i don't wanna mess this up, or do this wrong

ft. turo

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    ALOYSIUS ANGUS CRANE
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    «Hold...»
    «Dimmi!»
    Non poteva farcela. Non poteva proprio farcela. Umettò le labbra con lenta intenzione, lo sguardo smeraldo puntato con severità sulla ragazza e le braccia incrociate al petto in silente attesa - perché no, non aveva alcuna voglia di parlare oltre: aveva già detto troppe volte il nome della Beer, avesse continuato avrebbe smesso di chiamarsi così. Gli sembrava di aver colto in flagrante Flow a giocare con sigarette che gli era fisicamente impossibile raggiungere, o River nel tentativo di stappare il flacone della candeggina per fare Dio solo sapeva cosa: berla? Pulire i bagni di casa? Usarla per uccidere suo fratello? Tutto poteva essere, con quei due piccoli e adorabili sociopatici che si era ritrovato come figli. Non avrebbe escluso che si fossero messi d'accordo per dare fuoco all'intero edificio, con accendino e prodotti ad alto contenuto infiammabile.
    La differenza tra loro due e la barista, però, stava in un semplice quanto importantissimo fattore: loro riconoscevano la sua autorità, sapevano cosa avevano (o avrebbero) fatto, chiedevano scusa, avevano cinque anni e mezzo. L'acidocineta, invece, non era o faceva nulla di tutto ciò: era solo pazza. Un pericolo pubblico. Le voleva bene: alla fine, quale delle sue conoscenze - inclusi figli, nipoti, parenti vari - non aveva una o più rotelle fuori posto?
    Ma lì, si parlava di molto più della compromissione del suo lavoro: non voleva muovere un singolo passo falso, Aloysius Angus Crane, e non lo avrebbe fatto. Aveva fatto tante cazzate, in trentatré anni; aveva sbagliato tutte le scelte possibili da fare, aveva pagato di tutti i danni che aveva commesso. Ma aveva così tanto di buono nella sua vita, e così tanto da proteggere: non voleva rischiare un effetto domino qualsiasi e mandare tutto a puttane. Già aveva ancora tante cose da sistemare.
    E quella, quella era proprio l'occasione che aspettava da un'infinità di tempo. L'opportunità di ripartire, di lasciarsi alle spalle un lavoro che aveva scelto mosso dall'adrenalinica spinta del risentimento e della vendetta, e che si era trascinato come la catena di uno spirito errante per un fine più grande e glorioso.
    Reset e backup. Un nuovo inizio e un ritorno alle origini, perché ricordava bene tutte le volte che quel locale lo aveva accolto - disperato, solo, terrorizzato - nei sette anni precedenti, e quelle memorie avrebbero fatto parte di lui finché non fosse (definitivamente) morto.
    Aveva delle pretese un po' assurde, sogni di grandezza che sapeva di non poter raggiungere, ma voleva essere un po', quanto possibile, ciò che Keanu Larrington ed il suo locale era stato per un Al venticinquenne - un porto sicuro in cui sapeva di non essere giudicato; una casa per una notte nella quale rifiutare categoricamente ogni aiuto che gli venisse offerto, ma nella quale tornare i giorni a venire, consapevole che quella mano per rialzarsi o quel secchio accanto al letto nelle stanze al piano di sopra, non sarebbero mancate.
    Non avrebbe certo permesso che Hold, o Willow - ma la Murray gli sembrava già più normodotata della special -, commettessero quel passo falso che tanto si impegnava a non muovere lui; c'era troppo in gioco per lasciarle dare una schicchera alla prima tessera di quel disegno in precario equilibrio.
    Sollevò un biondo sopracciglio, ed iniziò a battere il piede destro sul pavimento: nemmeno con i suoi figli doveva arrivare a scandire il tempo con la scarpa, e non sapeva quale sarebbe dovuta essere la prossima mossa da genitore arrabbiato per convincerla a parlare. Valutò di minacciarla con i lavori meno graditi, ma già le toccava pulire il bagno a intervalli variabili, o di ridurle lo stipendio; licenziarla gli parve sconveniente, gli serviva qualcuno lì o in due sarebbero impazziti in fretta. Stavano già perdendo fin troppo tempo: erano già le otto, iniziava a sentire il trambusto fuori dalla sala del personale e non potevano restare lì entrambi ancora a lungo. Non aveva voluto organizzare nessuna inaugurazione per la nuova gestione del pub, ma stava di fatto che fosse sabato e che avesse invitato una band a suonare: sperava ci fosse un bel po' di gente, quantomeno. Studenti da ingaggiare come aiutanti per sopperire alla prossima mancanza della ragazza davanti a lui, forse.
    «Non ho fatto niente di male!» arricciò il naso, ma non distolse gli occhi da Hold: non vedeva forse quello che vedeva lui? Oddio... che avesse accidentalmente drogato di nuovo lui, e che ora avesse le allucinazioni? «Me li sono ritrovati qua dentro con le mani sulle nostre bottiglie!»
    Al sospirò. Piano, molto piano, facendo pesare ogni molecola d'anidride carbonica a scivolare fuori dalle labbra. Non aveva nemmeno la forza di alzare gli occhi al cielo, di chiudere le palpebre, di stringere la radice del naso tra le dita: era lì da pochi giorni, ed aveva già perso le speranze con la special. Almeno aveva la certezza di non essere stato lui la vittima involontaria del suo potere. «Erano dove dovevano essere, e quelle sono ancora le loro bottiglie.» indicò i tre ragazzi svenuti (sperava solo svenuti, già nascondere un solo cadavere era difficile, non poteva mica chiedere ai suoi bambini di portare candeggina e accendino per scioglierli o dare fuoco a tre corpi: era un padre modello, lui) a terra, arcuando allusivo entrambe le sopracciglia per suggerirle di voltarsi e guardare le loro magliette - tutte con l'enorme scritta della ditta da cui si rifornivano.
    «Ooooh...»
    «Sì, oh il bello, è che glielo avesse anche detto che li stava mandando nel retro per portare le varie scatole. «Non li hai avvelenati, vero?» «Mmhhh...» in che senso. La osservò pensare (un processo che sembrava costarle più fatica e impegno di quanto immaginasse Al), sinceramente preoccupato. «No, dovrei averli solo anestetizzati. Dovrei è la parola chiave.»
    Ignorò il finger gun e l'occhiolino di lei. «Senti, vai in sala ad aiutare Low. Questo posso gestirlo io.» e quando uscì dalla stanza, non le disse che forse avrebbe avuto la metà della paga quella sera.
    «Will? Sì, scusa il disturbo,» si piegò sulle ginocchia, il telefono tra orecchio e spalla e due dita sulla carotide di uno dei tre giovani per accertarsi fosse vivo. «Puoi passare un attimo nel retro? Ho bisogno di un favore.»
    Piccolo piccolo.

    «Oh, finalmente siete svegli, iniziavo a preoccuparmi.» e nella farsa, era comunque abbastanza serio: potevano avere l'età di Turo o Oscar, e se fosse successa a loro una cosa simile avrebbe vissuto momenti di sincero panico. «Cos'è... cos'è successo?» guardò il Barrow al suo fianco, nascondendo il mezzo sorriso sul volto mentre i tre si riprendevano. «Siete stati attaccati,» tagliò corto, ma in effetti era la verità. «qui fuori, mentre scaricavate.» e quella era una bugia: tuttavia, il capo dei ribelli era bravo con gli incantesimi di memoria e confidava che i ragazzi credessero a quella versione. «In effetti... ricordo qualcosa...» il Crane rimase in silenzio, aspettando che proseguisse. «Erano in tre, credo? Forse ne abbiamo anche colpito uno,» non intervenne, ma dovette trattenersi molto dal sorridere: ci credeva davvero un sacco a quello che stava dicendo. Lungi da lui minare l'ego del moro e dirgli che era stato proprio il suo acutissimo urlo a metterlo in allerta, mentre in meno di un nanosecondo Hold li stendeva a terra. «ma sono fuggiti. Avessi avuto le mani libere...» «Immagino!» annuì. «Erano ribelli?»
