bah humbug!

ouroblixmas | @ bar dello sport ft. gin

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    guadalupe garcía ramos
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    1996 ✧ erbology teacher ✧ toxicologist
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    ¿Cuando volverás?
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    Essere da soli a natale è triste.
    Un memo, quello, che non era giunto alla docente di Erbologia — e che comunque lei non avrebbe condiviso: triste era vedere gli alunni sprecare il loro (esiguo, c'è da dirlo) potenziale in favore di attività ludiche di dubbia natura; triste era il taglio di capelli di suo fratello, che ci teneva comunque moltissimo a metterlo in mostra nonostante fosse ridicolo; triste era la perseveranza con cui sua zia continuava a chiederle se si fosse fatta degli amici in Inghilterra (non il motivo, quello, per cui si era trasferita dall'altra parte dell'oceano), se si trovasse bene (nelle serre o in laboratorio stava benissimo, grazie tante), se fosse felice (in che termini si misurava la felicità?).
    Passare il Natale (o qualsiasi altro periodo) da soli non era triste; per lei era la normalità.
    Nella sua solitudine, Guadalupe, sapeva starci; non le dispiaceva, non le pesava; le capiva, lei, le persone sole. Le aveva sempre invidiate, prese a modello, in qualche modo; quando era da solo, l'essere umano tendeva immancabilmente ad essere se stesso, ad essere reale, vero. Era in compagnia di altri che metteva su maschere e modificava il proprio atteggiamento, nella speranza forse di mescolarsi a loro e di diventare parte di qualcosa.
    La guaritrice non aveva mai sentito il bisogno di appartenere a nulla o a nessuno e non avrebbe di certo iniziato adesso; c'era solamente lei, un'isola incontaminata e selvaggia che faceva capolino al centro di una distesa calma di acqua salata, alla quale, tuttavia, in pochi cercavano di arrivare, nonostante le condizioni del mare non fossero (o, almeno, non sembrassero) avverse; forse perché con le sue coste alte e frastagliate, l'assenza di spiaggia o di sentieri percorribili, dava l'aria di essere poco ospitale — beh, era così.
    In pochi avevano scelto volontariamente di incrociare il suo cammino, fare dietrofront e camminare insieme a lei; erano ancora meno le persone a cui Guadalupe aveva dato l'opportunità di farlo, quelle per cui si era concessa di modificare la propria andatura per adeguarla alla loro.
    Aveva concesso abbastanza, più di quanto avesse creduto possibile, ma nonostante tutto sentiva ancora di essere, laddove contava veramente, una persona sola.
    Non c'era nulla di male in quello: solo chi non sapeva stare con se stesso temeva la solitudine.
    Nei suoi atteggiamenti pacati e nello sguardo serio, si specchiava tutta la perfetta conoscenza che Guadalupe aveva di sé, l'enorme riguardo che aveva nei propri confronti. Teneva troppo alle sue ambizioni per potersi permettere di dedicare del tempo ad altro; non era capace di coltivare qualcosa come le relazioni, ironicamente (ma indubbiamente) arida per quanto riguardava quel particolare aspetto dell'esistenza umana.
    Faceva ridere e riflettere.
    La solitudine era un prezzo che Lupe era disposta a pagare, comunque, pur di arrivare alle proprie mete e ai propri obiettivi.
    Per di più, l'avrebbe pagata tre volte tanto se avesse avuto la certezza di sbarazzarsi di quella fastidiosa presenza che continuava a chiederle se volesse dell'altro tè o magari un caffè, un altro pasticciotto, un piatto di carbonara.
    Alzando gli occhi scuri e scrutando con attenzione il viso del Grifondoro insistente, Lupe pensò che la sua solitudine era una bendición se quella era l'alternativa.
    «No, signor Linguini,» Le parole a scivolare morbide sulla lingua, il viso sereno in netto contrasto con l'esasperazione che sentiva crescerle dentro: Romolo Linguini era un caso disperato e non aveva futuro nemmeno come cameriere. «Sono a posto così per il momento.» Vero, non c'era molto altro da fare al Bar dello Sport quando fuori imperversava una tempesta e il segnale satellitare faceva le bizze e la televisione non funzionava — ma quello era un problema del Linguini. Non di Guadalupe, armata di libro sulle piante autoctone del Sud Africa e un tè nero ancora caldo: per fortuna non andava mai da nessuna parte senza un buon libro.
    L'ultima cosa che aveva messo in conto, quel giorno, era di andare al bar e (non trovare Ginevra) rimanere bloccata lì per ore a causa del maltempo. Quella tempesta di ghiaccio e vento aveva colto di sorpresa sia lei che qualche altro cliente del bar — Lupe non si era soffermata a vedere chi (o quanti) fossero, preoccupata più di farsi gli affari suoi, cosa che avrebbero dovuto imparare a fare anche gli altri. Così, per dire.
    E, a questo proposito: «signor Linguini.» Ora c'era appena una punta di fastidio nel tono della professoressa, e sicuramente c'era risentimento nel gesto secco con cui chiuse il libro, o nella lentezza con cui incrociò le mani sulla copertina rigida. Alzò di nuovo lo sguardo, gesto che le costò estrema fatica e molto autocontrollo, per posarlo con decisione sullo studente — ma quando incrociò lo sguardo del “disturbatore”, non era il cheerleader rosso-oro.
    Guadalupe non avrebbe permesso ad qualcosa di cosi banale di dipingerle le gote di porpora, perciò rimase immobile a fissare la persona in piedi di fronte al tavolo occupato, senza provare la benché minima vergogna, né sentendosi mortificata. «Si?» Se l'avevano disturbata dai suoi studi dovevano avere un motivo molto più che valido.
    Se lo augurava (per loro).
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    CITAZIONE
    Essere da soli a natale è triste. Essere da soli a natale in un bar è ancora più triste. Essere da soli a natale in un bar ed intrappolati nel bel mezzo di una tempesta di neve è persino peggio.
    Ma sai cos’è veramente una tragedia? Essere intrappolati in un bar a natale assieme a PG.
     
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    ginevra 'gin' linguini
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    È che non posso vederti
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    e c'è una cosa che
    odio ancora di più
    è che non posso vederti
    quando ti spogli
    con una canzone dei Doors
    Essere soli a Natale è triste.
    Ginevra Linguini una cosa del genere non poteva saperla; non aveva mai avuto l’opportunità – il privilegio, come l’avrebbe definito il buon polentone Gigio Linguini – di trascorrere un Natale in completa solitudine. Non da quando ne aveva memoria, perlomeno – e attenzione, la sua memoria riusciva a tornare agevolmente indietro di decenni senza il minimo sforzo e senza il minimo dubbio che quei ricordi fossero inventati.
    A Natale così come a Capodanno, a Pasqua, Pasquetta, a Carnevale, a Ferragosto, il Primo Maggio, e poi ancora il ponte dei morti, la Festa della Repubblica, i santi protettori, per non parlare di tutti gli anniversari di matrimonio, i compleanni, e anche gli onomastici per i più terroni; non c’era mai bisogno di organizzare qualcosa, una festicciola programmata con invitati certificati da una lista ufficialeTM, o una cena prenotata nella trattoria di turno. Bastava una piccola nota, un la appena accennato, un sassolino nell’oceano, che qualcuno della famiglia si ricordasse di una particolare e simpatica ricorrenza, che uno zio azzardasse gli auguri sul gruppo di famiglia su whatsapp, che improvvisamente aveva inizio un grande concerto, e l’innocente sassolino lanciato nell’oceano aveva il potere di scatenare la furia del mari: la voce si spargeva in un batter d’occhio, parenti vari uscivano gli uni dopo gli altri come tante piccole talpe che risalgono le loro tane, e automaticamente – magicamente – si ritrovavano tutti insieme da qualche parte, come se qualcuno l’avesse deciso e avesse sparso inviti.
    In verità la maggior parte delle volte nessuno decideva niente, erano tutti soggetti alla Legge Linguini, una peculiare ed importante legge fisica che descrive il moto magnetico uniforme automatico e involontario: se un corpo Linguini (L1) si rende improvvisamente conto di una festività o ricorrenza familiare, tutti gli altri corpi Linguini (L2, L3, L4…) diventeranno inconsapevolmente consci di quella stessa festività o ricorrenza familiare di cui sopra e saranno automaticamente e – per alcuni più spesso di altri – involontariamente soggetti a una forza magnetica che li spingerà a riunirsi in uno stesso punto Canosa (C) contemporaneamente, senza possibilità di applicare una resistenza; la quale formula dovrebbe essere tipo

    f(xL)=L+∑_(n=1)^∞(L_n cos⁡〖nπx/C〗+L_n sin⁡〖nπx/C〗 ) = RØ

    praticamente una roba incomprensibile persino per i più importanti scienziati moderni, figurarsi per il clan Linguini che, alla fine, dopo vani tentativi di Giacomino di cercare di capire il funzionamento di questa forza, aveva semplicemente accettato la realtà dei fatti e aveva abbracciato la croce, come diceva sempre nonna Rosetta.
