feelings are fatal

@avis | ft. sinclair

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    How many times must I keep it inside?


    Famiglia.
    Per tutta la vita aveva mai desiderato nient'altro che una famiglia. Durante gli anni in orfanotrofio non aveva fatto che pregare, prima di andare a dormire e ad ogni maledetta candelina di compleanno, affinché qualcuno l'adottasse.
    Poi erano arrivati i Rivera, che l'avevano tirata fuori dall'inferno e trattata come fosse sempre stata figlia loro, e per un po' quel desiderio si era acquietato. Per diversi anni aveva persino osato credere di non poter essere più felice di così. Aveva finalmente dei genitori, a Hogwarts si era fatta degli amici, era una maga brillante e una figlia modello. I suoi professori non facevano che ripeterle quanto fosse promettente, e quale futuro prospero l'attendesse. I suoi genitori smorzavano la pressione di tanta aspettativa dicendole che, qualunque cosa avesse scelto di fare, loro le avrebbero voluto bene comunque. Era tutto talmente bello, talmente perfetto, da rendere la tragedia in arrivo quasi scontata.
    Avrebbe dovuto aspettarselo Nicole, così sveglia e previdente, che quella felicità semplicemente non potesse durare in eterno, eppure non l'aveva fatto. Si era crogiolata in quella tanta agognata gioia al punto da dimenticarsi che di cose brutte, nel suo mondo, ce ne fossero più di quante riuscisse a immaginarne. Non l'aveva vista arrivare, ma era arrivata lo stesso. La tragedia. E sette anni nei laboratori avevano spazzato via tutto ciò che di buono la vita aveva ammesso di concederle negli ultimi anni.
    Aveva perso la sua magia, aveva acquisito un potere che somigliava più a una maledizione, aveva temuto ogni singolo giorno per la sua vita e, al contempo, aveva sperato affinché finisse in fretta. Quand'erano venuti a liberarla, aveva avuto l'impressione di essere semplicemente finita in una prigione più grande: il mondo intero, pronto a torturarla con le sua troppa rabbia, troppa tristezza, troppa felicità. Sentiva le emozioni degli altri in maniera talmente intensa da sovrastare tutto il resto. Eppure, malgrado sopportasse a malapena la vicinanza altrui, aveva cercato i suoi genitori lo stesso. Li aveva cercati perché avrebbe preferito morire con la testa poggiata sul grembo di sua madre che da sola, divorata da quella stessa solitudine che aveva contraddistinto gli ultimi duemilacinquecento giorni della sua vita. Troppi, per una persona sola.
    Ma non aveva trovato che una casa vuota ad attenderla.
    Morti
    morti
    morti.

    Era nata senza una famiglia, poi ne aveva finalmente avuta una, poi l'aveva persa ancora. Erano passati anni prima che riuscisse a superarla, e forse non l'avrebbe mai superata del tutto. Certo, aveva imparato a controllare il suo potere, si era trovata un lavoro e una causa in cui credere. Qualcosa di lei, però, era rimasta in quei laboratori. Una perdita dolorosa e visibile, che chiunque avrebbe potuto scorgere nei suoi occhi spenti, nel suo sorriso trattenuto, in quel disturbo ossessivo che la costringeva a pulire il suo ufficio cento volte in un giorno. Non sarebbe mai più stata la Nicole Rivera di un tempo, ma era pur sempre Nicole. Non avrebbe mai accettato di arrendersi senza combattere. Per questo aveva combattuto, ancora e ancora. Per sé stessa, per la Resistenza, per tutte le persone che ogni giorno si rivolgevano a lei per ricevere un po' di sollievo.
    Poi era arrivato Stiles, e la sua vita era cambiata di nuovo.
    Era stata lei a scoprire il loro legame di sangue ma, onestamente, non aveva mai osato sperare alcunché. Aveva smesso di desiderare una famiglia, Stiles però lo era diventato comunque. L'unico con cui riuscisse finalmente a ritrovare un po' di ciò che era stata un tempo, l'unico con cui sentisse di poter essere realmente sé stessa. Erano stupidi, ma erano fratelli.
    Non aveva soltanto trovato una famiglia, aveva riacquisito la voglia di vivere che aveva perso. Per questo era riuscita a rimettersi in contatto con quei vecchi amici di Hogwarts che non aveva più avuto il coraggio di chiamare, per questo aveva cominciato ad accogliere in casa sua orfanelli come Dustin, come mgk. Per questo non aveva opposto troppa resistenza nell'aprire il suo cuore a Sinclair.
    La sua vita, per lo meno, era dotata di una crudele coerenza. Ogni qual volta sentiva di essere finalmente felice, ogni cosa finiva per crollarle inesorabilmente addosso. Stavolta, però, era pronta. Sapeva che sarebbe potuta arrivare da qualunque parte: da quell'interrogatorio al Ministero, dal suo coinvolgimento negli scontri che avevano portato alla fine di Vasilov, dal suo irregolare lavoro come psicomaga in quanto special. Non da Sin, però. Da chiunque, ma non da lui.
    Si era ritrovata a stringere fra le mani quei documenti, inutili pezzi di carta che non significavano niente, ma che significavano tutto. In alto a destra la fotografia di un Sinclair più giovane, ma sempre lo stesso. Affianco il codice identificativo di un laboratorio. Status: dottore.
    Aveva lasciato scivolare il foglio sul pavimento della sua stanza al Quartier Generale. Aveva raccolto le sue cose, e se n'era andata.