    «Probabile. Erano già troppo lontani, non siamo riusciti ad inseguirli. Abbiamo subito avvertito le autorità, ma la nostra priorità era portarvi al sicuro e farvi riprendere.» perché loro erano bravi cittadini, e di certo il proprietario di un locale non poteva tollerare possibili atti di terrorismo fuori dal suo pub. Inammissibile.
    «Grazie, ci avete salvato la vita!» eh sì, non aveva idea di quanto fosse vero quello. «Come possiamo sdebitarci?».
    Al agitò la mano davanti a sé, sorridendo amabile. «Non c'è alcun bisogno, avreste fatto lo stesso.»
    O forse no, chissà.
    Li osservò consultarsi tra di loro, tutti molto convinti di ciò che avevano da dirsi. «Tutto quello che abbiamo portato qui lo paghiamo noi!» «Ma figuratevi! Non c'è bisogno!» falso. Falsissimo. «Insistiamo!» ah!, chi era lui per opporsi a dei giovani tanto riconoscenti al quale aveva nascosto che una dipendente li aveva drogati pesantemente, in modo che non partisse alcuna denuncia e nessun ministeriale venisse nel locale ad indagare e scoprire potenzialmente più di quanto dovesse? «Almeno restate un po', vi offro un paio di birre: direi che ne avete bisogno.» e mentre uscivano, posò una mano sulla spalla di William. «E qualcuna di più a te, se vuoi.» «Mi sembra il minimo.»

    La Testa di Porco non era gremita di gente - anzi, c'era solo una dozzina di persone in più del solito. Ad Al non interessava che fosse colma, talmente intasata di esseri umani ubriachi da non permetterti di passare tra i tavoli; non era il suo intento renderla un discopub o altro, e se qualcuno fosse venuto lì pretendendo quello li avrebbe reindirizzati al Better Run. Dove, chi voleva prendere in giro, sarebbe andato anche lui a fare una scappata la sera stessa: era il proprietario ormai, poteva delegare a Willow ed andare a tenere su il morale di sua figlia quanto più possibile - o solo ad essere li per lei.
    «Signore e signori,» ma per quella volta, e per altre che sarebbero arrivate sicuramente, era contento ci fosse qualche anima persa in più lì dentro; era un musicista anche lui, sapeva quanto fosse bello avere la possibilità di farsi sentire da un pubblico. Microfono in mano, fece un passo indietro dal palco - oddio, palco: diciamo più angolo privo di tavoli e con abbastanza spazio da infilarci qualche strumento musicali - lasciando ai ragazzi prendere possesso delle luci. «vi presento i Rolled Stoned!» «Era... solo Stoned...»
    Al guardò Ciruzzo.
    Ciruzzo guardò Lux.
    Lux guardò il bancone del pub e le bottiglie di gin che Hold stava risistemando lì dietro.
    Quindi, Ciruzzo guardò Al.
    «Sai cosa? Va bene Rolled Stoned.»
    Il lumocineta piegò le labbra in un sorriso sornione, il pollice sollevato: anche quel giorno aveva reso il mondo un posto migliore e aveva salvato delle vite. No, non i tre drogati nel retro - gli italiani, dando alla loro band un nome migliore. «Fategli un enorme applauso!»
    A proposito dei tre di poco prima: si sentiva tremendamente in ansia. Non per aver mentito loro, figurarsi, una bugia ogni tanto non fa mai male. Temeva potessero diventare dei tossici per, indirettamente, colpa sua. «Signor Crane!!!» sorrise ad uno dei tre, i capelli ramati che gli cadevano a boccoli sulla fronte, e si lasciò passare un braccio attorno alle spalle - per quanto fosse possibile alla più minuta stazza Jimmy: sì, certo che conosceva il suo nome; no, non li aveva ancora adottati ma li avrebbe tenuti sotto controllo. «Non avrete esagerato un po' con la birra?» appunto. «Pffft, abbiamo finito il turno, ci stiamo divertendo!» okay, ma al maggiore sembrava avessero decisamente esagerato.
    E poi lo vide.
    Dietro ad uno degli altri due, un piccolo luccichio figlio di un peculiare gioco di luci. Qualcosa di così familiare da catturare l'attenzione anche per un così breve frammento d'istante.
    No, non Arturo. Lui l'aveva visto nel momento stesso in cui aveva varcato la soglia del locale, e mai aveva smesso di cercarlo tra la folla - anche quando non voleva, gli era impossibile non far cadere lo sguardo su suo figlio. Aveva evitato di approcciarlo, non voleva rompergli le palle, ma aveva visto ogni persona con cui aveva parlato, contato ogni birra che aveva bevuto, sorriso tutte le volte che le iridi celesti incontravano casualmente quelle verdi.
    Quell'amuleto non lo aveva mai notato prima; istintivamente, portò la mano a sfiorare il suo, ancora lì sotto il tessuto della maglia.
    «Ho una domanda importantissima il modo sbiascicato con cui enfatizzò, lo riportò un po' su alla realtà. «Mh?» tuttavia, rimase a fissare l'Hendrickson, mentre salutava e se ne andava dal locale.
    «Perché ci sentiamo così fatti?» oh no. Che peccato che volesse così ardentemente seguire suo figlio fuori da lì, moriva dal desiderio di rispondere a quel quesito. «Non ne ho idea. Scusami, devo andare - WILL! No, non tu. Esco un attimo, pensa a tutto te qui.» si strinse tra le spalle al broncio del Barrow, prima di mettere piede fuori dal locale: non era così folle da affidare il proprio pub nelle mani del Leader.
    Aveva fatto esplodere attività commerciali per molto meno.

    Non capiva se Turo avesse alzato un po' troppo il gomito, quella sera. Gli si stringeva il cuore al pensiero, ma non erano quei dubbi a preoccuparlo in quel momento.
    Era il fatto che barcollasse per Hogsmeade, e che si fosse infilato - forse inconsapevolmente - nella Dark Street, ad incutergli un certo terrore.
    Poteva avere vent'anni, essere cresciuto in un'altra famiglia, venire dallo stramaledetto futuro: cosa cambiava ad Al? Era comunque suo figlio, quello che da solo vagava in una delle vie più malfamate della cittadina magica.
    Lo seguì, e l'unica cosa che tradì il suo pedinamento fu una pozzanghera troppo rumorosa a capitare sotto i suoi piedi.
    Che cazzo.
    Vabbè che voleva comunque approcciarlo, ma voleva evitare la bacchetta puntata contro. Così era quasi inquietante, oltre che potenzialmente pericoloso. Quasi.
    «Sono io, sono io.» alzò le mani in segno di resa, un timido sorriso a piegare le guance. «Scusami, non volevo spaventarti!» la lingua guizzò sulle labbra, cercando le parole con cui non sembrare un perfetto stalker. Non ne aveva. Bel problema. «Davvero, scusa, non avrei dovuto... fare lo stalker, ecco.» onesto. «Volevo parlarti quando ho visto che sei uscito, ma hai iniziato a...» fuggire: quella era la parola che gli sovvenne all'improvviso. Che lo stesse evitando? «ad andare via, e... eh.»
    Quella strada non era decisamente il luogo adatto in cui parlare, però. «Posso rubarti qualche minuto?»
    E recuperare quelli che ho perso?
    «Magari non in mezzo alla strada, ecco.»
    They say I should be a strong man
    But baby, I'm still filled with fear
     
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    arturo maria hendrickson
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    «Non posso, domani lavoro.» accompagnò con un sorriso triste quelle parole - quella scusa - dietro le quali si nascondeva da settimane e che, oramai, scivolavano con familiarità sulla sua lingua, al punto da suonare quasi convincenti persino alle sue stesse orecchie; almeno quella volta, però, era vero che all'indomani avrebbe lavorato, e non serviva che aggiungesse altro — per di più quando i veri motivi che lo avevano spinto a declinare l'invito erano personali e non li avrebbe condivisi con una ragazza appena conosciuta e di cui sapeva a malapena il nome e la professione (solo perché il primo (Elle) era scritto sul cartellino appeso al collo, e il secondo facilmente intuibile in quanto era quasi sempre lei che, all'ora di pranzo, consegnava il cibo per i piccoletti della scuola).