    In parole povere, quindi, era scientificamente impossibile che Gin potesse anche solo lontanamente sperare di avere dei momenti di totale solitudine; con una certa rabbia, ricordava di non aver avuto il privilegio – questa volta sì – di rimanere sola neanche quando era venuta a mancare sua madre, il momento in cui più di sempre aveva desiderato un po’ di tranquillità. Figurarsi, quindi, poter pensare di passare le festività natalizie lontano dal resto dei Linguini; dopotutto, basti pensare che solo pochi anni prima nonno Lino si era mosso personalmente per permettere a lei e Giacomino di uscire dal laboratorio in cui erano finiti e riunirsi con la famiglia entro e non oltre il 24 dicembre.
    Passare il Natale tutti insieme a Canosa non era una possibilità, era una regola imprescindibile, e questa era una dinamica di cui Gin era pienamente consapevole. E benché il più delle volte si lamentasse della mancanza di privacy, doveva ammettere che in fondo non avrebbe mai desiderato festeggiare il Natale in modo diverso da quello; le piaceva starsene in cucina ad aiutare la nonna e le zie con i piatti della tradizione per poi scendere nella cantina di nonno Lino per scegliere il vino che più di tutti si abbinava alle pietanze cucinate (era sempre lo stesso vino casereccio e un po’ acido, ma al nonno piaceva dire in giro che fossero produzioni diverse con sapori diversi, e a lei piaceva lasciarglielo credere), passare i vassoi pieni di cibo da estremo all’altro della grande tavolata, il vociare indistinto e confuso delle decine di parenti seduti al tavolo, e le piaceva persino arrabbiarsi durante le immancabili liti a sfondo politico che animavano ogni cena e ogni pranzo. E invece amava all’ennesima potenza appoggiarsi sulle spalle di Vittorio Emanuele Lapo e cantargli direttamente nell’orecchio, con una certa fierezza, A morte la casa Savoia, amava giocare a tombola dopo cena (e sentire Lollo lamentarsene), scommettere su chi sarebbe stata quell’anno la cima che avrebbe urlato “ambo” al primo numero chiamato (e perché proprio Ciruzzo), e poi in tarda nottata passare a bische clandestine all’asso che fugge o a poker, cercando di tenere a freno la ludopatia di Crez e impedire a Lux di bere tutto il vino rimasto, mentre un Remo Linguini pronto per tornare ai fornelli proponeva fieramente «aò famo un’aglio e oglio?».
    Casa Linguini in quei giorni era calorosa, accogliente, sempre in disordine e sempre affollata, l’atmosfera era bellissima e sebbene la mettesse in uno stato di generale buonumore, si può ben immaginare come risultasse anche estremamente stressante: non era facile stare dietro a tutti i parenti, non era facile pensare ai regali per tutti, non lo era sicuramente tenere d’occhio tutti i cugini, cucinare per tutti, e poi pulire, e poi aiutare la nonna, e non era facile, in generale, essere costantemente in compagnia. Ogni tanto anche lei desiderava tornare alla sua solita routine, passare un pomeriggio da sola e bere una tisana in silenzio mentre leggeva un libro o disegnava in tutta tranquillità; per fortuna o per sfortuna, quell’anno ferie lunghe e infinite come gli studenti lei non poteva permettersele perché il Bar dello Sport non si fermava mai, soprattutto quando i sempre più numerosi clienti inglesi reclamavano continuamente parmigiane, lasagne, e frittatine varie, e men che meno durante la settimana di Natale, quando poteva guadagnare a costo zero dagli avanzi dei pranzi in famiglia. Era terrona e festaiola, sì, ma aveva passato abbastanza tempo con gli zii milanesi per comprendere che fatturare aveva la sua importanza – e quando poteva farlo nel posto che pian piano stava diventando sempre più la sua piccola oasi, allora diventava anche rilassante, un modo per staccare dallo stress delle festività.
    Con i cugini – i dipendenti – era stata molto chiara: avrebbero fatto a turni e lei avrebbe pagato gli straordinari, ma il Bar dello Sport doveva categoricamente rimanere aperto negli orari di punta, senza se e senza ma.
    «Romolo» quel giorno era toccato al lupo mannaro, non senza sbuffi e lamentele varie «puoi lasciare in pace la professoressa e andare a posare questi struffoli in vetrina, grazie» il tono secco non ammetteva repliche, e nel caso ci fossero state, comunque, la Linguini non sembrava essere troppo interessata ad ascoltarle visto che aveva lasciato lo sguardo fisso sulla donna al tavolo poco lontano e aveva continuato a camminare in quella direzione, salvo poi fermarsi per schiarirsi la voce e sporsi leggermente sul tavolo e sbirciare – senza fare troppi complimenti – sul libro che Lupe stava leggendo.
    Incrociò le braccia al petto e stirò le labbra in un sorriso divertito «sembra… un culo» commentò apparentemente senza contesto l’immagine di una pianta disegnata nel libro, ma contava sul fatto che la maggiore avrebbe colto l’antifona e l’avrebbe riconosciuta – quest’ultimo un obiettivo fino a quel momento impossibile da raggiungere, in effetti, dato che una volta arrivata alla passaporta la Linguini era stava costretta a infilarsi in fretta e in furia l’impermeabile e a tirare il cappuccio sul viso per non soccombere alla bufera.
    Alla fine comunque decise di mettere fine alla prova che aveva sottoposto alla professoressa di erbologia e si scoprì autonomamente il viso, rivelando il sorriso malizioso e lo sguardo vispo tipico dell’italiana: sopracciglio alzato, occhi furbi e mento in su in un’espressione fiera e compiaciuta, pronta a divertirsi «sai, comunque non è proprio nelle politiche del Bar starsene seduti in disparte per conto proprio, preferiamo che i nostri clienti interagiscano tra di loro e facciano amicizia» incrociò nuovamente le braccia al petto e diede velocemente un’occhiata intorno agli altri clienti, ma tornò subito con le iridi sul viso della mora «a meno che, ovviamente, tu non abbia un appuntamento con qualcuno, in quel caso…» alzò le mani in segno di resa e non si curò di nascondere la piega malandrina che aveva dato al suo sorriso.
    No, chiaramente Guadalupe non aveva un appuntamento con qualcuno, e non per forza perché Gin ritenesse di dover avere l’esclusiva sulla messicana – non erano ancora a quel punto –, ma perché dare appuntamento a qualcuno al suo Bar sarebbe stato… antisgamo?! poco sveglio, in ogni caso, e Gin considerava Lupe decisamente al di sopra della media in fatto di intelligenza – una caratteristica della sua persona per cui non si vergognava minimamente di provare particolare attrazione. Ipotizzare un eventuale appuntamento con qualcun altro non era allora né una supposizione plausibile né una manifestazione di gelosia, alla napoletana semplicemente piaceva scherzare e soprattutto provocare la sudamericana.
    «…in quel caso io ti consiglierei il retro del locale» riprese la frase che precedentemente aveva lasciato cadere nel vuoto, ma si chinò leggermente sul tavolo per parlare direttamente a Lupe e abbassò il tono di voce, come per rivelarle un segreto segretissimo «è più… privato» alzò il sopracciglio destro e con questo l’angolo delle labbra, in un sorriso malandrino che questa volta durò molto poco, perché scoppiò a ridere subito dopo.
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    SPOILER (click to view)
    ciao zia, sono il tuo incubo personale!!!
    in realtà ho aspettato per vedere se qualcuno rispondesse dai ma nessuno si è mosso e quindi ciao ora avete perso il treno
     
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    «signor Linguini.»
    Spoiler: non era il signor Linguini, ma la sua adorabile e polemica cugina.
    Oh, okay.
    L’espressione sul viso di Lupe non mutò, se non per farsi appena meno ostile; uno spiraglio di sorriso a curvare verso l’alto le labbra carnose. C'era chi si salutava con un ciao, e chi con un:
    «sembra… un culo»
    A ciascuno la propria otp.