    Due mesi dopo era in piedi davanti al gabinetto di un bar messicano, una mano a tenere la porta dietro di sé e l'altra a stringere un test di gravidanza. «Vuoi aprire questa porta?? Devo pisciare» aveva ignorato l'ennesimo martellare impaziente ed era rimasta a fissare le due linee rosse al centro dell'asticella bianca. «Ehi??» «Gesù cristo» aveva aperto la porta sbattendola letteralmente in faccia al tipo, scivolando poi fuori dal bagno senza guardarsi indietro. Per quel che ne sapeva, quel maledetto test sarebbe potuto sgusciare via dalla spazzatura e perseguitarla per il resto dei suoi giorni, meglio affrettarsi ad andar via.
    Aveva lanciato un'occhiata al bancone e valutato di bere sino a dimenticare ogni cosa di quell'orribile serata, ma aveva presto realizzato di non potere ingerire alcolici. Non per i prossimi sette mesi almeno. Sempre che intendesse portare avanti la gravidanza, s'intende, ma Nicole non si sarebbe mai perdonata un aborto senza aver prima avvisato il padre del bambino della sua condizione. Sinclair. Il fatto che fosse fuggita in Messico proprio per non doverlo rivedere rendeva le cose certamente più difficili, ma non per questo meno doverose.
    Si era concessa due settimane per rimuginare. Infine, con tutta la dovuta rassegnazione, aveva preso il primo aereo - per niente certa di poter sopportare una gravidanza e una passaporta - ed era tornata a Londra.

    Sinclair era lì, ovviamente. Credere che avrebbe smesso di andare al parco a dar da mangiare ai piccioni la domenica mattina soltanto perché lei se n'era andata sarebbe stato davvero ingenuo. Si prese del tempo per osservarlo in silenzio. A guardarlo così, seduto sulla stessa panchina in cui l'aveva invitata a uscire la prima volta, le spalle curve e la coppola sulla testa, Nicole poteva quasi fingere che fra loro non fosse cambiato niente. Quasi. Le bastò fare un passo, perché ogni cosa le tornasse dolorosamente alla mente.
    Fece per chiamarlo, ma si accorse di non essere più in grado di pronunciare il suo nome. Perciò, senza dire niente, si sedette semplicemente al suo fianco. «Ciao» soffiò, costringendosi a spostare lo sguardo dalla punta delle proprie scarpe al volto di Sin. Rimase a fissare i suoi occhi per un breve istante - bugiardo - prima di arrendersi e metterlo del tutto a fuoco. «questa camicia è un disastro» commentò, incapace di trattenere un piccolo sorriso al ricordo di quella volta in cui aveva tentato di insegnargli a stirare.
    Solo Dio sapeva quanto avrebbe voluto mollargli un pugno.