    Ma, comunque, che adulto sarebbe stato se non avesse utilizzato il pretesto di una sveglia all'alba per rifiutare un'uscita? Era un po' un rito di passaggio, un achievement da sbloccare per guadagnare il Badger da Adulto TM, un po' come litigare con la caldaia che va in blocco o sbagliare la prima lavatrice.
    «Mi dispiace molto! Magari la prossima volta..?» Quello che non disse ad Elle, mentre la salutava sulla porta della Fondazione e le augurava buona giornata, fu che (avrebbe trovato una scusa anche “la prossima volta”) all'inaugurazione della nuova gestione del Testa di Porco avrebbe preferito non andare perché il nuovo proprietario era suo padre, e Turo ancora non sapeva se avesse in sé abbastanza coraggio per affrontarlo direttamente, tanto più su una questione che, da un anno a quella parte, aveva finalmente analizzato, compreso, digerito e accettato; temeva che, trovandosi di fronte Aloysius, tutti i dubbi iniziali, e i tormenti e le paturnie, si sarebbero riaffacciati con prepotenza minando la serenità (e stabilità emotiva) che aveva trovato ultimamente.
    Era codardo (e vile) da parte sua evitare l'uomo ma... ma; finivano sempre lì, tutte le questioni, frenate da due lettere che non avevano un seguito, né una giustificazione. Quando, al mattino, vedeva Al arrivare all'Helius per affidare alla fondazione i due gemelli, Arturo fingeva sempre di avere altro da fare pur di non incontrare lo sguardo dell'uomo, e di solito mandava Charles a fare conversazione o quello che, a conti fatti, era il lavoro di entrambi. Non sapeva spiegare perché fosse più difficile, per lui, affrontare Al di quanto non fosse stato affrontare Maeve: forse perché, nel bene o nel male, Maeve lo aveva conosciuto prima ancora di sapere e aveva un'immagine ben definita di Arturo Maria Hendrickson (non per forza soddisfacente, ma per lo meno reale), mentre l'ex pavor viveva con la mini-copia di un Arturo, su cui con ogni probabilità riversava apettative e per cui faceva progetti dal momento stesso in cui River era venuto al mondo: affrontarlo e presentarsi davvero, conscio adesso di ciò che li legava, gli sembrava come prendere quei sogni e gettarli via — o, peggio, dargli ancora più modo di sperare che tutto quello che desiderava per suo figlio, filasse liscio e non finisse col diventare come lui.
    Non aveva immaginato di sentirsi in quel modo, terrorizzato all'idea di deludere un padre che per diciotto anni non sapeva di aver avuto, eppure era così; era abbastanza sereno della sua vita in quel preciso momento, era diplomato e aveva un lavoro che gli dava soddisfazioni e, soprattutto, lo rendeva felice, ma la paura di non essere comunque abbastanza era ancora lì, una vocina non troppo nascosta, che durante i giorni più difficili tornava a sussurrare nelle sue orecchie quanto di sbagliato avesse fatto in tutti quegli anni, e quanto ancora avrebbe potuto fare.
    Preferiva, dunque, rimandare quell'incontro ad un momento in cui avrebbe avuto più stelline nella colonna delle cose positive combinate nella vita, per essere appena più sicuro di esserne all'altezza.

    Credeva di aver chiuso la questione Testa di Porco già quella mattina, osservando Elle allontanarsi per tornare al suo ristorante — ma uscendo da lavoro, qualche ora dopo, Turo scoprì che non era così.
    «Ho immaginato che fosse una scusa.» Turo, che aveva ancora le chiavi della fondazione in mano, rimase interdetto e in silenzio; fu quello, probabilmente, a fregarlo e a far sì che Elle si convincesse di aver ragione.
    (Cosa, dopotutto, vera.)
    «Andiamo?» Non ebbe nemmeno il tempo di formulare una risposta, che la strega smaterializzò entrambi nella traversa su cui affacciava il pub, già affollato e nel vivo delle celebrazioni.
    «Ma io-» l'accenno della protesta gli morì in gola quando lei lo afferrò per un lembo della giacca e lo guidò, contro la sua volontà, all'interno del locale; l'aria era calda, appiccicosa, ma decisamente non come l'ultima volta in cui l'ex Serpeverde era stato lì. C'era qualcosa di caloroso e familiare nell'atmosfera che si respirava al Testa di Porco quella sera, e per un attimo Arturo ebbe voglia di cedere all'impulso di cercare con lo sguardo il padrone di casa.
    Fu un attimo molto breve, subito interrotto da Elle che, urlando per farsi sentire sopra la band che si stava esibendo, proponeva di andare a bere qualcosa. Solo a quel punto Turo si ricordò che non avrebbe voluto trovarsi lì, ma tra una gomitata e una spinta, erano ormai giunti nel centro del locale; forse, dopotutto, poteva farsi una birra e andarsene — tanto Al doveva essere piuttosto occupato, con tutta quella gente accorsa per la serata inaugurale della nuova gestione, e le tremila cose a cui doveva sicuramente pensare.
    «Che c'è, ti è morto il gatto?» La sua espressione dovette peggiorare nettamente, perché la ragazza nascosta dietro lo spillatore delle birre si affrettò ad aggiungere: «oddio scusa mi dispiace non volevo, era una battuta non credevo ti fosse morto davvero TIENI BEVI» e gli piazzò davanti una birra che Turo non aveva ordinato. «Offre la casa!» Al suo occhiolino complice, l'insegnante rispose battendo più volte le ciglia, cercando di capire. «Non mi è morto il gatto....» se fosse morto Keith (Ethan lo avrebbe cercato e ucciso a mani nude) Arturo avrebbe avuto un'aria molto triste.
    Aspetta un attimo.
    L'altra (Hold, se ricordava bene, avevano frequentato qualche lezione congiunta fino all'anno precedente) annuì come se gli avesse letto nel pensiero. «Bevi, ti sentirai meglio. E goditi la serata, ok?? CHI HA ORDINATO UNA MEDIA BIONDA???? eh eh eh una Beer media bionda in arriiiivoooo» La salutò con un cenno del capo poco convinto, ma lei era già tornata a (distruggere cose) servire birre ai clienti.
    Distratto da quel breve, ma molto intenso, scambio di battute con Hold, Arturo aveva quasi dimenticato colei che l'aveva trascinato fin là: la cercò con lo sguardo, allungando il collo per osservare meglio oltre le teste dei presenti, ma di Elle neppure l'ombra.
    Incontrò invece familiari iridi verdi, a distanza di sicurezza, e non riuscì a resistere al sorriso sincero che vide nascere sulle labbra di Al, al punto da ritrovarsi a fare altrettanto, nonostante tutte le iniziali reticenze. Aveva temuto di trovarsi subito faccia a faccia con il Crane, di dovergli dare delle spiegazioni, di doversi giustificare per qualcosa che non sapeva di aver fatto — tutto perché la sua mente continuava a non permettergli di lasciare indietro certe brutte abituini, certi vizi, certe voci nella testa che puntavano a sminuire ogni suo gesto, pensiero o parola, non importava quanto intensamente lui cercasse di combatterle.
    Eppure, alla fine, aveva dimostrato a se stesso, e a quella parte di sé più oscura e pessimista, che si sbagliava, che non c'era motivo alcuno per essere così preoccupato.
    Portò il boccale di birra alle labbra, e pensò che però, nonostante tutto, aveva bisogno di trovare comunque Elle per dirle che non si sarebbe trattenuto molto a lungo.
    Fu quello uno degli ultimi pensieri coerenti che ricorda di avere.

    L'aria fredda a sferzare sul viso, aiutò l'Hendrickson a riprendere gradualmente controllo della propria mente inebriata, e del corpo che sembrava muoversi per mano di un burattinaio ubriaco.
    Anche se lì, a conti fatti, l'ubriaco era lui.
    Non si spiegava come, poiché era certo di aver detto basta dopo la seconda birra... Anzi, forse dopo lo shot di whiskey che gli amici di Elle avevano offerto, insistendo affinché lui brindasse con loro. Ma aveva bevuto molto di più, in passato, e non si era mai sentito così!