    Anche imbacuccata come una eschimese, a quelle parole Lupe non avrebbe potuto non riconoscere la Linguini; la giornata della professoressa, suo malgrado, era appena migliorata.
    Il sorriso leggero le piegò un po’ di più le labbra, mentre lo sguardo scuro si posava con interesse sul viso arrossato dell'italiana, e prendeva nota della sua espressione maliziosa, della luce vispa negli occhi, del sorriso di chi la sapeva lunga.
    Guadalupe María Soledad García Ramos non aveva mai perso nemmeno un battito di ciglia in più del necessario per osservare qualcuno in un'ottica che non fosse puramente per la scienza, ma da quando aveva conosciuto Ginerva Linguini tutto era cambiato.
    Lei per prima.
    E ora, sempre più spesso si ritrovava ad osservare l'italiana solo perché era piacevole farlo, senza un fine o senza elementi da studiare, annotare, comprendere — per quello, in realtà, aveva già fatto pratica nel tempo, e conosceva ogni centimetro del viso di Gin, ogni neo e la costellazione di lentiggini chiarissime, ogni espressione e il loro significato intrinseco.
    La preoccupava il modo in cui Ginevra fosse diventata familiare in quell'ultimo anno, ma era anche una sensaziona piacevole, che Guadalupe non sapeva ancora spiegare. Alle volte, preferiva non farlo — ma poi si ricordava chi era e cadeva nelle solite abitudini da donna di scienza, attenta ai dettagli e alle sfumature. Era così che andava avanti, e che dava un senso a tutto quanto.
    Si mantenne seria, spalle dritte e sguardo incollato in quello della mora, le mani ancora incrociate sul libro chiuso. «a meno che, ovviamente, tu non abbia un appuntamento con qualcuno, in quel caso…» In effetti no, non aveva un appuntamento.
    Non aveva nemmeno pensato di avvisare.
    Spesso, negli ultimi mesi, si era recata al Bar dello Sport con la mera scusa di avere voglia di un caffè che potesse esser definito tale, quando in realtà lo sapevano bene entrambe che si recava lì per stare in compagnia di Ginevra — anche perché, Lupe beveva principalmente .
    Quindi si limitò a stringersi nelle spalle, un «non saprei, sei libera?» fin troppo audace per la solita Guadalupe García Ramos che tutti conoscevano, ma non di certo una novità per l'italiana, che aveva avuto modo di conoscere una Lupe ben diversa da quella che si mostrava a scuola, ma non per questo meno reale. Anzi. Sentiva di aver iniziato ad essere onesta con se stessa solo di recente, la prof. «C'è qualche argomento particolare su cui vorresti discutere Dal momento che, nove volte su dieci, i loro incontri finivano sempre in quel modo; la sua naturale predisposizione al dibattito era l'aspetto di Ginevra che aveva catturato l'attenzione della guaritrice in primo luogo, e anche ciò che la faceva tornare sempre lì per averne ancora, e ancora.
    Prevedere cosa avrebbe detto la Linguini era impossibile.
    Ma non sempre: Guadalupe aveva pur sempre in classe cinque dei suoi numerosi cugini, stava pian piano iniziando a capire come funzionava la mente italiana. Accentuò il sorriso, ricambiando quello di Gin. «Oh... pensi che la proprietaria del locale sarebbe d'accordo?» Per quanto appartarsi con lei fosse incredibilmente allettante, Lupe decise di indicarle la sedia libera di fronte a sé. «Non sono la persona adatta per interagire con altri clienti,» una confessione che non avrebbe sorpreso nessuno, men che meno Ginevra, «ma posso fare un'eccezione per te.» Ne aveva fatte molte, da quando la conosceva.
    Una volta accomodatasi, avrebbe fatto cenno alla ragazza di attendere un secondo — e se non si fosse seduta, l'avrebbe fatto comunque, indice a mezz'aria, impegnata a trafugrare con una mano in una borsetta di tela che aveva portato con sé.
    «Buon Natale»
    Poteva non essere una festività rilevante per la messicana, ma sapeva quanto Gin vi fosse legata, e Lupe conservava ancora con cura le piantine che la minore le aveva regalato l'anno precedente; ricambiare il gesto, quel Natale, era stato naturale, istintivo.
    Mise sul tavolo un vasetto, un piccolo seme a germogliare proprio nel mezzo.
    «È un baby groot,» spiegò, perché “il multiverso è un concetto di cui sappiamo spaventosamente poco”, cit.
    «Una volta sbocciato, assumerà delle fattezze umanoidi e sarà in grado di capire e farsi capire pur dicendo una sola parola. Sta a te decidere quale sia...» Gin, an intellectual: ipotesi.
    Si strinse poi nelle spalle, spingendo il vasetto in direzione della special. «Puoi tenerlo al negozio, non ha bisogno di particolari attenzioni se non di un po' di compagnia. E acqua, per crescere forte e sano. Al bar si troverà benissimo... Ma occhio alla fase adolescenziale,» fece una smorfia preoccupata, «non sarà una passeggiata. Tendono a sviluppare un bel caratterino.» Per usare un eufemismo; e lei, con gli adolescenti, aveva a che farci tutti i giorni.
    Che poi — non stava cercando di hintare inavvertitamente all'adozione o niente di simile, giuro, oddio ora che ci pensava forse poteva essere fraintendibile.
    Solo Ginevra Linguini era in grado di farle rimettere in discussione qualsiasi cosa; anche se stessa. Non aveva la più pallida idea di come ci riuscisse.
    Abbassò lo sguardo, Guadalupe, e si nascose dietro la tazza di tè.
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    CITAZIONE
    18) [ON] un vasetto con terra e un seme che sta germogliando. questo seme, passata una notte... diventa una specie di piccolo umanoide. Hai adottato un baby groot! (dice solo una parola - a tua scelta - ma è senziente)
     
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    Gin era sempre stata una ragazza caparbia e ostinata e purtroppo per lei aveva imparato troppo tardi quando era il momento di mordersi la lingua, ingoiare le sue taglienti opinioni, e restare in silenzio; l'aveva imparato, sì, ma non sempre riusciva a metterlo in pratica e anzi la maggior parte delle volte proprio non riusciva a controllare quel dannato istinto di esprimersi che premeva contro le sue labbra.
    Con Lupe era iniziata esattamente così: il buonsenso poteva anche averle suggerito di starsene zitta quel giorno davanti al quadro galeotto, ma l'istinto, d’altra parte, le aveva urlato di intromettersi e di dire la sua preziosa opinione in merito; avrebbe potuto prendersi una cinquina in pieno viso, una serie di doverosi insulti vari, avrebbe potuto ricevere uno sguardo pieno di astio e fastidio in risposta, cosa che era abbastanza sicura avrebbe fatto qualsiasi altra persona, ma per sua fortuna al posto di qualsiasi altra persona c'era stata Guadalupe, e allora c’era solo da ringraziare il suo istinto. Sin da quella volta Lupe l'aveva colpita per (tante cose okay, all’italiana non erano di certo passate inosservate le labbra carnose, lo sguardo cerbiattino e intrigante allo stesso tempo, e la linea della mascella, ma soprattutto) la sagacia e l'audacia delle sue risposte, per aver resistito e averle tenuto testa, per essere stata al gioco quando avrebbe potuto scappare ed essere offesa, e per aver mantenuto salda e per aver creduto nella sua opinione fino alla fine. Quindi no, l'audacia di quel «non saprei, sei libera?» non la stupì affatto, ma la fece sorridere furbamente e alzare un sopracciglio in direzione della messicana. Fece schioccare la lingua sotto al palato e prese tempo, fingendosi pensierosa, spogliandosi di un paio di strati di indumenti sotto i quali era nascosta: partì dall'impermeabile completamente zuppo d'acqua, poi passò a srotolare la sciarpa che le proteggeva il collo e le spalle, e continuò con il lungo cardigan che la teneva calda in quei giorni di freddo umido scozzese, e a quel punto erano finalmente riconoscibili le sue forme da umana tascabile, i capelli scuri un po’ in disordine, e il viso chiaro e soprattutto attento a non perdersi il minimo movimento o cambiamento di espressione di Guadalupe.
    «mh, sa Professoressa Ramos» alzò gli occhi verso la tossicologa e piegò le labbra all'insù in un sorriso malizioso «non funziona in questo modo, non è mica così facile» trovarla libera per un appuntamento, intendeva, ma in verità anche tutto il resto sarebbe valso come risposta. Nulla era davvero semplice con Gin, il suo carattere peperino e polemico trasformava tutto in un grosso punto interrogativo, ma quella era stata anche una mezza bugia perché ricevere un appuntamento con l'italiana per Guadalupe non era stato affatto difficile, e probabilmente non lo sarebbe mai stato.
