mona ed iniziò a correre verso lo stabile. Gli allenamenti di Quidditch, quelli a cui si presentava solo per far sentire Paris meno solo e certo non per applicarsi, non avevano fatto abbastanza per il fisico minuto della Meisner, e quella breve corsa bastò a toglierle sia il fiato, sia parte dell’entusiasmo che le aveva portate a quel punto. Si appiattì contro la parete, allungando un braccio verso la porta per provare a spingerla. «chiusa» mormorò, dopo un paio di tentativi fallimentari. Occhi scuri a posarsi sulla parete opposta, dove un enorme finestra mostrava loro parte di quel che conteneva l’edificio – scatole, scaffali. Nulla che valesse la pena rubare. «aperta» soffiò, indicandola all’amica con un cenno del capo. Aveva sempre voluto arrampicarsi abusivamente attraverso una finestra!!&& «possiamo toglierlo dalla to do list ben, se lo facciamo solo noi due?» certo che avevano una to do list di attività da fare insieme, ed anche intere raccolte su Wiztok, grazie tante.
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    Non aveva mai fatto errori nella sua vita, Desdemona Benshaw, e anche quando sembrava ne facesse, non era mai per colpa sua; di certo, non l'aveva fatto quando, volontariamente e mai per semplice circostanza dei fatti, aveva scelto Bennett Meisner come sua anima gemella. Chi aveva bisogno dell'oblinder, duh; anche lì, non era stata lei a sbagliare, ma il fato a prenderla in giro.
    Aveva abbastanza certezze nella vita, perché le aveva accuratamente messe da parte una dopo l'altra, e la concasata era una di quelle.
    «al massimo, un’attività opinabile, in quanto giustificata da una situazione potenzialmente pericolosa»
    Le sorrise, allargando la smorfia soddisfatta dipinta color ciliegia, e passò la lingua sui denti, prima di farla schioccare con approvazione e sussurrare piano, quasi un soffio contro la guancia della mora, «talk dirty to me»
    Avrebbe potuto ascoltare Bennett Meisner fare le prove per il suo futuro da magiavvocato tutto il giorno, Mona, e l'avrebbe fatto con piacere se solo non fossero state due lesbiche on a mission. C'era un tempo per ogni cosa.
    La guidò quindi per il parco, mano nella mano, in confortevole silenzio perché tra loro due funzionava anche quello, il silenzio; sembrava condividessero un link telepatico al quale persino gli altri ben non avevano accesso, una frequenza tutta loro dove poter comunicare anche senza spiccicare parola.
    «com’è che mona benshaw conosce l’entrata dei magazzini dello zoo?»
    Solo a quel punto, ormai vicine alla meta, Mona si fermò e piroettò su se stessa, per rivolgere all'amica il più innocente dei sorrisi. «se te lo dicessi, dovrei poi farti giurare fedeltà eterna e silenzio» perché non esisteva alcun universo in cui avrebbe ucciso Bennet Meisner, anche solo a parole, «I don't kiss and tell» che in italiano non rende allo stesso modo.
    In realtà, la storia dietro quelle scorciatoie era molto meno interessante di quanto Ben potesse pensare, ricordi di giornate passate allo zoo insieme a Cherry, ad inseguirsi e a spiare gli altri visitatori, intrufolandosi laddove non era loro permesso solo per poter dire di averlo fatto. Ma conquistare Bennett con una certa aura di mistero rimaneva ancora la priorità numero uno della cheerleader.
    «andiamo?»
    «tentare non può far male. Alla peggio, diciamo di esserci perse cercando un posto dove pomiciare»
    Ecco, quel piano le piaceva sempre di più. Annuì con decisione, lasciandosi afferrare la mano e correndo insieme alla compagnia fino a raggiungere la rimessa, elegante e ancora perfettamente pettinata, con i boccoli color zucchero filato a ondeggiare sulle spalle come fosse la protagonista di un cartone animato. Era abituata a sforzi ben peggiori, quelli a cui sottoponeva l'intero team cheerleader di corvonero, una corsetta simile non pesava di certo sul suo fisico allenato.
    Ma diede comunque tempo all'altra blubronzo di riprendersi, passandole un braccio intorno al fianco e stringendola a sé, solo perché non sapeva come evitare di cercare il contatto fisico con la mora.
    La osservò in silenzio mentre provava ad aprire la porta, trovandola prevedibilmente chiusa, e poi seguì con lo sguardo quello di lei, fino a trovare la finestra «aperta»
    Allargò il sorriso sulle labbra, che rivolse poi a Ben, rivolgendo solo appena lo sguardo verso l'alto, alle successive parole. «possiamo toglierlo dalla to do list ben, se lo facciamo solo noi due?»
    Sì, secondo lei potevano, ma aveva un'idea migliore. «oppure possiamo fare pratica per la quella scusa, così che se dovessero fermarci sembrerà plausibile» le suggerì, ironica solo in parte.
    Tanto cercare un modo per recuperare Bengali Tipton era davvero l'ultima delle priorità di Mona.
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    e chiudo!! SMACK
     
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