    (Leggero, felice, spensierato.)
    (Fatto.)
    (Reduce da una serata fantastica.)
    Passò una mano sugli occhi stanchi, poi la fece scivolare indietro sui capelli, fino alla nuca. Forse era più provato da quella nuova vita da adulto di quanto avesse creduto, al punto da non riuscire più a reggere nemmeno quel po' di alcol che aveva bevuto durante la sera; o forse —
    Un rumore alle sue spalle lo costrinse a voltarsi, la mano a stringere il catalizzatore prima ancora di registrare la volontà di farlo; tra l'altro, una minaccia inutile perché sì, ok, d'accordo, era migliorato notevolmente grazie agli insegnamenti di Maeve ma non così tanto. Ciononostante, per riflesso incondizionato, la puntò contro la figura alle sue spalle, sperando di risultare abbastanza minaccioso da fargli cambiare idea.
    «Sono io, sono io.» Metterlo a fuoco nella penombra era difficile, ma si sforzò di dare un nome alla voce e, quando finalmente riuscì, una risata mista tra nervosa e incredula sfuggì dalle sue labbra. Ovviamente era Aloysius.
    «Scusami, non volevo spaventarti!» abbassò la bacchetta, costringendosi a farlo con gesti che non sembrassero scoordinati tanto quanto li sentiva. «Non ho bevuto così tanto.» Ancora quello stupido bisogno di giustificarsi, per il quale si sentì subito un imbecille: magari Al non se n'era accorto (.) e non era lì per fargli la predica. «Giuro.» Mise via l'arma, quasi certo che l'uomo non fosse a) un pericolo, b) frutto della sua immaginazione.
    «Volevo parlarti quando ho visto che sei uscito, ma hai iniziato a... ad andare via, e... eh.» Arturo annuì con l'aria di chi sa perfettamente ciò di cui si sta parlando, quando in realtà non aveva la minima idea di come fosse giunto dal locale fino a quella via; ricordava, nella confusione, di aver pensato che gli serviva un po' di aria e l'istante dopo aveva sentito il fresco carezzare le guance e schiarire i pensieri. Magari quello ad Al non l'avrebbe detto.
    «Posso rubarti qualche minuto?» Era nella posizione di porer dire no?! No, appunto.
    Puntò gli occhioni distratti in quelli dell'uomo e, mandando giù paranoie e sensi di colpa, annuì. Come se non avesse passato gli ultimi mesi a fuggire da una stanza ogni volta che Al entrava; come se non avesse fatto in modo e maniera di rimandare quell'incontro il più a lungo possibile; come se non avesse voglia di girare i tacchi e correre via veloce anche in quel momento.
    «O...ok.» Si schiarì la voce, grattando con la suola della scarpa un ciottolo umido. «Di...cosa vuoi parlare?» Si guardò intorno, lasciando che Al lo guidasse lontano da quella via buia e frequentata da maghi poco raccomandabili — ma come diamine c'era arrivato?!
    Sentì l'urgenza di informare l'uomo che gli alcolici che vedevano erano davvero tosti, ma si trattenne: iniziava a ragionare più lucidamente e non voleva che Al lo prendesse per un ragazzino a cui piaceva alzare il gomito o, peggior ancora, non in grado di reggere l'alcol.
    Poteva affrontare quella conversazione senza mettersi in ridicolo o senza scoppiare a piangere; poteva farcela.
    shadows stretch
    behind the truth
    where stained glass
    offers broken clues
     
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    Se solo le mani non fossero state impegnate a mostrarlo in tutta la propria innocenza e vulnerabilità - ché non solo voleva sapesse che non avrebbe mai fatto nulla per fargli del male, ma che gli stava offrendo il ventre indifeso: non poteva fidarsi abbastanza di un figlio che aveva in qualche modo abbandonato e di certo mai cresciuto, e pur facendolo ciecamente Arturo doveva sapere che avrebbe potuto colpire senza problemi; sicuro come le tasse, più che la morte visti i precedenti, doveva avere almeno un motivo per farlo -, Al si sarebbe volentieri sbattuto i palmi contro la fronte. Chissà in base a quale assurdo colpo di genio aveva pensato che presentarsi in quella maniera potesse tranquillizzare il ragazzo. Non era nemmeno una pretesa assurda quella ad averlo spinto: nemmeno per un singolo istante aveva immaginato che il mago, vedendolo così, avrebbe potuto avere una buona ragione per mettere via la bacchetta, dicendosi con un filo di sollievo a svuotare i polmoni che “ah beh, è solo quel coglione di mio padre che mi pedina, tutto apposto”.
    Puro istinto. Nient'altro se non quel viscerale senso di fiducia, per quanto incondizionata ed immotivata, a lasciare visibile ogni singola crepa della propria armatura. Lo stesso scudo che aveva costruito, sia volente che nolente, tra colpi subiti e dati, fino ad arrivare ad essere quel che era allora - di certo, non un qualcuno che apre le braccia ad un presunto sconosciuto. Si era sempre fidato poco delle persone, sin da giovane, ma aveva lasciato aperti troppi spiragli - e chiuso troppe volte gli occhi, ascoltato troppi consigli sbagliati - nel corso degli anni: un qualcosa che un uomo nella sua posizione non poteva, né tantomeno voleva, permettersi.
    Arturo Hendrickson non era il suo River, e tantomeno quell'Aloysius Crane era il padre dell'ex serpeverde. Perfetti estranei, in fin dei conti. Eppure, c'era quella tenaglia alla bocca dello stomaco, quella bile a salire acidula e bollente su per l'esofago; quella botta dietro le spalle a fargli muovere passi decisi verso di lui - e verso Amalie, Oscar, Hyde, Jekyll -, come a dirgli che magari poteva essere anche solo una replica, un cartonato in carne ed ossa contro cui scagliare tutte le freccette necessarie a sentirsi meglio.
    Le avrebbe incassate tutte, e senza fare un fiato.
    Non lo avrebbe mai definito stupido da parte sua, per quanto potesse apparire tale.
    Da dementi era invece approcciare un ventenne in un vicolo buio con due parole altrettanto idiote.
    Ad ogni modo, non poteva né rimangiarsele né aggiustare il tiro: Turo oramai l'aveva riconosciuto (come quel coglione di suo non-padre) ed aveva abbassato la bacchetta.
    «Non ho bevuto così tanto. Giuro.» ah!, come gli sarebbe piaciuto credere non avesse ripreso la sua passione per l'alcol. Purtroppo, l'aveva visto trangugiare l'impossibile - motivo in più per assicurarsi non andasse a mettersi in qualche guaio, si era ripetuto in virtù di un futile autoconvincimento, come se il minore non fosse un mago ormai adulto e perfettamente in grado di sopravvivere in perfetta autonomia.
    Corrugò la fronte senza dire una parola, facendo scivolare le mani nelle tasche del giubbetto e limitando quel che avrebbe avuto da dire ad un sorriso stirato su un lato della bocca. Non era assolutamente nessuno per poter giudicare se avesse bevuto davvero così tanto oppure no, viste tutte le volte che si era svegliato sul pavimento della sua stanza alle tre del pomeriggio con la nausea e una bottiglia di whisky vuota stesa al suo fianco; a occhio e croce, doveva solo che ringraziare Morgan: o reggeva bene la botta, o aveva bevuto meno di quanto egli stesso immaginasse.
    Il sorriso dell'uomo non riuscì a trattenersi dal distendersi nel momento in cui Arturo annuì. Percepì la tensione sciogliersi, scivolare via dai muscoli di collo e spalle in un brivido lungo la spina dorsale.
    L'isteria data dalla presa di coscienza che non pensava sarebbe arrivato a quel punto e per cui non sapeva realmente di cosa voleva parlare, come gli era stato appena domandato, l'avrebbe lasciata ad un altro momento. «Di nostro signore Gesù Cristo.» sbuffò una risata, lasciando che il proprio potere illuminasse il breve tratto di strada che avrebbero dovuto percorrere. Rimase in silenzio lungo tutto il tragitto: non gli sembrava nelle condizioni adatte ad ascoltare e camminare contemporaneamente, e lungi da lui metterlo in difficoltà a quell'ora; si premurava, soltanto, di dargli uno sguardo ogni due passi, temendo sinceramente di perderselo per la via.