    «forse dovremmo prima discutere della capacità di qualcuno – un po’ boomer – di inviare un messaggino quando decide di venire in questo splendido locale» già che la maggiore le aveva chiesto se avesse qualche argomento di cui discutere da aggiungere all’ordine del giorno, Gin aveva alzato il sopracciglio destro in un'espressione accigliata e smaliziata e aveva fatto la sua proposta.
    Provocazione, in realtà, doveva essere il termine più esatto per la risposta che aveva dato l'ombrocineta. Non era esattamente arrabbiata o infastidita che Lupe si fosse presentata al bar dello sport senza avvisarla (non lo era neanche lontanamente, a dire la verità, le retate a sorpresa della messicana le avevano sempre fatto piacere), ma sentiva il bisogno – ancora una volta e sempre – di sottolineare qualcosa, di tenere un punto, il suo punto; e per sua fortuna Lupe questo l'aveva capito, e non solo sapeva stare al gioco alla grande, ma sapeva anche come prenderne le redini e comandarlo, e a Gin quella cosa piaceva davvero tanto – aggiungeva quel pizzico di brio e di divertimento che in pochi (e in poche) erano riusciti a farle provare.
    «ma posso fare un'eccezione per te.» l'italiana rimase in silenzio, le labbra ancora piegate nel sorrisino furbo e soddisfatto che la contraddistingueva e le iridi chiare fisse sul viso della Ramos. Affondò con leggerezza i denti nel labbro inferiore, poi scoppiò a ridere, incapace di restare seria ancora a lungo, «e va bene» le concesse alla fine, stringendosi nelle spalle e vagando un po' con lo sguardo prima di tornare a guardarla «forse potresti aver avuto la fortuna di avermi trovata libera» si arrese e prese posto al tavolino di fronte alla professoressa e allungò le mani sulla superficie, ma non abbastanza da raggiungere quelle dell'altra o invadere il suo spazio personale. Ma se le aveva regalato quella piccola vittoria, di certo non era pronta a dichiarare persa la guerra, ma quando aprì la bocca e fece per parlare Lupe le fece cenno di aspettare. Va bene silenziarla una volta, va bene due volte, ma tre volte in un così piccolo lasso di tempo? Era quasi offesa; se non si fosse trattato specificamente di Lupe e se non avesse tirato fuori un tenerissimo e bellissimo regalo di Natale, Gin avrebbe reagito indubbiamente in modo differente.
    In quel momento, invece, aveva perso la parola. O quasi, che era comunque un gran risultato.
    «Lupe ma è…» bellissimo, stupendo, fantastico, spettacolare, simpatico, adattissimo – un regalo perfetto, in poche parole, ma non le proferì, tenne semplicemente gli occhi sulla piantina non ancora sbocciata e ascoltò le spiegazioni della professoressa, quindi scoppiò a ridere e si strinse nelle spalle, non troppo preoccupata «ah beh, sarà in ottima compagnia, anche i miei cugini non hanno ancora affrontato la fase adolescenziale» che era una triste verità, nonostante avessero tutti (o quasi) più di vent’anni. Prese il vasetto tra le mani, lo esaminò ancora una volta sorridente, poi tornò a posarlo sul tavolino solo per allungare una mano verso quella di Lupe e, questa volta sì, lasciarle una carezza sul dorso e giocare con le dita tra le sue, distrattamente ma non troppo involontariamente. «è un regalo bellissimo, Lupe» alla fine lo disse, e con lo stesso sorriso largo e spontaneo si sporse sul tavolo quanto bastasse per raggiungere il suo viso e, mentre la messicana si faceva mille complessi sulle implicazioni che quel regalo comportasse e sul suo significato, premette con leggerezza le labbra sulla guancia di lei – più vicino all’angolo delle sue labbra che alla sua guancia, in effetti, e questa è una specifica geografica importante, perché Gin non si sarebbe fatta alcun problema a spingersi ancora un po’ verso le labbra della messicana, ma sentiva – percepiva e pensava – che l’altra non fosse ancora completamente a suo agio per quel bacio in pubblica piazza, quindi optò solo per un assaggio prima di tornare a mettersi seduta al suo posto.
    «gracias mi amor, yo soy muuy feliz» il suo accento e la sua pronuncia sarebbero sicuramente risultati imbarazzanti a Guadalupe, ma non poteva aspettarsi chissà cosa da una che non studiava spagnolo dalla terza media.
    «potrei insegnargli a dire culo così le nostre conversazioni sarebbero divertenti e familiari» era tornata a prestare attenzione al vasetto solo per un attimo prima di posare nuovamente lo sguardo vispo e furbo sulla mora «ma forse qualche cliente potrebbe offendersi, ci penserò» baby groot sarebbe diventato un baby culo? sì, decisamente sì, non era stato necessario pensarci più di una volta; anche perché l’alternativa era forzanapolisempre, quindi…
    «comunque,» fece schioccare la lingua sotto il palato e tornò a mostrare all’altra un’espressione divertita e allo stesso tempo maliziosa «in questo momento potresti stringere anche tu tra le mani il tuo regalo di Natale, se solo mi avessi avvisato che saresti passata» pose particolare enfasi sull’ultima parte, ma l’intento era palesemente giocoso e infatti faticava a trattenere una risata divertita; si strinse nelle spalle e sospirò «significa che dovrai sudare un po’ per riceverlo, allora» una sfida? Una provocazione? Sicuramente un gioco, il loro, che per il momento funzionava alla grande e le permetteva di vivere la loro situazione con serenità, ma divertendosi e stuzzicandosi senza cadere in troppe smancerie e sdolcinatezze; intanto, l’espressione di Ginevra si ammorbidì mentre la guardava, il sorriso si fece più tenero, e la mano, se le fosse stato concesso, sarebbe rimasta proprio lì sulla quella di Lupe, intenta a giocare con le dita tra le sue.
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    Cinco pasos y te perdoné


    1996 ✧ erbology teacher ✧ toxicologist
    ¿Y cuándo volverás?
    (Surtout ne m'attends pas)
    ¿Cuando volverás?
    (J'ai fait le premier pas)
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    Erano tante le cose che Guadalupe aveva dovuto ammettere, nel corso di quell'ultimo anno e mezzo, di non sapere riguardo se stessa. O, per meglio dire, le cose che aveva male interpretato. Che non aveva capito.
    Era sempre stata convinta che il suo scarso interesse nei confronti sia di relazioni amorose che degli uomini più in generale fosse dipeso da una mancanza di tempo, più che di attrazione, che sentiva di poter dedicare a impegni simili; che non aver mai cercato la compagnia di coetanei, nemmeno quando tutte le sue compagne non sembravano fisicamente in grado di stare da sole, si potesse spiegare in maniera molto semplice con poche parole: “ho progetti più grandi, per il futuro” — quel “che pensare a mettere su famiglia” sempre taciuto, non per evitare occhiate piene di compassione da parte degli altri, ma perché non reputava fossero affari di nessuno se non suoi.
    E il concetto di famiglia, poi, per i Ramos era sempre stato qualcosa di così poco concreto che Lupe non lo aveva mai assimilato davvero — o, perlomeno, ne aveva visto, analizzato e compreso solo le parti peggiori: non la desiderava, una famiglia, non se nel giro di quindici anni avrebbe poi finito col seguire le orme di sua mamma e abbandonarla. Non voleva il rancore di nessuno, alle sue spalle; peggio ancora, non voleva doversi fermare a riflettere sul perché non provasse senso di colpa alcuno per ciò che aveva fatto.
    Non voleva diventare una seconda Maricruz.
    E sapeva purtroppo che somigliava a sua madre in quell'aspetto ancor più che in tutti gli altri.
    E che dire, poi, delle due donne che l'avevano cresciuta: le sue zie, il cui unico amore era racchiuso nelle pareti a vetri delle serre di Castelobruxo, erano state modello di vita per Lupe in così tanti aspetti che, guardandosi allo specchio, non riusciva a non vedere l'influenza delle due Ramos nel proprio sguardo, nei gesti e nelle passioni — ma non l'avevano di certo aiutata a capire come fidarsi di qualcuno. Come aprirsi al mondo e lasciare che altri esseri umani entrassero nella sua vita sotto un aspetto ben diverso di quello amichevole o lavorativo. Come amare, e farsi amare in risposta.