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    Sebastian Quinn e Sinclair Hansen erano la stessa persona, ma allo stesso tempo non avrebbero potuto essere più distanti. Sebastian era un uomo disincantato e che aveva perso tutto, sua figlia, una moglie, la sua famiglia. Avrebbe fatto di tutto per avere indietro anche solo un frammento della vita che si era lasciato indietro, e quando gli si era presentata la possibilità di ritrovare sua figlia non aveva esitato nemmeno per un momento. Non gli importava delle conseguenze, del fatto che sarebbe stato marchiato come un estremista e che avrebbe perso una parte di sé nel processo. Quando Sebastian Quinn era morto, al suo posto era nato Sinclair Hansen, un uomo altrettanto solo e disperato di riconnettersi con la propria famiglia, ma più vicino all’obbiettivo di quanto Sebastian lo fosse mai stato. Per quanto suonasse stupido, Sinclair era animato da emozioni che non ruotavano attorno a rancore e una disperazione senza fondo. Sì, aveva fatto le sue scelte e ne aveva pagato le conseguenze, ma pensava di essersi messo alle spalle il suo passato. Si sbagliava.
    Era facile dimenticarsi che, prima o poi, la vita avrebbe trovato un modo per incularti.
    E chi meglio di Sinclair, che negli ultimi anni si era lasciato cullare dalla convinzione che niente potesse più rovinargli la fragile felicità che aveva costruito con le sue mani?
    Sapeva che prima o poi Nicole avrebbe scoperto del suo passato da dottore.
    Sapeva che era un discorso che avrebbero dovuto affrontare.
    Ma mai così, non da un fascicolo che la Rivera aveva trovato per pura coincidenza al Quartiere Generale.
    Sinclair non era lì quando era successo, l’aveva dovuto scoprire da Jaden.
    Le aveva chiesto cosa fosse successo, come l’avesse presa Nicole, dove potesse trovarla. Un panico irrazionale gli aveva compresso il petto, impedendogli di accettare aria nel suoi polmoni, il respiro a farsi più corto finché stava ansimando in un angolo. Aveva scosso la testa, ripetendosi che non stava accadendo, non a lui, non di nuovo. Prima Athena, poi Belladonna e adesso Nicole.
    L’aveva cercata al Quartiere Generale, era corso a casa sua per poterle spiegare, pregarle di dargli una possibilità ma era stato per niente: la Rivera se n’era già andata. Aveva preso le sue cose ed era scappata chissà dove, senza lasciare traccia di sé.

    Sinclair aveva stabilito una routine: svegliarsi presto, fare qualche esercizio per tenersi in forma, passare da Murphy per offrirsi di guardare i gemelli e poi andare al parco. Spesso si portava dietro anche i bambini, gli faceva piacere badare alle piccole pesti, un modo di compensare quello che lui non aveva mai avuto da giovane. Gli avevano tolto Victoria prima ancora che potesse stringerla tra le braccia per la prima volta. Erano le piccole cose a renderlo felice ultimamente, come il riuscire a trovare il suo cornetto preferito prima che finisse, riuscire a battere i suoi amici a bocce, fingere di non essere stato abbandonato per l’ennesima volta. Ma ci aveva fatto il callo, l’Hansen, non era il caso che facesse preoccupare nessuno per un qualcosa che era diventata naturale come il coricarsi per la notte. Sì, era anche diventato più melodrammatico del solito, ma era il suo modo di elaborare il tutto. Anche quel giorno aveva deciso di recarsi al parco, uno dei pochi luoghi che per lui era diventata una costante, dove si sentisse rilassato abbastanza da portare un libro e perdersi tra le sue pagine per ore. Aveva anche portato del pane secco da dare ai piccioni, creature che celavano un potenziale incredibile ma incomprese dal genere umano. Che in fondo Sinclair fosse un piccione? Non lo escludeva. Era troppo immerso nel suo libro per rendersi conto di essere osservato, quindi non fece caso alla figura a pochi metri da lui. Fu solo quando essa si avvicinò e si sedette a fianco a lui che registrò che c’era qualcosa di sbagliato. «Ciao» quasi sussultò, l’Hansen, ma riuscì a fermarsi prima che succedesse. Si voltò lentamente, non fidandosi del suo istinto, non riuscendo a credere che quella fosse la voce di Nicole. Non era possibile, cosa ci faceva lì? Sinclair non era mentalmente pronto a quell’incontro, mai avrebbe pensato che la Rivera sarebbe un giorno tornata. Tendevano a non farlo, fategli causa. «questa camicia è un disastro» davvero? Erano quelle le prime parole che gli avrebbe rivolto dopo mesi? Fosse stato un uomo più immaturo, l’Hansen lo avrebbe fatto notare anche alla Rivera. Ma riconosceva un ramo d’ulivo per quello che era, ed era più che disposto ad accettarlo. Lo special abbassò lo sguardo sulla propria camicia, spiegazzata e con una macchia di qualche di non meglio specificato sul petto, sicuramente qualcosa che proveniva dai gemelli «non ho avuto tempo di cambiarmi, ero da murphy» si strinse tra le spalle, troppo provato dalla vita per interessarsi di come appariva a Nicole. Non credeva nemmeno di essersi pettinato quella mattina. Voleva chiedere alla donna cosa l’avesse spinta a tornare, perché fosse lì seduta su quella che era la panchina del loro primo appuntamento, quando a malapena riusciva a guardarlo negli occhi. Era sulla punta della lingua, pronto ad uscire con più veleno di quanto meritasse la domanda, ma si costrinse a premere le labbra in una linea sottile dandosi tempo di riflettere. Non voleva far scappare Nicole ancora prima di chiederle di dargli la possibilità di spiegarsi, perché sì, nonostante tutto l’Hansen voleva provarle che era lo stesso uomo di sempre e non quello ritratto nei fascicoli ribelli. Faceva di lui un uomo patetico, disperato? Non sarebbe stata la prima volta, Sinclair era disposto a chinare il capo quando l’occasione lo imponeva. «come mai sei qui?» potevano iniziare da quello, decise. Una domanda che la Rivera poteva scegliere di interpretare come meglio credeva.