    «Di qua.» esclamò, e spingendo una vecchia ed anonima porta di legno lo invitò a precederlo sulla fiducia - ché tanto, le poche lettere rimaste sull'insegna non gli avrebbero permesso di capire in che posto lo stava portando per parlare. Al stesso aveva varcato la soglia senza pensarci troppo, dal momento che se lo avesse fatto si sarebbe sentito ancora più in imbarazzo nel portare suo figlio in un night club. A sua discolpa, era anche l'unico luogo che conoscesse in quella zona, di cui si fidasse e che fosse aperto fino al mattino seguente.
    Salutò con un cenno della mano il barista, Jimmy, e gli indicò un piccolo tavolo rotondo abbastanza distante dal cuore pulsante della serata.
    «Tutto bene?» domandò, prendendo posto ed aspettando il maestro dei suoi figli facesse lo stesso. Poteva davvero non aver bevuto così tanto da andare in coma etilico, ma aveva una strana cera.
    «Ehi, bellezza...» non fece in tempo ad aprire bocca per iniziare a parlare, le dita a cercare sotto il maglione il piccolo ciondolo che aveva visto anche al collo di Turo, che si ritrovò ad alzare gli occhi verso il giovane che li aveva già approcciati, pronto a rispondere d'istinto che fosse impegnato - cioè... almeno spiritualmente... poi la realtà dei fatti non la sapeva nemmeno lui, ma questo sarebbe stato materia d'esame per una chiacchierata con il suo amato fratello psicologo. Non aveva fatto i conti con il fatto che fosse lì per la prima volta con qualcuno, anziché da solo: osservò il biondo mezzo nudo prendere posto a sedere sulle gambe di Arturo, e non era certo di come sentirsi al riguardo. Perciò, reagì nell'unico modo apparentemente lecito: piegò gli angoli della bocca verso il basso, arcuò entrambe le sopracciglia e, guardando suo figlio negli occhi chiari, annuì un paio di volte. Erano appena entrati e già aveva fatto colpo, non poteva che essere fiero.
    «Cosa vi porto?»
    Back on track. Si schiarì la voce «A me nulla. Per lui, chiedi a Jimmy un Brian.» strizzò l'occhio a Turo, sillabandogli un “fidati” labiale.
    Attese fino a quando il tipo decise di smetterla di strusciarsi contro il figlio - o di strusciarsi a vicenda: non voleva sapere così tanto -, dunque estrasse la collana e la posizionò sul tavolo tra loro due, il totem battuto nel ferro rivolto verso il soffitto.
    «Non ti vedo troppo nelle condizioni di sorbirti convenevoli o giri di parole.» iniziò, giocherellando con il ciondolo. «Quindi - oh, velocissimi!» sorrise al tipo di poco prima, mentre questo lasciava uno shottino sul piano. «Ha detto Jimmy che ha iniziato a prepararlo quando siete entrati.» uomo di poca fiducia.
    Attese - di nuovo - la fine del rituale di accoppiamento con un sorriso cordiale sulle labbra. «Bevilo tutto d'un sorso, fa miracoli!» e solo quando l'ebbe ingurgitato, aggiunse la postilla a piè di pagina: «È un mix di caffè, acciughe in salamoia e limone. Fa schifo ma ti passa tutto!» oh, a lui l'aveva tirato su da situazioni peggiori di quella.
    «Dicevo...» umettò le labbra, abbassando lo sguardo nel vano tentativo di trovare parole in grado di districare la matassa che aveva davanti a sé. Non ce n'erano.
    «Ho visto che hai la stessa collana.» schioccò la lingua sul palato, anche solo per evitare di mordersela. Era a tanto così dal dirgli sapesse tutto, pensando che lo avrebbe in qualche modo aiutato. «Sai cos'è, vero?» ma poi, aveva capito quanto fosse egoista da parte sua - e che avrebbe aiutato soltanto se stesso, che Turo voleva avere i suoi tempi, che non era giusto privarlo di quella scelta. Se avesse voluto, gliene avrebbe parlato lui. «È un cimelio... molto importante. Magico. Non l'ho scoperto se non poco tempo fa, ma ce l'ho da sempre.» ed era anche unico del suo genere, dal momento che era un regalo forgiato appositamente per lui. «Hai mai provato ad aprirlo?»
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    Il lato positivo di essere elegantemente sbronzo era che, in quel modo, Turo si ritrovasse molto meno in balia del fiume tragicomico di pensieri che era solito tormentarlo nei momenti di lucidità. In quella via buia, invece, schiacciato in maniera non così disastrosa, dagli alcolici pesanti del Testa di Porco (o dalla troppa leggerezza dell’acidocineta al bancone, ma Turo non poteva saperlo) si sentiva abbastanza leggero da permettersi addirittura di rilassare le spalle nel prendere nota della figura dell’uomo; c’era una parte di lui che si fidava di Al, ed era la parte che in quel momento stava prendendo il controllo della situazione, facendogli abbassare la bacchetta alzata in preventiva difesa.
    Era la parte che gli ricordava quotidianamente, ogni sacrosanta mattina, che quello fosse suo padre, per quanto assurda l’idea potesse essere. Non l’uomo che l’aveva cresciuto, e che per diciotto anni Turo aveva chiamato papà — e che, di fatto, si era rivelato uno sconosciuto tanto quanto lo special che ora gli stava di fronte. Aloysius. Turo non era bravo a fidarsi a pelle delle persone, e lo era ancora meno ad aprirsi per lasciarsi conoscere e conoscere gli altri a sua volta; ma con Al voleva farlo.
    Sì, ok, lo diceva da mesi — ma era vero. Gli era sempre mancato, però, il coraggio di prendere un respiro e andare a bussare alla porta dell’uomo; o anche solo chiedergli di fermarsi dopo l’uscita di scuola per poter parlare.
    Il fatto di essere sbronzo in mezzo a Dark Street, e ritrovarsi proprio Al di fronte, magari era un segno.
    Nello specifico: che fosse arrivato finalmente il momento di essere onesto con lui e di affrontare un argomento tanto delicato, fino a quel momento intavolato dall’ex serpeverde solo con Maeve, e mai in maniera tanto diretta. Ci giravano intorno, i due, senza mai essere troppo specifici e senza mai andare davvero al nocciolo della questione — ma Turo coglieva gli hints a differenza di pandi. Immaginava che anche Al potesse sapere qualcosa, ma cosa era difficile da dire: l’idea che l’uomo invece non sapesse nulla, e che Turo potesse rivelarsi una delusione ai suoi occhi, l’aveva bloccato tutte le dannatissime volte.
    Non quella sera, però.
    Forse, dopotutto, una cosa buona Hold nella vita l’aveva fatta.
    (Ed era stata del tutto involontaria, questo la diceva lunga sulla special.)
    Seguì Al lungo la via, senza indugiare troppo e senza rimanere indietro: lontano dalla luce emanata dallo special, Turo non vedeva un tubo. E non era ancora abbastanza lontano dalla sbronza per potersi affidare solo ed esclusivamente ai suoi sensi poco fini.
    Alzò lo sguardo verso la porta indicata da Al, precedendolo all’interno perché non aveva avuto possibilità di decidere; era quasi certo che l’altro non volesse rapirlo o ucciderlo ma chi poteva dirlo. Chissà se quello era il momento in cui il suo allarmismo entrava in scena e lo mandava in para, facendogli pensare cose assurde, tipo ad esempio che quello non fosse il Crane ma qualcuno che aveva preso il suo aspetto col fine di metterlo in pericolo. Che poi: perché mai avrebbero dovuto, ma eh! Vivevano in un mondo difficile, dove le sparizioni oramai erano così all’ordine del giorno da non fare più notizia.
    Invece, nessuna ipotesi fatalista ebbe la meglio, al contrario! Le spalle di Turo rimasero rilassate e la testa (felicemente) sgombra dai brutti pensieri: se fosse stato più lucido, forse, si sarebbe preoccupato per non essersi preoccupato abbastanza.