    Perciò no, quando aveva conosciuto Ginevra Linguini, due estati prima, Guadalupe non aveva avuto alcuna idea di quello che l'incontro apparentemente casuale ed effimero nel museo, avrebbe significato per lei.
    Per entrambe, certo, ma soprattutto per lei.
    Aveva capito tante cose di sé a partire da quel momento, specchiandosi negli occhi vispi dell'italiana, che era anche difficile tenerne il conto; tante cose che, cadendo in fila e trovando il loro giusto posto, incastrandosi nella complicata ma perfettamente collaudata macchina che era Guadalupe Maria Soledad García Ramos, spiegavano molto di lei.
    Occhi che, dunque, Lupe incontrava sempre con un misto di reverenza e sfida, quasi volesse invitarli a dirle altro, a farle capire qualcosa in più, qualcosa di nuovo, ad ogni sguardo rubato o concesso. Per questo motivo non si fece trovare impreparata quando, non senza un pizzico di malizia Made in Gin, la minore la sfidò con un «non funziona in questo modo, non è mica così facile».
    Le sorrise, placida, la curva delle labbra cremisi ad ampliarsi leggermente. Aveva imparato ad accorgesene. Ma d’altronde, a chi piacevano le cose facili? Di certo non a Guadalupe. Il modo in cui Ginevra sapeva sempre, esattamente quali tasti pigiare per suscitare in lei qualcosa era davvero impressionante.
    Degno di nota.
    E rispettava quel sentimento che negli ultimi tempi la professoressa aveva sentito nascere dentro e con il quale stava ancora cercando di venire a patti. Sostenne lo sguardo di Gin quando la definì “boomer” – non aveva tutti i torti, infondo – senza cadere nel tranello: era vero, Guadalupe non utilizzava nemmeno le emoji perché era quel genere di boomer. «Sai che preferisco una telefonata,» le rispose, con semplicità e una scrollata di spalle, aggiungendo subito dopo «o un incontro di persona. Non mi dispiace tornare anche tutti i giorni, questo locale, in effetti, è delizioso Il locale, e anche la proprietaria. Ma Lupe non era per quel genere di osservazioni esternate a voce, e preferiva tenerle per sé.
    Alla fine, l’importante era che avesse avuto successo nel suo intento, non importava il come: Ginevra era libera e Lupe poteva donarle il regalo di Natale che aveva comperato per lei.
    Far rimane Ginevra Linguini senza parole non era un compito facile, bastava chiedere a chiunque conoscesse la special per sapere che era così.
    Lupe ci era appena riuscita. Franklyn le avrebbe detto, non tanto scherzosamente, di segnarlo nel suo calendario di achievements personali. Chissà, forse lo avrebbe fatto più in la, ma per il momento voleva solo godersi l’espressione sul volto della giovane e bearsene. Non perché avesse vinto qualche stupido premio, ma perché era stata lei a suscitarla — con un gesto che, ad onor del vero, aveva stupito forse più la stessa messicana che l’altra.
    E dovette goderselo veramente quel momento, senza perdere nemmeno un guizzo dello sguardo o una vibrazione nell’aria, perché veloce com’era arrivato, sparì.
    Ginevra era pur sempre Ginevra.
    «ah beh, sarà in ottima compagnia, anche i miei cugini non hanno ancora affrontato la fase adolescenziale» su quello erano completamente d'accordo: attualmente insegnava a cinque di loro e alcuni li avrebbe collocati ancora in quella infantile. Ma erano pur sempre Linguini e, in quanto parenti della padrona di casa, Lupe temeva di non avere pieno diritto di insultarli. Peccato. Gin non si rifrenava di certo dal farlo ma, ancora una volta, erano parenti suoi, non di Lupe — il cielo solo sapeva quante cose dicesse su suo fratello, la messicana!
    Non si mosse, ma nemmeno irrigidì le spalle, quando la minore si avvicinò per lasciare un bacio all’angolo delle labbra, in un gesto chiaramente provocatorio e per nulla casuale. Così come lasciò che le prendesse la mano tra le proprie, e la stringesse un po’ a sé, ringraziandola. Il bar era poco affollato, ma non vuoto, eppure Lupe riuscì comunque a non lasciare che il pensiero di essere tra la gente la privasse di quel momento solo loro. Non era particolarmente fan delle effusioni in pubblico, ma Gin era rimasta sul discreto e la professoressa lo apprezzava.
    (Nonostante l’avesse stuzzicava volontariamente con quel bacio poco casto e puro.)
    O con quelle inaspettate parole in una lingua che non era né l’inglese, né l’italiano, ma aveva un suono che, seppur non sciolto e perfetto, la riportava comunque a casa. «gracias mi amor, yo soy muuy feliz»
    Far sorridere Guadalupe era difficile almeno quanto far rimanere senza parole Ginevra; ma in quel momento, sotto lo sguardo pieno di affetto dell’italiana, la docente di Erbologia si permise di sciorgliesi un po’; di mostrare i denti bianchi tra le labbra dischiuse, di ammorbidire lo sguardo e regalare un sorriso sincero alla sua amata.
    Sì, proprio così. Era la verità.
    «Prego Ricambiò il gesto, pronunciando quelle due sillabe in una lingua che le era poco familiare ma non sconosciuta; e non aggiunse altro, non per paura di sbagliare ma perch non c’era molto altro da dire. Non a parole, comunque. A gesti, Lupe strinse appena la presa sulla mano di Gin per farle capire che era contenta avesse apprezzato.
    «potrei insegnargli a dire culo così le nostre conversazioni sarebbero divertenti e familiari» Un’altra risata, stavolta meno dolce e più sfacciata, lasciò le labbra della prof. «Non ne dubito, cielito «ma forse qualche cliente potrebbe offendersi, ci penserò» «Non c’è fretta, ci vorrà un po’ prima che sbocci definitivamente.» Osservò la piantina non ancora germogliata del tutto, e il suo sorriso si fece un po’ più serio. «Tutte le cose belle impiegano tempo per nascere,» pensierosa, alzò lo sguardo verso Ginevra e terminò, «ma vale la pena aspettare.» Lei aveva atteso anche troppo, ed era felice di osservare i primi frutti di ciò che aveva inavvertitamente seminato nel proprio giardino.
    Li stringeva tra le mani in quel preciso momento.
    E a proposito di stringere, e di mani. Lo stava facendo; stringeva già il suo regalo — di Natale, e non solo. Ma, ancora una volta, non l’avrebbe detto ad alta voce. «significa che dovrai sudare un po’ per riceverlo, allora» «ah sì?» inarcò un sopracciglio, ricambiando l’aria di sfida della minore, «e vediamo, cosa dovrò fare? qual’è il gioco? la sfida d’altronde: non ce n’era sempre una, tra loro?!
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    ginevra 'gin' linguini
    Se c'è una cosa che odio di più
    È che non posso vederti
    tutti i giorni


    2002 ✧ umbrakinesis ✧ bar owner
    e c'è una cosa che
    odio ancora di più
    è che non posso vederti
    quando ti spogli
    con una canzone dei Doors
    Gli spessi strati sotto i quali si era nascosta fino a quel momento l’avevano tenuta al caldo, e ora che se ne era liberata e aveva preso posto di fronte a Lupe sembrava che il suo corpo stesse tornando a una specie di status quo, come riavviare un telefono dopo che è stato esposto al sole per troppo tempo; stava iniziando a prendere di nuovo familiarità con il tepore del locale senza rischiare l’asfissia sotto un giubbotto decisamente troppo spesso per la sua figura mingherlina, aveva riacquisito una certa leggerezza, e poté in parte anche rilassarsi.
    “In parte” era una precisazione necessaria, perché raggiungere quell’ultimo gradino era sempre la cosa più difficile per Ginevra. Poteva salire di corsa anche tre-quattrocento scale, poteva superare tranquillamente gli step del lavoro, dell’impegno, dello studio e dell’ideazione e della composizione, ma posare il piede su quell’ultimo obbiettivo restava sempre la sua sfida nella sfida.
    Sentiva di dover avere occhi ovunque, di dover stare attenta a ogni minimo particolare, di dover ascoltare ogni minimo fruscìo, di doversi intromettere se trovava che qualcosa fosse sbagliata, di avere certe responsabilità per cui stendersi e sospirare, riposare, era una cosa impensabile; e al Bar dello Sport sembrava addirittura che i suoi sensi si amplificassero e che i suoi tentacoli dovessero raggiungere gli angoli più impolverati del locale, i clienti lasciati più in ombra, il minimo alone sui piatti da lavare, senza poter lasciare mai nulla al caso.