     
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    Quando se n'era andata, non si era data il tempo di pensare. Non aveva lasciato Londra con la promessa di non farvi mai più ritorno, non aveva sperato in un futuro diverso, non aveva preso le distanze da quella sé maledettamente ingenua in favore di una Nicole finalmente capace di difendersi dalle stronzate. No, era semplicemente scappata via. Senza un piano, senza una prospettiva, solo con il desiderio di allontanarsi quanto più possibile da ciò che le aveva fatto male. Volete fargliene una colpa? Era così stanca di combattere. Lo faceva da tutta una vita: per la ribellione, per la famiglia, per sé stessa. Voleva solo chiudere gli occhi e dormire. Una volta avrebbe aggiunto tra le braccia di Sin, ora si sarebbe fatta bastare persino una sedia scomoda purché potesse finalmente riposare.
    Invero, una piccola parte di sé, quella meno orgogliosa, meno ferita, avrebbe ancora cercato Sin, ma c'era troppo da digerire, troppo perché potesse semplicemente dimenticare.
    Perfino guardarlo era doloroso.
    «non ho avuto tempo di cambiarmi, ero da murphy» annuì soltanto, e per un attimo riuscì a visualizzare con estrema chiarezza quel Sinclair Hansen che andava a trovare sua figlia, un momento qualunque di una giornata qualunque, e faceva il padre in quel suo modo un po' boomer e un po' adorabile che Nicole aveva presto imparato ad amare.
    In quei giorni, si era chiesta più e più volte in che modo avrebbe accolto la notizia della sua gravidanza. Sin era un buon padre per i suoi figli, certo, ma ciò non implicava che fosse disposto ad accoglierne un altro. Se avesse colto il rifiuto nel suo volto, Nicole non sarebbe stata in grado di biasimarlo. Ciò non toglieva il fatto che l'avrebbe oltremodo ferita. Non era pronta a quella prospettiva, ma avrebbe dovuto accettarla comunque, in un modo o nell'altro.
    Sollevò nuovamente lo sguardo sul volto di Sin e per un attimo, solo per un brevissimo istante, si ritrovò a percepire le sue stesse emozioni. Non era sua intenzione usare i propri poteri per comprendere i sentimenti dell'Hansen, e ormai da tempo si era auto-imposta di non farlo mai senza consenso. A volte, però, succedeva e basta. Era difficile controllarsi quando di mezzo c'era il suo stesso coinvolgimento emotivo.
    Distolse immediatamente lo sguardo dall'idrocineta, impedendosi di scavare oltre tra le emozioni di Sin. Cos'era, rabbia? Disperazione? Sollievo? Forse tutte quelle cose insieme, ma non era suo diritto scoprirlo così.
    Quella era la parte dell'essere special che aveva sempre odiato di più: sentire troppo, a volte, era anche peggio che non sentire affatto.
    Aveva impiegato anni per imparare a padroneggiare i suoi poteri in maniera accettabile, eppure le sembrava di non essere mai forte abbastanza. Sbagliava sempre, in un modo o nell'altro, intrufolandosi nelle emozioni altrui o plasmandole in maniera involontaria. Avrebbe preferito cento volte che in quel maledetto Laboratorio le avessero tolto la magia e basta, piuttosto che lasciarle un potere che pareva più simile a una condanna.
