Kyle non si era mai reputato una persona confusa, ma doveva ammettere che incontrare gli occidentali gli aveva ampiamente fatto rivalutare quel sentimento, perciò non poté (né volle) contenere l'espressione sempre più smarrita man mano che la conversazione con il ricciolino continuava.
«è quello che ti hanno detto?» Beh sì, i Kang erano stati abbastanza schietti e sinceri, almeno con lui, riguardo un sacco di cose che lo riguardavano — tipo l'adozione, o il fatto che non fosse un purosangue come loro, o che non avesse, appunto, nemmeno un briciolo del sangue Kang come invece facevano credere da anni all'opinione pubblica. Perché alla fine tutto quello che contava era proprio quello, no? L'opinione. E il fatto che non potessero avere eredi maschi, nessuno che portasse avanti il nome e il business della famiglia, sarebbe stata una macchia troppo grande per loro, al punto da spingerli ad adottare un Haeil ancora in fasce e fingere per tutto quel tempo che fosse loro legittimo erede.
A Kyle non importava troppo delle menzogne, o della sopracitata opinione pubblica, ma aveva apprezzato almeno l'onestà nei suoi riguardi; era stato l'unico motivo per cui aveva continuato a rispettare i Kang anche dopo, e l'unica ragione per cui aveva lasciato la Corea dando loro una sorta di spiegazione e una falsa aspettativa che sarebbe tornato, prima o poi, a riprendere il suo posto in azienda. Arrivati a quel punto, però, sperava che l'avessero capito anche loro che il fatidico giorno non si sarebbe mai presentato: Haeil non voleva prendere le redini, ed era più che contento di lasciare tutto quanto in mano a Soon-Bok, sua sorella, certo che prima o poi avrebbero visto quanto valesse e quanto si impegnasse e quanto tenesse all'azienda (molto più di lui, su tutti e tre i fronti, a mani bassissime) e avrebbero soprasseduto al fatto che fosse una donna (derogatory, perché vivevano ancora in una società maschilista e retrograda, boo-hoo).
Di tutto questo, però, a l'altro disse solo: «mi hanno detto le cose che reputavano di mio interesse», perché sapevano che tutto il resto sarebbe stato fiato sprecato con lui, come quello del ragazzetto insomma.
Che però, a quanto pareva, ne aveva davvero un sacco di fiato che gli avanzava ed era deciso a liberarsene tutto in una volta, e proprio con Kyle. Yay.
«ecco cosa significa affidarsi alle false religioni, che vogliono isolarti, nasconderti la tua vera natura. Ecco perché il nostro compito è quello di educare gli umani alla Vera religione, allontanarli da certe miscredenze» Oddio, tanto una “religione” non gli parevano, i Kang, ma magari l’altro intendeva “setta” e Kyle aveva solo perso qualcosa nella traduzione; convintosi della sensatezza di quel pensiero, non rispose, preferendo solo annuire come se avesse di fronte un caso umano senza possibilità di redenzione.
Come se.
«tu hai tutti noi, siamo noi la tua famiglia. Ecco chi sei.» Era abbastanza certo di averne un'altra, di famiglia, ma a quel punto forse il pazzoide andava solo assecondato? Perciò annuì, lentamente e senza staccare gli occhi scuri da quelli allucinanti dell'altro, se non per qualche secondo, necessario a prendere coscienza delle lampade tutte intorno a loro, degli scaffali anonimi e del silenzio dell'enorme negozio.
Sì, aveva davvero qualche rotella fuori posto, se pensava di poterlo convincere ad essere imparentato con delle luci da scrivania.
«E ora mi stai dicendo che abbiamo anche una sorella?!?»
«Ho.» Pose quanta più enfasi possibile sul verbo, «ho una sorella.» Che avrebbe preferito vederlo morto, piuttosto che al vertice del business familiare, ma ok; almeno su quello i due Kang andavano d’accordo.
Niente da fare, però, le parole di Kyle, per citare un vecchio proverbio della regione Gyeonggi: da ‘na recchia je entravano, e dall’artra je ‘scivano. «Non credo ci sia bisogno di cadere nel blasfemo, sai.» Stava proprio su un altro pianeta, send help? Anche per la mano ancora piantata sul suo braccio: non voleva davvero cogliere l'hint, e allora: «senti, puoi per favore staccare la mano dal mio braccio, lo apprezzerei davvero molto.» Pur non essendo un tipo violenti (cit Kyle the Vampire Slayer) , era a tanto così dallo schiantare il minore contro gli scaffali del negozio.
Con estrema impassibilità, e con il tono di voce più monocorde possibile, gli fece notare ancora una volta come non fossero in qualche luogo sacro ma semplicemente da Ikea. E lui? «ESATTO, BRAVO! Ah, vedo che inizi a capire» Allora, innanzitutto: mcscuseme? Kyle capiva sempre tutto e al primo colpo, tranne come comportarsi con le persone, ma nessuno era perfetto.
Secondo: «siamo da Ikea, proprio nel luogo dove tutto ha avuto inizio, dove papà ha deciso che doveva donare agli umani questo paradiso in terra»
«Tuo padre è Ingvar Kamprad?» Solo così, mettendo chiaro e tondo le cose come stavano, Kyle sarebbe venuto a capo di quella situazione. Se così fosse stato, se quel ricciolino era davvero il figlio del fondatore della catena di negozi blu-giallo, allora okay; rimaneva sempre un po' folle, ma Kyle si sarebbe sentito meno in colpa a lasciarlo lì, in quanto quella era davvero, per vie traverse, casa sua.