    Far rilassare Ginevra Linguini non era un compito facile – ma in quel momento lo fece.
    «Sai che preferisco una telefonata» alle parole delle messicana non poté resistere dall’abbassare le spalle e sgonfiare il petto, distendere le labbra in un minuscolo sorriso e dichiarare la resa. Era arrivato anche il suo momento: poteva finalmente rilassarsi.
    Non c’era bisogno di tendere le orecchie, stare attenta ad aloni e macchie varie, di preoccuparsi di dover avere ragione, aveva già vinto la sua battaglia perché lo sapeva. Poteva finalmente dire di aver raggiunto la sommità delle scale, di essere riuscita a salire tutti i gradini e di potersi finalmente concedere un po’ di riposo, e lo trovò incredibilmente appagante.
    Straightforward, così l’avrebbero definita gli inglesi, con una puntina di disgusto nella voce: diretta, brutalmente onesta, cristallina. Gin era una italiana semplice e, nei limiti dell’educazione, quando pensava una cosa non perdeva troppo tempo in perifrasi varie ma andava diritta al punto. Anche per questo le relazioni non le piacevano, perché non si poteva mai andare diritti al punto, non si potevano escludere tutte le zone grigie d’azione e dare sin da subito un giudizio definitivo, perché c’era bisogno di tempo, c’era bisogno di pazienza e di attenzione per capire se quella persona fosse quella giusta, per stabilire come comportarsi di conseguenza, per lasciarsi andare, semplicemente; e alla Linguini rimanere nell’incertezza non piaceva perché significava non possedere il totale controllo della situazione, una cosa che le impediva di distendersi e che la teneva sempre in allerta.
    Conoscere Guadalupe in quell’anno era stato un percorso lento e graduale, senza burroni impossibili da superare o salite ardue da scalare, senza discese ripide e pericolose, una camminata piacevole che man mano avevano affrontato sempre con più leggerezza, sempre con più divertimento, facendosi sempre l’una più vicina all’altra, arrivando a tenersi per mano – il percorso non era terminato, e al contrario Gin sperava che avrebbero proseguito insieme in quella scalata ancora per molto, ma approdata finalmente a quel maledetto gradino dove finiva sempre per inciampare, ora sentiva di potersi sedere un attimo, prendersi il suo tempo, e tirare le somme con un sorriso sereno e rilassato.
    Perché lo sapeva – poteva finalmente dire di conoscere abbastanza bene Guadalupe da sapere cosa aspettarsi da lei in una determinata situazione, da sapere che cosa avrebbe detto, cosa le avrebbe fatto più piacere, cosa l’avrebbe messa in difficoltà, e quella cosa, incredibilmente, le dava un senso di pace interiore e di soddisfazione.
    Conosceva almeno un po’ Guadalupe Garcìa Ramos. Ci era riuscita.
    «lo so» riconobbe quindi con un piglio di soddisfazione e di malcelata emozione, ma nascose il rossore sul viso tirando su le labbra in un sorriso ancora smaliziato e giocoso, allungando appena i gomiti sul tavolo per sporgersi verso la figura della ragazza per parlare un po’ più piano e non permettere agli altri di sentirle. «e mi piace parlare al telefono con te, e mi piacciono molto le tue visite di sorpresa» affondò piano i denti nel labbro inferiore e osservò più attentamente il viso della maggiore per studiarne la reazione, con fare quasi divertito. Quel tipo di confessioni non imbarazzavano così tanto la Linguini, trovava che non ci fosse nulla di male nel fare un complimento all’altra persona, e di certo non si era mai tirata indietro dal dire alla Ramos quanto le piacesse, o quanto le piacesse una specifica parte del suo corpo (a scelta tra tante, di solito), o quanto l’ammirasse e la reputasse brava e capace – era tutto parte di un certo gioco di seduzione a cui a Gin piaceva tanto giocare nel privato della coppia, e non negava che ogni tanto trovasse anche un pelino divertente vedere l’altra in imbarazzo e far vacillare quell’espressione altrimenti stoica e sempre perfettamente rigida. «ciò non toglie che resti comunque un po’ boomer» concluse con un sorriso furbo e malandrino, perché se c’era una cosa che le piaceva del fare quel gioco con Lupe era come entrambe lottassero per avere l’ultima parola.
    Gin era nata e cresciuta in una famiglia di ultras e scommettitori seriali, di giocatori professionisti di briscola e di lanciatori di sedie in caso di sconfitte: vincere le piaceva, ma ciò che la divertiva di più era la sfida in sé, e Lupe, da parte sua, non si era mai sottratta a quel tipo di gioco; e con suo immenso stupore la Linguini doveva ammettere di aver trovato un’avversaria più che valida, che le sapeva dare del filo da torcere e che le faceva sudare ogni loro incontro., e di tanto in tanto, oltre che a farla perdere miseramente, la costringeva addirittura a dichiarare la resa.
    Forse quella non era stata una provocazione volontaria o una mossa studiata attentamente sulla scacchiera, ma aveva decisamente sortito lo stesso effetto, e la piantina che Lupe le aveva dato come regalo di Natale l’aveva fatta arrendere. Rilassare ancora una volta, adagiarsi su quel gradino e godere semplicemente dello stupore e della meraviglia di quel regalo, beandosi del suo stesso silenzio.
    Far restare senza parole Gin non era un’impresa facile e nemmeno far ridere la Ramos, ma ci erano riuscite entrambe, e questa volta senza giochini di mezzo ma in modo naturale e spontaneo, e per quanto il loro continuo sfidarsi fosse divertente, doveva ammettere che la bellezza del loro rapporto era tutta lì: nella naturalezza con cui si erano lasciate andare l’una all’altra, con cui erano giunte a dirsi certe cose e a compiere certi gesti.
    La stessa naturalezza – e un po’ di segretezza – con cui ora si tenevano la mano sul tavolo e si guardavano sorridendo.
    «Tutte le cose belle impiegano tempo per nascere, ma vale la pena aspettare»
    Ugh, dannata Guadalupe, quasi iniziava a starle antipatica per tutte le volte che la costringeva a cedere terreno e alzare bandiera bianca, ormai succedeva sempre con più frequenza e Gin era disposta a importarsene sempre meno a patto di continuare a essere così felice, ma in qualche modo doveva pur sempre difendersi, e purtroppo l’unico metodo che conosceva era drizzare le spalle e alzare un sopracciglio per rispondere a tono. «come il lievito madre e i peperoni sott’olio, a ognuno le proprie metafore no?» perché se a Lupe si addiceva maggiormente il campo semantico delle piante, senza alcun dubbio Gin ritrovava più facilmente se stessa in quello della cucina; un’occasione come un’altra per rimarcare il proprio punto, salvo poi sciogliersi verso la fine, con un sorriso un po’ addolcito e gli occhi fermi sul viso di lei «ma ne vale la pena, sono d’accordo» e questa piccola vittoria che aveva concesso alla sudamericana non era un regalo, ma solo la verità: era valsa la pena aspettare per far nascere qualcosa tra di loro, aspettare che germogliasse, che crescesse piano piano, che lievitasse; era valsa la pena aspettare di arrivare fino in cima alla scala per potersi finalmente rilassare, ed era convinta che valesse la pena aspettare per poter finalmente smettere di nascondersi da occhi indiscreti (quelli dei cugini), ma questa era una cosa che aveva bisogno di ripetersi più e più volte al giorno per reputarla accettabile.
    Recepì il tono di sfida della risposta della maggiore come un’aperta richiesta di continuare quel gioco a cui si erano abituate, ma [tre ipotesi]; Ginevra non era nella sua fase unhinged a differenza di alcuni suoi cugini – alcuni ci erano addirittura nati in quella fase –, aveva sempre saputo gestire al meglio le diverse componenti di una relazione e le diverse situazioni sociali, ma [tre ipotesi n2] era convinta che chiunque sarebbe andato in difficoltà di fronte al sopracciglio alzato di Guadalupe Ramos.