    E Sinclair era stato uno di loro.
    «scusami» mormorò, pur senza specificare a cosa si riferisse. Con tutta probabilità, Sin non si era neanche accorto della sua intrusione e, in ogni caso, non era quella l'unica cosa per cui sentisse di doversi scusare.
    Si umettò le labbra prima di parlare, nascondendo nervosamente le mani sotto le cosce. «non sarei dovuta scappare» ammise, pur evitando accuratamente di guardarlo negli occhi «non è così che le persone mature affrontano le discussioni» il che era un po' paradossale da dire, visto che di maturo sentiva di non avere proprio un bel niente. Provarci e riuscirci erano due cose nettamente diverse. Fece per dire qualcos'altro ma, per quanto si sforzasse, le risultava difficile dire qualcosa che non portasse con sé tutta la propria rabbia per le bugie che lui le aveva propinato. «dio Sin, perché...» non riuscì a finire la domanda. Che senso aveva chiedergli perché glielo avesse tenuto nascosto, quand'era ovvia la ragione per cui l'avesse fatto? Gli aveva raccontato degli anni passati ai Laboratori. Gli aveva spiegato come le avessero rovinato la vita, gli aveva confidato le sue più intime paure a riguardo. Confessarle di essere stato un dottore sarebbe equivalso ad ammettere di essere stato uno dei suoi carnefici e, con tutta probabilità, perderla per sempre. Era chiaro perché avesse esitato a dirle la verità.
    Nicole, però, avrebbe preferito cento volte scoprirlo da lui, che non da uno stupidissimo fascicolo.
    Si ritrovò a sospirare, sollevando il viso verso il cielo per richiamare a sé tutta la calma che aveva promesso di mostrare.
    «ho così tante domande, e sinceramente non sono neanche sicura di voler sentire le risposte» spostò finalmente le iridi chiare sul suo viso, permettendosi di guardarlo. Avrebbe voluto soltanto poggiare la fronte sulla sua e fingere che gli ultimi mesi non fossero mai accaduti davvero, invece si ritrovò a sospirare ancora, alla ricerca delle parole giuste da dire.
    Non gliene venne in mente nessuna, perciò disse l'unica cosa sensata, la ragione che l'aveva realmente spinta a tornare: «sono incinta» tanto brutale quanto onesto. Rimase in silenzio per qualche istante prima di continuare «è tuo, ovviamente» si sentì in dovere di specificare. Inutile dire che non avesse mai neppure pensato di andare con qualcun altro dopo averlo mollato, e non che non ve ne fosse stata l'occasione. Il fatto era che né la testa, né tantomeno il cuore glielo avrebbero mai permesso. Ciononostante, non poteva pretendere la fiducia dell'Hansen più di quanta lei non gliene avesse concessa impedendogli di fornirle una spiegazione.
    «e con questo non voglio che tu ti senta in obbligo di fare alcunché, so che è stato difficile per te anche con Murphy ed Eugéne» aggiunse in un sussurro, non riuscendo a evitare di sentirsi in colpa. Era forse colpa sua, però, se il gene Hansen non era in grado di starsene al proprio posto? «però mi sembrava giusto che lo sapessi» si strinse nelle spalle, lo sguardo di nuovo chino sul pavimento, in attesa di una qualunque reazione da parte dell'Hansen.