«Non ti sei mai chiesto da dove provenisse questo tuo legame speciale con Ikea?»
Huh? Quale legame speciale? Kyle non ci voleva nemmeno venire, da Ikea. «Mh no, decisamente no. Nessun legame speciale.» Ok il voler dargli corda, ma solo fino ad un certo punto.
E fu in quel momento che, finalmente, forse per proteggerlo da ciò che stava per succedere, gli omini che lavoravano incessantemente nella sua scatola cranica per mandare avanti ingranaggi e quant’altro, e che solitamente lo rendevano Kyle, entrarono in sciopero. Così, de botto; al punto che il coreano, per qualche lunghissimo (e piacevole, lasciatemi dire) istante, non sentì nulla. Zero. Nisba. Solo rumore statico, o di onde che si infrangevano sugli scogli, musica leggera che lo cullava e lo calmava.
Una beatitudine che durò molto poco, purtroppo.
E quando Kyle rientrò in possesso delle sue facoltà mentali (purtroppo per lui) perse del tutto quel briciolo di sanità che gli era rimasta, a furia di parlare con Swag.
Batté due, tre, dieci volte le palpebre, registrando con orrore e ritardo ciò che era appena successo, come quello scopino da bagno – forse nuovo, o forse no – era stato passato su tutto il suo corpo mentre lui entrava in sospensione come i pc; le parole – vuote, e senza senso – del minore; il fottuto scopino che aveva accarezzato i suoi abiti e la sua pelle.
Ma. Che. Cazzo.
Senza neppure rendersene conto, una macchina comandata probabilmente dall’IA e niente più, alzò il braccio per afferrare lo scopino direttamente dalle mani di Swag, sfilarlo come se nulla fosse approfittando del gesto inaspettato e della sorpresa del ragazzo, e lo scagliò via, il più lontano possibile. Speriamo addosso a qualcosa che potesse rompersi in mille pezzi, nello stesso modo in cui si era frantumata la sanità mentale di Kyle: sarebbe stato un momento cinematografico molto interessante e poetico.
Per giunta, quanto Swag ebbe l’ardore di avvicinare una mano al suo viso e invitarlo a fare silenzio, Kyle ebbe l’istinto di spalancare le fauci e azzannarlo: tanto due mani non servivano a nessuno, no? Ne bastava una. «L’unica cosa che sento è la voglia metterti al posto di quel banner pubblicitario lassù.» Gliene indicò uno a caso, non era picky e se ne sarebbe fatto andare bene uno qualunque: tutto, pur di togliersi il riccio da davanti agli occhi. Era una persona calma e pacata, il Kang, ma non era al di sopra di compiere omicidio in quel momento. E quando saltò per scompigliargli i capelli, quasi lo fece.
Prese la maglia di Swag con un gesto repentino, e la strinse nel pugno, una morsa così stretta che pur divincolandosi il minore non sarebbe andato da nessuna parte.
«non c'è rischio, papà, già ci vogliamo bene»
«Non direi, no.» Omicida, nel suo tono di voce, ecco cos’era Kyle; pure Caino e Abele erano fratelli, no? Kyle si sentiva quanto mai vicino al primo, in quel momento.
Impassibile alle sue minacce, Jattelik continuò a parlare jabberish e nonsense.
«dici che sarebbe stato meglio metterla in un bong?»
«No, non dicevo quello.» Non l’aveva mai detto, ma sapete cosa? L’assurdità di quel ragazzo fece scemare la follia omicida di Haeil, che mollò la presa e si allontanò da lui — per il bene di entrambi; Kyle non era fatto per posti come Azkaban, e dovette ripeterselo come un mantra per non avadakedavrizzare il minore su due piedi.
«pianifico da mesi di venire in pellegrinaggio qui da Nostro Padre. Tu invece, com'è che ti sei trovato proprio oggi qui? Hai ricevuto la chiamata o sei stato guidato anche tu dall'istinto fraterno come me?»
«No.» Una lunga serie di sfortunatissimi eventi lo aveva portato lì, e Kyle si pentiva come mai prima di aver lasciato il silenzio e la tranquillità di casa sua.
Era finito lì trascinato dal Milkobitch (magari avrebbe schiantato anche lui, così, per soddisfazione personale) e non per sua volontà; non credeva (alle parole di Swag, né) al destino, perciò quella storia dei fratelli non l'aveva capita nemmeno un po'.
(Ah, ci sarà da divertirsi poi quando dovrà scoprire di Kaz. Kyle be like: eye mouth eye.)
«Senti, pellegrinaggio o no, io dico che sei completamente fatto e che sarà meglio cercare una via d’uscita prima che qualcuno, insospettito dalle telecamere, dai rumori, o da chissà cosa, mandi qualche guardia e ci faccia arrestare.» Che senso aveva tentare di installare un po’ di senno nel minore? Nessuno, e infatti Kyle lo stava facendo per se stesso, ciaone. Ripetersi certe cose serviva a non farlo uscire del tutto di testa. E si, anche la parte dell’essere fatto: si era convinto fosse tutta colpa del fumo passivo di Swag, infondo lui non aveva mai fumato in vita sua, quindi era plausibile che un po’ di fumo dolciastro lo mandasse subito ai pazzi. «Non mi interessa se non sei d’accordo, ora ce ne andiamo.» E girò i tacchi, lasciando Swag dov’era: sempre perché Kyle stava parlando con se stesso, capito? Se l’altro avesse voluto seguirlo era libero di farlo, ma il coreano sperava tanto di no.