    Rise un po’ divertita – di se stessa e della situazione in cui si era cacciata – e abbassò appena lo sguardo sul tavolo, indugiando con gli occhi sulle loro mani giunte; sciolse la presa di queste solo per poter giocare con le dita sulla mano dell’altra, sfiorandone il palmo con i polpastrelli, proseguire fino al polso, e poi tornare verso le dita, intrecciandole di nuovo alle sue, in un gioco lento e quasi distratto, ma preciso e consapevole. «mh, sai» trattenne ancora una risatina divertita, affondando nuovamente i denti nel labbro inferiore e solo allora alzando le iridi chiare verso quelle più scure delle professoressa «forse non dovresti usare questo tono con me qui dentro, dietro al bancone ci sono almeno due miei cugini e fin quando non vi sbrigherete a promuoverli la sfida che potrei proporti potrebbe non piacerti» le consegnò questo avviso con incredibile nonchalance, facendosi solo un po’ più vicina per poter parlare a voce più bassa «quindi se proprio vuoi conoscere il tuo regalo puoi accettare questa sfida al buio e con riserva per quando il momento sarà più opportuno, o puoi provare a convincermi qui ed ora che le enchilladas siano meglio delle lasagne» questa volta fu lei ad alzare il sopracciglio con aria di sfida, un po’ maliziosa anche, lasciando le dita giocare tra quelle di Lupe e rimanendo piegata in avanti sul tavolino del bar in attesa che la maggiore gettasse a sua volta il guanto di sfida o fosse lei stavolta ad alzare bandiera bianca – che nel secondo caso era più che consigliato perché, andiamo, le enchilladas con la lasagna? Impossibile competere.
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    «come il lievito madre e i peperoni sott’olio, a ognuno le proprie metafore no?»
    Sbuffò una risata leggera, annuendo. «Claro, come il lievito madre e i peperoni sott'olio.» Se le piante erano la comfort zone di Lupe, e vivaio (per rimanere in tema) più frequente da cui attingeva per metafore di ogni genere, quello riguardante la cucina del Bel Paese era senza dubbio l'essenza stessa di Gin. In un primo momento Guadalupe aveva trovato molto peculiare (per non dire strambo) i continui riferimenti a cibo e condimenti da parte dell'italiana, ma col tempo aveva capito che fossero parte del corredo genetico, come la fede calcistica e l'orientamento politico; erano anche quelli tutti piccoli tasselli che, una volta messi insieme, davano forma all'opera d'arte che era Ginevra Linguini.
    Solo a guardarla, e a specchiarsi negli occhi chiari della minore, certe volte Guadalupe faticava a rendersi conto di come avesse potuto avere così tanta fortuna da incontrare precisamente ciò di cui aveva avuto bisogno, nel momento stesso in cui l'aveva necessitato; una qualsiasi altra persona, pur nello stesso spazio fisico e temporale, non avrebbe smosso le acque nella maniera in cui aveva fatto Gin, e non avrebbe dato vita all'effetto farfalla, se così vogliamo, che era stata in grado di scatenare la proprietaria del bar.
    «ma ne vale la pena, sono d’accordo»
    Lupe strinse leggermente la mano di Gin, ancora stretta alla sua, per dimostrare che la pensasse davvero anche lei allo stesso modo, prima di lasciarla libera di sciogliere la presa e giocare distrattamente con le dita, accarezzando il palmo e i polpastrelli e l'interno del polso, tutti gesti che, una carezza alla volta, uccidevano la professoressa — che tentò ugualmente di rimanere stoica e non far leggere il minimo accenno di cedimento sul volto serio e giovane.
    Non era brava con le parole, non quando non aveva qualcosa da spiegare o delle analisi da comunicare o dei sintomi da descrivere; c'era un motivo se Lupe aveva scelto, per tutta la vita, come unica compagnia libri e piante — ed era che questi fornissero tutto ciò di cui la donna avesse bisogno, senza mai pretendere nulla in cambio, se non un po' di cura e amore che Lupe era più che disposta a concedere.
    Ma le persone? Erano tutto un altro paio di maniche.
    Guadalupe non era fatta per i fragili rapporti interpersonali, e lo dimostrava il fatto che avesse pochissime conoscenze, e ancora meno persone che potesse definire amici — quei pochi che aveva, poi, erano la definizione stessa di casi umani, ed era stato forse proprio quello ad intrigare (e a far cedere) la donna. Solo personalità di un certo tipo (brillanti, particolari, anche un può fuori di testa...) potevano sperare di far breccia nel carattere selettivo della messicana; e solo una porzione di questi poteva sperare di rimanere.
    Ginevra era una di quelle, e la fortunata, in quel caso, era Guadalupe. Se ne rendeva conto ogni singolo minuto passato con la minore, a ridere per le sue lamentele quotidiane, o a storcere il naso all'ennesima maliziosa presa in giro nei suoi confronti.
    Era solo giusto che, dunque, lei ricambiasse il favore di tanto in tanto.
    «forse non dovresti usare questo tono con me qui dentro, dietro al bancone ci sono almeno due miei cugini e fin quando non vi sbrigherete a promuoverli la sfida che potrei proporti potrebbe non piacerti» Arricciò il naso, le labbra cremisi a prendere una piega tirata, meno divertita di qualche istante prima. «sto contando i giorni che ci separano dalla fine dell'anno» le confessò, spingendosi in avanti con i gomiti sul tavolo, «ti offenderesti molto se qualcuno di loro non arrivasse a festeggiare Pasqua?» chiedeva, perché le sue piantine carnivore era da un po' che non assaggiavano nulla di diverso da topolini e insetti, e alcuni sostenevano che la carne umana le rinvigorisse parecchio — era tentata ogni giorno di provare questa teoria, usando un Linguini qualsiasi come vittima sacrificale. Ammorbidì l'espressione, le labbra a piegarsi nuovamente in un sorriso. «scherzo» forse. Magari non del tutto. «ci pensi, solo qualche mese e niente più Linguini in giro a bighellonare per i corridoi» sembrava quasi un sogno, che nessuno la svegliasse! E sì, aveva sempre detto che non avrebbe parlato male, di fronte a Gin, dei suoi cugini ma ogni tanto andava detto — e avrebbe potuto essere molto più cattiva di così!
    Ma Gin aveva ragione: c'erano almeno un paio di Linguini sempre in agguato lì al bar, e non voleva rischiare di ricevere una sfida che poi non avrebbe potuto permettersi di accettare; purtroppo era ancora fermamente convinta che non fosse una buona idea uscire allo scoperto con ancora così tanti parenti dell'italiana tra gli studenti della Ramos. Ma, se il cielo e le intenzioni dei Linguini ancora studenti, fossero stati dalla loro parte, nel giro di qualche mese avrebbero potuto finalmente dare a quella relazione una connotazione diversa, e smetterla di nascondersi da occhi indiscreti.
    Ma per il momento, era meglio di no.
    «quindi se proprio vuoi conoscere il tuo regalo puoi accettare questa sfida al buio e con riserva per quando il momento sarà più opportuno, o puoi provare a convincermi qui ed ora che le enchilladas siano meglio delle lasagne»
    Finse di pensarci qualche istante, un dito a picchiettare contro il mento, soppesando le due alternative. «credevo avessimo deciso che sono sullo stesso livello» o così ricordava di quel battibecco quando, ubriache di cibo, sesso e anche un (bel) po' di vino, erano finite con l'accettare che, ciascuno a modo suo, entrambi i piatti fossero da considerarsi patrimonio dell'umanità. «ma sai cosa? accetto la sfida al buio» quei mesi in compagnia di Ginevra l'avevano ormai temprata: era pronta a tutto. «ma non lo faccio solo per il regalo» lo faceva anche perché, sotto sotto, un po' masochista lo era e il brivido dell'ignoto, e di una sfida accettata a scatola chiusa, davano nuova vita ad un'esistenza altrimenti spenta, e arida — tanto per rimanere in tema di metafore.
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    ginevra 'gin' linguini
    Se c'è una cosa che odio di più
    È che non posso vederti
    tutti i giorni


    2002 ✧ umbrakinesis ✧ bar owner
    e c'è una cosa che
    odio ancora di più
    è che non posso vederti
    quando ti spogli
    con una canzone dei Doors
    Si poteva dire che fosse stato merito del destino, del caso, o che fosse stato galeotto il famoso quadro davanti al quale entrambe le ragazze si erano fermate – tutte cose certamente vere –, ma nonostante la naturale fascinazione che queste idee provocavano, Ginevra Linguini era molto più avvezza a pensare che le cose non capitassero semplicemente per un caso fortuito o perché qualcuno ai piani alti aveva deciso che dovesse andare così, ma che le scelte personali giocavano un ruolo importantissimo nel loro divenire. Perché quella di approfondire la conoscenza di Guadalupe era stata sicuramente una spinta spontanea e immediata, perché l’italiana si era lasciata trasportare dalla prima impressione che la maggiore le aveva fatto, ma allo stesso tempo era anche stato il frutto di una ponderata decisione.