    (O affatto.)
    In effetti, avrebbe dovuto.
    Entrando nel locale, venne subito colpito dalle luci — non perché fossero accese o particolarmente forti dopo il buio di Dark Strett, al contrario. Ad allarmare Turo furono i toni soffusi dell’ambiente in cui erano appena inciampati. Magari Al aveva sbagliato porta? Sembravano tutti uguali nel loro pessimo stato, gli edifici di quella via, non lo avrebbe di certo biasimato se fosse stato quello il caso.
    Ci credeva in maniera genuina, come l’anima innocente che era e sempre sarebbe stato, quindi immaginate la sua confusione quando vide Al scambiare un cenno di saluto con il barista, come se fossero amici.
    Peggio: come se Al fosse un cliente abituale.
    Era il genere di cose che Arturo davvero non voleva sapere su suo padre, quindi rimase stoico nel suo silenzio, gli occhi fissi sui propri piedi e il rossore sulle gote mascherato un po’ dalle luci basse.
    «Tutto bene?» Aveva seguito Al fino ad un tavolo, in silenzio e assorto in pensieri random che ogni tanto facevano capolino dietro la fumosa coltre di alcol, perciò non aveva davvero registrato possibili parole dette dall’uomo. A quella domanda si ritrovò a rispondere con uno sguardo spaesato e un «mh mh» poco convincente. Era a disagio per almeno dieci motivi diversi, ma voleva fingersi un essere umano semi funzionante in presenza del Crane, così prese posto sulla sedia libera e tentò di regalare un sorriso all’uomo. «Avete degli alcolici molto forti, al pub.» Lo diceva la testa che pulsava e rendeva insopportabili anche le note basse della canzone che riempiva l’aria tra loro. Giurava, comunque, di non averne bevuti così tanti! Non un argomento che avrebbe voluto continuare ad affrontare con Al, non in quel momento, dove non poteva appigliarsi a nessuna falsa sobrietà per perorare la sua causa; sperava solo di non essere considerato un ubriacone perché non lo era. Non aveva problemi con l’alcol! Davvero.
    «L’inaug-»
    Fece per intavolare una chiacchierata (in qualche modo dovevano pur passare il tempo, no? e non lo avrebbero fatto parlando del vizio di Turo o del perché Al conoscesse così bene il barista, I pretend I do not see) ma venne interrotto.
    In maniera del tutto inaspettata.
    Così inaspettata che l’Hendrickson potè a malapena aprire le braccia e lasciarle cadere lungo i propri fianchi, accettando suo malgrado quell’improvvisa violazione della propria privacy, quella mancanza di rispetto di boundaries che Turo chiaramente non aveva chiesto. Il viso rosso come un peperone, sguardo allarmato in direzione di Al e una tacita richiesta di aiuto dipinta negli occhi chiarissimi: che stava succedendo, forse c’era un malinteso.
    «A me nulla. Per lui, chiedi a Jimmy un Brian.» espressione che assunse sfumature ancora più comiche a quella richiesta: dubitava fortemente che gli servisse anche un Brian, era già abbastanza impegnato così al momento! Oddio, Aloysius Crane l’aveva portato lì per.. Oddio, aveva l’aria così disperata da fare pena anche all’uomo? Stava forse cercando di incastrarlo —
    Oddio.
    Stava spiraling.
    Il “fidati” mimato dal maggiore fece tutto fuorché calmare Turo, che non tornò di un colorito normale nemmeno quando il peso sconosciuto lasciò (finalmente!!) le sue gambe: ormai il danno era fatto e la sua reputazione compromessa per sempre.
    «I-io... Uhhh...—» stava boccheggiando, in cerca di aria e di parole con cui giustificarsi per qualcosa che non aveva nemmeno ancora capito. Smise di annaspare solo quando Al posizionò al centro del tavolo un ciondolo che Turo conosceva molto bene, e che andò istintivamente a cercare sotto la maglia. Era ancora lì.
    «Come-»
    Vennero però interrotti nuovamente.
    Il tempismo di quel posto era maledettamente perfetto.
    «Bevilo tutto d'un sorso, fa miracoli!» ah, dunque quello era un Brian. Okay. Studiò il cicchetto con aria perplessa. «Tu dici, eh...» lui ne dubitava, e soprattutto non vedeva come un altro shottino potesse andare in suo aiuto ma hey! Al era l’adulto, e Turo immaginava fosse anche l’esperto — e come già detto, Arturo voleva imparare a fidarsi dell’uomo.
    Perciò chiuse gli occhi, tappò il naso e mandò giù.
    Nulla poteva prepararlo a quello.
    «Mi sento male.» Portò l’incavo del gomito alla bocca, per fermare il conato di vomito che sentiva salire. «È un mix di caffè, acciughe in salamoia e limone. Fa schifo ma ti passa tutto!» Appunto.
    «Tremendo.» Come se l’espressione schifata non la dicesse già lunga. Sperava almeno ne valesse davvero la pena.
    «Dicevo... Ho visto che hai la stessa collana.» E tanto bastò a farlo tornare lucido — o forse Brian faceva davvero miracoli. Fatto sta che lo sguardo di Turo si fece d’un tratto più lucido, più vigile, nel posarsi di nuovo sul ciondolo indicato da Aloysius. «Sai cos'è, vero?» Sì?? No?? Non davvero?? Si schiarì la voce, cercando una risposta che non aveva ancora trovato in più di un anno dalla famosa rivelazione.
    Non importava, comunque: non ebbe il tempo di rispondere, perché il Crane continuò.
    «È un cimelio... molto importante. Magico. Non l'ho scoperto se non poco tempo fa, ma ce l'ho da sempre. Hai mai provato ad aprirlo?»
    Aprirlo?!
    Un guizzo di curiosità e al contempo confusione animò gli occhi azzurri, che tornarono a studiare il ciondolo dopo aver cercato risposte sul viso di Al fino a quel momento.
    No che non aveva provato ad aprirlo... Non ci aveva nemmeno pensato! Non gli dava l’impressione di essere un ciondolo che potesse nascondere qualcosa al suo interno. Sembrava solo... Solo un ciondolo. Fine. Un cimelio, come l’aveva definito Al, ma niente di più.
    Era già speciale così.
    Si strinse nelle spalle, sentendo fosse arrivato il suo momento di parlare.
    (Oh no, aiuto.)
    «No... In realtà no.» Si morse il labbro inferiore, pensieroso. «Dico... No, non ho mai provato ad aprirlo. E no, non so cos’è. Non- non davvero, ecco.» Indugiò un attimo, torcendo le proprie dita in un gesto nervoso, ma poi le fece scivolare sotto il colletto della maglia e tirò fuori il ciondolo identico a quello messo in mostra da Al.
    Non lo posò sul tavolo, ma lo tenne a mezz’aria tra loro, osservandolo. «Io ce l’ho da... relativamente poco.» Anche se sembrava essere passata una vita e mezza da quando aveva affrontato gli Hendrickson e aveva ricevuto in cambio tutta la verità. «A- a quanto pare, apparteneva—» fece una pausa, alzando gli occhi fino ad incontrare quelli di Al. «A mio padre.» Stava ancora cercando di capire se quel Brian avesse fatto meglio, o peggio, per la sua situazione. «Ne sono entrato in possesso quando.. Un annetto fa. Quando i miei genitori hanno -» ammesso, confessato, «raccontato della mia adozione. Di cui non sapevo nulla, per inciso.» Forse ad Al non interessava, ma era sempre un tasto dolente quello per Turo e tendeva a parlarne o troppo, o troppo poco. Non c’erano vie di mezzo. «Quando mi hanno trovato, avevo pochi giorni e niente con me, se non questa collana.» La strinse nel pugno, incrociando poi le braccia sul tavolino. «Non avevo idea si potesse aprire.»
    Avrebbe voluto dire altro, cercare di spiegargli chi fosse lui per Al — ma forse non c’era bisogno. Se quel ciondolo dalle fattezze peculiari era davvero speciale e unico nel suo genere, avevano già tutte le risposte di fronte a loro. Turo l’aveva detto: apparteneva a mio padre. Apparteneva ad Al.