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    «non sarei dovuta scappare» almeno su quello erano d’accordo. Non era di certo la prima a fuggire, o a fuggire dopo aver scoperto di essere incinta, ma era la prima a tornare e quello doveva pur significare qualcosa. O almeno, così gli piaceva illudersi. «non è così che le persone mature affrontano le discussioni» Sinclair scelse saggiamente di tacere e lasciare sfogare la donna, conscio del fatto che il suo intervento non avrebbe fatto che peggiorare le cose. Anche perché cosa avrebbe potuto dirle- che aveva ragione? Ci teneva alla sua incolumità, era un uomo saggio. Ciò non voleva dire che Nicole non potesse percepire le sue emozioni, ma se anche così fosse stato c’era poco che poteva fare per impedire al tormento emotivo che infuriava in lui di prendere il sopravvento. Da una parte capiva che Nicole avesse avuto le sue difficoltà, era più che comprensibile, ma dall’altra essere piantato in asso senza nemmeno un biglietto sul comodino lasciato sul tavolo faceva male. Se gli avesse chiesto una spiegazione, gliel’avrebbe data, o almeno ci avrebbe provato senza riportare in vita scheletri ormai sepolti da tempo. Incluso il suo. «ho così tante domande, e sinceramente non sono neanche sicura di voler sentire le risposte» no, probabilmente no, ma sapeva che prima o poi avrebbero dovuto affrontare l’argomento. Si strinse nelle spalle, le dita a tamburellare nervosamente sulle gambe «probabilmente no, ma mi piacerebbe darti la mia versione. non quella che hai letto su un fascicolo» non aveva chissà quale scusante, ma gli piaceva credere che non era il mostro che quei fascicoli dipingevano. In parte sì, non avrebbe negato le sue colpe, ma le sue motivazioni non originavano da una qualche ideologia distorta. Era un padre che avrebbe fatto ciò che era necessario per ricucire insieme i pezzi della sua famiglia, non importava le colpe di cui si sarebbe macchiato, i sacrifici sotto i quali le sue spalle avrebbero scosso o il fatto che quando si guardava allo specchio non era lo stesso uomo di vent’anni prima. Non si aspettava di certo le prossime parole che uscirono dalla bocca della Rivera, e perché avrebbe dovuto. «sono incinta. è tuo, ovviamente» improvvisamente, ogni movimento cessò, troppo concentrato sul volto di Nicole per ricordarsi come funzionare. Non era la prima volta che si trovava in quella situazione, ma ogni volta era come la prima- confusione, sorpresa, gioia. «sei…incinta» nonostante tutto, le difficoltà di quei mesi e i segreti tra di loro, un sorriso ruppe la stasi sul volto dell’Hansen. Prima che Sinclair potesse aggiungere altro, Nicole continuò «e con questo non voglio che tu ti senta in obbligo di fare alcunché, so che è stato difficile per te anche con Murphy ed Eugéne» l’Hansen si accigliò, non capendo perché la Rivera gli stesse dicendo quello: lo conosceva, sapeva che non era il tipo di padre che avrebbe abbandonato i propri figli. Ma forse Nicole aveva la sensazione di non conoscere più Sinclair, e ciò aveva minato le sue convinzioni più salde sull’Hansen. Voleva dimostrarle che non era così, che nonostante tutto era lo stesso uomo che aveva conosciuto anni addietro. «voglio esserci. non perché mi senta obbligato o altro, ma perché ci tengo- a te e al bambino» cercò il suo sguardo nonostante fosse puntato a terra, la mano ad avvicinarsi alla sua ma mai a sfiorarla. Non sapeva se aveva ancora quel privilegio, se Nicole provasse ancora qualcosa per lui o se la consapevolezza di essere incinta l'aveva spinto a cercarlo. «vorrei che le cose tornassero come prima ma non so da dove cominciare, se ancora sei disposta a provarci» scelse di essere onesto, perché nascondersi dietro giri di parole non gli aveva mai fatto favori «ho così tante domande» echeggiò le parole che poco prima aveva pronunciato la special, un sospiro e un'espressione stanca a farsi strada sul suo volto «vorrei sapere di più sul bambino, ma forse prima hai delle domande per me?» si sarebbe pentito di quell'invito, ma glielo doveva, così come Nicole gli doveva un'opportunità di dare la sua versione «non sono il mostro che credi, dammi una chance di spiegarti» almeno quella volta poteva dirci di averci provato, di aver combattuto quella che sembrava una fine già scritta.

     
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