    Indubbiamente il carattere immediatamente spigliato della sudamericana, e indubbiamente il fatto che trovava estremamente intrigante come sapeva tenerle testa, ma c’era anche da dire che il suo sguardo volpino avesse giocato un ruolo importante, così come il suo sorriso carnoso, la mascella ben marcata, tutto il resto del suo corpo, e quella r naturalmente arrotata. Eh dai, chiamatela scema. A un certo punto avevano tutti avuto la fase di attrazione fatale verso la lingua spagnola. Alle medie le sue compagne erano tutte pazze per Ricky Martin e Enrique Iglesias, poi erano passate a Maluma e alle sue discutibili canzoni, e ora c’era la Pedro Pascal mania, e trainate da queste personalità avevano tutte iniziato a dire parole spagnoleggianti a caso tipo paella, hola, fernando torres el nino numero nueve de liverpool; e per quanto la Linguini si fosse sempre vantata di essere edgy e di non seguire le mode, anche lei non era stata risparmiata da questa ondata, solo che le sue crush erano state boh Antonella del Mondo di Patty, Shakira, Sofia Vergara, cose da saffiche capite – e ora c’era Lupe.
    La professoressa di erbologia le piaceva per i sopracitati e tanti altri motivi, ma sì, quell’accento spagnoleggiante rendeva il tutto ancora più irresistibile per l’italiana, e pure dopo mesi non si era ancora abituata e si trovava sempre a sorridere in modo stupido, arrossire, e a dover prendere un respiro profondo prima di poter dare una risposta intelligente e che non la facesse sembrare una ragazzina di quindici anni alla prima cotta – un’impresa particolarmente difficile considerato che la sudamericana ficcava spesso parole della sua lingua madre nelle conversazioni.
    «claro» ripeté quasi in modo canzonatorio, alzando il sopracciglio e non provando nemmeno a nascondere l’espressione decisamente divertita e galvanizzata; giocare con le dita della mano su quella della maggiore in quel momento doveva funzionare anche da momentanea distrazione e valvola di sfogo, ma continuò con piacere anche perché per il momento era l’unico contatto che potevano permettersi in quel bar. «ti offenderesti molto se qualcuno di loro non arrivasse a festeggiare Pasqua?» trattenne una risatina, accogliendo la battuta (forse manco tanto) della ragazza, ma fece finta di pensarci sul serio e poi si strinse nelle spalle «vediamo, Remo serve in cucina, è l’unico di loro che la nonna fa avvicinare ai fornelli, Lux ha imparato a lavare bene i piatti anche da ubriaca, e Ciruzzo è il più veloce a rollare le canne…» quindi, facendo un paio di conti veloci «…di tutti gli altri invece puoi farne quello che preferisci» aggiunse convinta con un cenno della testa, salvo poi, l’attimo immediatamente successivo, stravolgere espressione e guardarla in modo estremamente serio, fermando i movimenti delle sue dita sul suo braccio per stringere la presa quasi preoccupata – quasi minacciosa «ma Giacomino no!» e ormai, dopo un po’ di tempo insieme, doveva averlo capito anche la sudamericana che quella era una cosa su cui la Linguini non scherzava – e poi Giacomino piaceva a tutti, addirittura alla professoressa, quindi Gin poteva stare più che tranquilla.
    Tornò a rilassarsi, infatti, distese di nuovo le labbra in un sorriso divertito, e riprese con i movimenti lenti e discreti sulla mano di Lupe «beh, sarà meglio per loro che inizino a bighellonare seriamente per questi corridoi se vogliono essere pagati» spoiler: non erano pagati, ma visto che gli affari al Bar dello Sport stavano andando benino – aveva scoperto con piacere che alla comunità magica inglese piaceva discretamente la cucina italiana, che era anche comprensibile visto lo schifo che erano abituati a mangiare – aveva lentamente aperto a delle contrattazioni; e chi se non il fottutissimo milanese infame si era subito azzardato a richiedere un contratto? UN CONTRATTO! Aveva dovuto riferirlo a Nonno Lino con molta calma e dopo molti bicchieri di digestivo per evitare che gli venisse un infarto. Ma come si permetteva quel polentone – chiedere un contratto, non era mica così che funzionavano le cose a Canosa. Ed ecco che stava tornando a stressarsi per quella questione, e non andava mica bene perché in famiglia soffrivano di pressione alta e lei era quasi certa che fosse già abbondantemente a rischio. Prese un grosso respiro e poi scrollò le spalle «ma sono felice che almeno tu non li avrai più tra i piedi» chiuse così il discorso sui cugini, ed era anche ora visto quelle merdine ingrate già occupavano fin troppa parte del suo tempo, e monopolizzare anche la sua relazione con Lupe anche no eh.
    «credevo avessimo deciso che sono sullo stesso livello» tornò mentalmente al momento di quella discussione e nascose un sorrisino dietro le labbra distese, poi gonfiò le guance in uno sbuffo un po’ divertito «vabbè dai non valeva, mi hai zittito in un modo non del tutto regolamentare, andrebbe-» rivisto al VAR, beppe, stava quasi per dire, ma si bloccò e vagò con lo sguardo un po’ altrove «-ne parleremo con calma, le assaggeremo di nuovo entrambe e faremo una lista di pro e di contro. E senza vino, questa volta» altrimenti scommetteva che sarebbero di nuovo inciampate nelle lenzuola, e non se lo potevano permettere perché su quella questione Ginevvra non poteva mica soprassedere; le lasagne erano una cosa importantissima per la Linguini, altroché, era il primo piatto che la nonna le aveva insegnato a fare, e al momento il confronto con le enchilladas non reggeva minimamente.
    «ma non lo faccio solo per il regalo» sorrise soddisfatta e anche un po’ maliziosa, poi annuì lentamente. Non era del tutto sorpresa; si aspettava che alla fine Lupe avesse ceduto alla sfida, e non perché lei fosse stata particolarmente accattivante e convincente, ma perché ormai aveva imparato a conoscerla e sapeva che in fondo quel lato che un po’ agognava l’ignoto, esplorare l’ambiente fuori dagli schemi, colorare uscendo un po’ dai bordi, era sempre stato parte della tossicologa ma andava solo stuzzicato ed esposto alla luce del sole perché germogliasse – e ora lei ci sguazzava dentro.
    Gin sarebbe rimasta più che volentieri ancora a quel tavolo per ore, a chiacchierare, a stuzzicarsi, a non fare niente. Non erano infatti rare le volte che semplicemente si sedeva di fianco alla messicana in silenzio e continuava a leggere il suo libro o a finire il suo disegno mentre la maggiore finiva di correggere qualche compito o sistemava gli incasinatissimi turni del San Mungo. Avevano imparato anche a condividere il silenzio senza percepire la presenza dell’altra come di troppo, e sebbene entrambe le ragazze tenessero tanto alla loro privacy e privilegiassero il più delle volte starsene da sole mentre facevano le loro cose, di tanto in tanto si concedevano anche quei momenti. Quel giorno avrebbe potuto essere uno di quei momenti, ma l’ombrocineta aveva inizio a sentire un po’ troppi rumori sospetti provenire dalla cucina e qualche imprecazione in romano volare un po’ troppo ad alta voce, e quello di solito era il suo personalissimo batsegnale che la richiamava all’azione.
    Si guardò velocemente intorno, e una volta appurato che non ci fossero occhi sospetti, si sporse appena sul tavolo per avvicinare il suo viso a quello di Lupe «allora tieniti libera per stasera» l’avvisò facendo intrecciare un’ultima volta le dita delle loro mani «farò in modo di uscire al primo giro dell’asso che fugge, a quel punto saranno troppo impegnati a litigare tra loro per accorgersi di me» sì, le stava dando un appuntamento in poche parole, ma dopotutto avevano una sfida in sospeso, no? Mica potevano perdere tempo. Si avvicinò giusto ancora un po’ «e preparati anche a perdere» anche questa suonava un po’ come una minaccia, ma sperava che alla Ramos fosse arrivato più che altro il sottotesto malizioso «e Buon Natale, culito» con un’ultima risatina azzerò definitivamente le distanze tra i loro corpi per piegare il viso e lasciarle un bacio stampato sul collo, prima di staccarsi e prendere in fretta e furia le sue cose – baby groot compreso – e correre in cucina all’urlo severo di «ROMOLO ANTONIO LINGUINI» e questa sì che era una vera minaccia.
    I give it all my oxygen,
    so let the flames begin ©


    SPOILER (click to view)
    *un natale dopo* secondo me chiusa??! ma se vuoi rispondere o vogliamo fare un salto fai pure zia, besito
     
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7 replies since 12/12/2022, 22:20   300 views
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