    Non sapeva come altro mettere a parole quella verità, non era di certo famoso per la sua padronanza linguistica o per la sua parlantina, al contrario!
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    ALOYSIUS ANGUS CRANE
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    Trattenersi dal ridere fu un compito arduo, uno dei lavori più complicati che il Crane avesse mai dovuto portare a termine. C’erano stati dei momenti particolarmente intensi in cui pensava avrebbe ceduto, scoppiando in una fragorosa sghignazzata di fronte al povero Arturo o quantomeno nascondendosi sotto al tavolino per nascondergli tutta la propria ilarità e mostrare un minimo di solidarietà nei suoi confronti. Un sentimento puro e sincero, presente nel cuore dello special in quel preciso istante, ma – ma.
    C’era anche da dire che preferisse pensare a quanto poteva sbellicarsi alla vista del ragazzo sull’orlo di una crisi isterica, che a quanto si sentisse a disagio nel dover assistere a suo figlio che veniva molestato da uno spogliarellista davanti ai suoi occhi. Voleva solo morire, e piuttosto che d’imbarazzo avrebbe preferito una dipartita per eccesso di endorfine in circolo nel corpo.
    Riuscì comunque a resistere, inspirando molto profondamente e concentrandosi sul motivo per cui fossero lì – e idealizzando il quantitativo di volte in cui quella scena doveva essersi ripetuta, nel futuro da cui veniva l’Hendrickson: non era una persona nota per avere una particolare serietà, e gli dispiaceva veramente un sacco che ai propri figli fosse capitato uno come lui; forse, forse, con River e Flow avrebbe cercato di crescere, ma non poteva assicurarlo.
    «mi sento male» strinse le labbra in una smorfia pregna di empatia e comprensione, osservandolo soffrire senza muovere un dito; non sottolineò che fosse per il suo bene, nonostante la totale sincerità con cui sarebbero uscite quelle parole. Gli fosse stato vicino, anziché dall’altra parte del tavolino, gli avrebbe stretto la spalla fra le dita, sussurrandogli che andava tutto bene e che capiva perfettamente come si sentisse. Quello che poté fare, osservando la faccia disgustata dell’altro, fu sporgersi un po’ di più. «se hai bisogno di vomitare, dimmelo.» non gli disse che avrebbe potuto rigettare tutto quanto sul pavimento del locale, che di sicuro aveva visto cose ben peggiori della bile di un diciannovenne, ma se ne avesse sentito la necessità lo avrebbe accompagnato al bagno più vicino, o recuperato una tinella in cui gettare tutto quanto.
    Quando intavolò l’argomento e lo vide riprendersi quasi del tutto, provò contemporaneamente orgoglio e preoccupazione.
    Il primo, che gli strappò anche un mesto sorriso a piegare l’angolo delle labbra, perché un po’ rivide sé stesso nei lineamenti più seri e concentrati di Turo – un salto nel petto che non si era aspettato in quel momento tra tanti altri più consoni, ma che egoisticamente non poteva che renderlo… felice. Tutte quelle micro-espressioni di cui il minore nemmeno si accorgeva, i piccoli movimenti delle mani, gesti minimi ed impercettibili: era surreale e bellissimo al tempo stesso.
    La seconda, perché se davvero avesse ripreso da lui, ci sarebbe stata un’alta probabilità o che perdesse i sensi, o che ordinasse qualcos’altro da bere di lì a pochi minuti; sperava vivamente di sbagliarsi, sotto quel punto di vista. E sotto molti altri, a dire il vero – ma quella era un’altra storia, per un altro momento.
    «no... in realtà no. dico... no, non ho mai provato ad aprirlo. e no, non so cos’è. non- non davvero, ecco.» annuì, sfiorando con le dita il ciondolo. Naturalmente non aveva mai provato ad aprirlo – perché avrebbe dovuto? Nemmeno a lui era mai passato per l’anticamera del cervello di farlo prima di sapere che si potesse, né tantomeno lo aveva fatto dopo averlo scoperto.
    «io ce l’ho da... relativamente poco. a- a quanto pare, apparteneva— a mio padre.» morse le labbra, iridi smeraldo fisse in quelle celesti senza la mezza intenzione di distogliere lo sguardo. Una parte di lui gli stava urlando di dirgli che fosse lo stesso ciondolo, un paradosso che non avrebbe dovuto esistere – frammenti di tempo attorcigliati l’uno sopra all’altro, contorti ed impossibili; la farfalla che battendo le ali avrebbe causato un uragano nello spazio che li separava. L’altra, scalpitava dalla necessità di chiedergli se sapesse chi fosse quel padre, forzandolo ad una confessione per la quale non sapeva se fosse pronto. Non diede udienza a nessuna delle due, fermo nella convinzione che quella fosse una sua scelta.
    Poteva rinnegarlo, se lo voleva davvero; ignorare tutta quella nottata il giorno seguente.
    «ne sono entrato in possesso quando.. un annetto fa. quando i miei genitori hanno - raccontato della mia adozione. di cui non sapevo nulla, per inciso.» accennò un sorriso lieve, lo sbuffo di una risata niente affatto divertita dalle narici. «capisco,» sincero. Forse non poteva capire del tutto, non era lui quello che aveva giocato con la quarta dimensione, ma almeno in parte sì. «anche io sono stato adottato, e l’ho scoperto solo qualche anno fa.» una confessione alla quale non si lasciava andare troppo facilmente, per non dire che tendesse ad ignorare quasi sempre la questione. Sin aveva letteralmente sacrificato la propria anima per la sua vita, Dick ancora faticava a comprenderlo; amava entrambi, ciascuno a modo suo. Ma non erano Michael, non erano Yvonne, i genitori che aveva visto morire davanti ai suoi occhi per una guerra alla quale non sapeva di appartenere; non erano Eugene, né Delilah, quei cugini con i quali era cresciuto per tutta quella che aveva creduto essere la sua vera vita.
    «quando mi hanno trovato, avevo pochi giorni e niente con me, se non questa collana. non avevo idea si potesse aprire.»
    Diglielo, Al. Cazzo, diglielo – non hai niente da perdere.
    Chinò il capo, sospirando.
    No.
    Si passò una mano tra i capelli. «nemmeno io, l’ho scoperto per puro caso.» non c’era bisogno che Turo sapesse che era andato in un negozio di manufatti magici per motivi legati alla ribellione, e che fosse stato il commesso a notare la collana raccontandogli l’estrema rarità di oggetti come quelli: erano racconti futili che potevano tranquillamente bypassare. «non ricordo nemmeno da quando ce l’ho,» il che, era vero in tutti i sensi: non ne aveva alcuna memoria, e forse proprio per l’oblivion che aveva subito in tenera età. «ma pare sia un cimelio che si tramanda di padre in figlio da generazioni.» non elaborò oltre, ma l’occhiata che rivolse al serpeverde valeva più di mille parole. «non volevo disturbarti, giuro. non –» inspirò profondamente, rilasciando un sospiro pregno di discorsi che non avrebbe potuto approfondire; non spettava a lui. «tendo a rispettare quanto più possibile gli spazi altrui,» i tempi, soprattutto: nessuno aveva mai fatto lo stesso con lui. «ma quando l’ho vista al tuo collo non ho potuto ignorarla. spero tu possa capirlo, e perdonarmi.» umettò le labbra, sorridendogli.
    «non ho mai provato ad aprirla, ma so che è possibile. come so che è un… raccoglitore. di pensieri, di informazioni; di ricordi
    Le spalle, ora scariche di un piccolo macigno, si rilassarono contro lo schienale della sedia. «mi sembrava giusto darti questa informazione: al posto tuo, io l’avrei voluto tanti anni fa.» come era certo che, allora, volesse aprirla e scoprire cosa Edward Quinn gli avesse lasciato.
    Se, gli avesse lasciato qualcosa.
    «e casomai volessi aprirla, mi farebbe piacere farti compagnia.»
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    Se non fosse stato un momento così importante – e delicato – Turo avrebbe persino riso (dopo essere morto dall’imbarazzo, e risorto) per la comicità del tutto.
    Era in un… bordello? Quella era l’unica parola che la sua mente suggeriva, ma sentiva non fosse quella corretta; era più l’imitazione scrausa del Lilum, e l’idea di trovarsi in un luogo del genere con suo padre l’avrebbe fatto sprofondare nel terreno per la vergogna — se solo non fosse stato fin troppo preoccupato a combattere una sbronza epocale, e poi la nausea per il rimedio a suddetta sbronza.
    «se hai bisogno di vomitare, dimmelo.»
    Sì, poco ma sicuro, ma non necessariamente per la cosa schifosa che aveva appena trangugiato; c’era un po’ tutto a mescolarsi e a farlo stare male, se proprio doveva essere sincero.
    All’uomo, comunque, rivolse un sorriso incerto e un «estoy bien, gracias» che rischiava di andare perso nella confusione del locale, per quanto appena un sussurro a fior di labbra.
    Meglio parlare di altro, e fingere di non pensare assolutamente al nauseabondo intruglio che gli era stato rifilato, o a come avesse perso del tutto il controllo quella sera, finendo in condizioni pietose, in un modo di cui, per giunta, non aveva memoria; non voleva affatto rimuginarci, il solo pensiero bastava a fargli chiudere lo stomaco e girare la testa. Se ne vergognava, certo che sì, e non capiva come avesse potuto lasciare che succedesse.
    Fu grato, quindi, quando l’uomo intavolò la conversazione per la quale, a quanto pareva, l’aveva seguito nel vicolo scuro di Dark Street e trascinato fin lì. E Turo, improvvisamente più sobrio di quanto avrebbe dovuto, si lasciò andare al fiume di parole che non sapeva di aver trattenuto per tutto quel tempo.
    «anche io sono stato adottato, e l’ho scoperto solo qualche anno fa.»
    Quello gli fece dischiudere le labbra in un «oh» — com'era strano il destino, certe volte; quante possibilità c’erano che la sua storia e quella di Al fossero iniziate nello stesso modo?
    Non commentò, non sapeva cosa dire (se non un ti sei sentito tradito anche tu, per tutte le bugie raccontate? ti sei sentito umiliato, e fregato, e deluso?), quindi preferì parlare dell’amuleto, e ammettere che non sapesse potesse aprirsi. «nemmeno io, l’ho scoperto per puro caso.»
    Annuì, e si morse l’interno della guancia: avrebbe voluto chiedere se lui l'avesse aperto, ma rimase in silenzio; se fosse stato quello il caso, il Crane l’avrebbe detto, no?
    E invece Al disse: «ma pare sia un cimelio che si tramanda di padre in figlio da generazioni.»
    Quella volta, Turo sussultò senza riuscire a fermarsi.
    Lo sguardo che aveva abbassato poco prima, tornó a cercare quello dell'uomo, colpevole; eccolo lì, il momento giusto, sarebbe bastato aprire la bocca, dirgli la verità, e mettere tutto nero su bianco una volta per tutte; Turo lo sapeva che non ne avrebbe avuto uno ugualmente perfetto.
    Ma non ci riuscì.
    Aprì e chiuse le labbra un paio di volte, prima di rinunciare definitivamente.
    Era un codardo.
    Non aveva altre scusanti.
    Abbassò gli occhi sulle proprie mani, che stringevano ancora il ciondolo, e piegò la testa leggermente in avanti — sconfitto. Ancora prima di perdere davvero qualcosa. Si rigirò l’amuleto fra le dita, sovrappensiero: c'era una domanda (beh, una di molte a dir la verità) che lo turbava — se veniva tramandato di padre in figlio, perché Al aveva scelto di donarlo a lui, e perché non a Óscar? Se erano così rari, quegli amuleti magici, se solo uno tra River e Flow l'aveva ereditato, perché proprio lui?
    Turo non si sentiva particolarmente degno di ricevere in eredità cimeli di famiglia, e si domandava quanto diversi potessero essere River e Turo per poter ricevere un dono tanto prezioso.
    Fu la voce di Al a destarlo, nuovamente, dai suoi pensieri.
    «ma quando l’ho vista al tuo collo non ho potuto ignorarla. spero tu possa capirlo, e perdonarmi.»
    Per un attimo non disse nulla, limitandosi ad osservare l’uomo con sguardo illegibile; era felice che lo avesse fatto, nonostante il disagio che ancora sentiva per quella situazione, ma c'era da dire che , nel disagio, Arturo ci vivesse quindi non era una novità. Era contento, sì, quello non poteva negarlo; ma era anche confuso su così tanti livelli che non sapeva da dove iniziare per farlo capire ad Aloysius.
    Scosse piano la testa, sorridendogli.
    «Non è un problema,» non lo era affatto, non lo sarebbe mai stato; e dall’infarto che gli aveva procurato, seguendolo come un malintenzionato, Turo s’era già ripreso, «sono... Sono contento tu l'abbia fatto.» Riempì i polmoni d’aria, respirando l’odore sgradevole di tabacco e sudore e fumi dell’alcol che permeavano nell’aria; era forse giunto il momento in cui confessava tutto? Poteva davvero farcela?
    Fece per aprire la bocca, ma le parole di Al lo bloccarono.
    «non ho mai provato ad aprirla, ma so che è possibile. come so che è un… raccoglitore. di pensieri, di informazioni; di ricordi.»
    Ricordi? Cosa… cosa?
    Batte lentamente le palpebre, due o tre o cento volte, osservando Al ma con la mente così lontana da non riuscire a vederlo davvero.
    Ricordi.... I suoi? Quelli di Al? Quelli di River? Non... Non sapeva come reagire. Non sapeva se fosse pronto a quella verità. Forse non voleva davvero aprirlo, dopotutto.
    Cercò le parole per ringraziare Alosyius per aver condiviso con lui quell'informazione ma non le trovò: improvvisamente, era a corto di qualsiasi cosa da dire, e con paradossalmente troppi pensieri nella testa.
    «Io—» non so se voglio aprirlo, stava per dire. In realtà voleva e non voleva allo stesso tempo.
    Era tutto difficile.
    «Cosa—,» pensi che ci sia dentro? «Tu–,» cercò nuovamente lo sguardo di Al, infine, ormai completamente spaesato e confuso (dalla vita). «Devo dirti una cosa.» Non la migliore delle premesse, se ne rendeva conto, ma non aveva più controllo sui propri pensieri, o sulla propria bocca. «Questo», e dischiuse il pugno per mostrare ad Al la copia esatta dell’amuleto che indossava anche lui, «non è un amuleto come il tuo,» strinse di nuovo le dita intorno al ciondolo, per fermarne il tremolio convulso, «questo è il tuo. È impossibile, lo so, non— non dovrebbe esistere lui stesso non avrebbe dovuto esistere; era un fottuto paradosso temporale, «ma è così. Forse non dovrei dirtelo, magari sto incasinando tutto,» si passò, febbrile, una mano sui capelli corti, sospirando forte: era così che, nei fumetti, fottevano del tutto lo spazio-tempo, ma ora che aveva iniziato non poteva fermarsi.
    Non pensò neppure per un attimo che Al potesse trovare ridicola la sua (semi) confessione, o che al contrario ne fosse già a conoscenza; era un fiume in piena che stava ormai dilagando ovunque. «Credo di averlo portato con me quando—» no, era troppo complicato spiegare la storia del viaggio nel tempo, specialmente quando lui stesso non l’aveva ancora ben chiara, quindi si interruppe, sospirò di nuovo, e ci riprovò. «L’ho ereditato da te», e stavolta non c’era incertezza o tremore nella voce dello spagnolo, né dubbio nello sguardo chiaro che andò a cercare quello verde dello special, «so che è impossibile, ma —» le ultime parole gli morirono in gola, tradendolo all’ultimo istante.
    So che è impossibile, ma sono tuo figlio.
    Perché era così difficile dirlo ad alta voce?
    shadows stretch
    behind the truth
    where stained glass
    offers broken clues
     
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5 replies since 18/10/2022, 16:28   208 views
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