monkey business

ft. akelei

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    La gente solitamente non riusciva a dormire nel reparto di psichiatria del San Mungo. Che fossero medimaghi, guaritori, o addirittura pazienti: c’era sempre un gran trambusto che li costringeva a correre costantemente ovunque come dei forsennati, da una stanza all’altra quasi non avessero capito chi stesse scappando da dove, o quale magico campanello avesse iniziato a suonare all’impazzata. Urla, sangue e orrori d’ogni genere si alternavano e mescolavano come in un episodio qualsiasi di Final Destination, e nella sala del personale sanitario era affisso un tabellone con le morti più quotate – anche qui, sia staff che degenti: nessuno veniva risparmiato dalle scommesse. La pace, in quell’ala dell’ospedale magico, non era contemplata; persino i visitatori quando andavano a far visita ai propri parenti ivi ricoverati si facevano il segno della croce, e pregavano una divinità qualsiasi affinché ne uscissero illesi.
    Qualcuno, anzi, molti avrebbero definito quel posto come l’inferno in terra, e ne avrebbero avuto tutti i migliori motivi.
    Per Chariton Deadman, quel posto non era poi tanto diverso da quelli che aveva vissuto lungo tutta la propria esistenza. Il caos, il disordine, quel continuo minacciare e minacciarsi, faceva tutto parte della sua vita da che ne aveva memoria. Stava semplicemente rivivendo scene già viste, giorno dopo giorno: prima con i Laboratori, di certo non il miglior posto in cui crescere; poi a New Hovel, dove due gemelli di un anno e mezzo lo aspettavano ogni sera. Erano la luce dei suoi occhi – ma anche un ammasso di grida che non comprendeva, di pianti senza fine e di pannolini sporchi e puzzolenti. La ragione per cui sopravviveva, per cui arrivava a fine giornata, quei piccoli sgorbi pieni di dita appiccicose e occhi giganti che sembravano chiedergli di non lasciarli soli l’indomani – e ai quali non poteva promettere nulla, se non di provarci al meglio delle proprie possibilità –, altro non erano che la migliore scuola per affrontare gli psicopatici sul posto di lavoro.
    Ed uno dei motivi per cui lui, tra tutti i suoi colleghi, riuscisse a dormire beatamente sulle scomode sedie dell’infermeria. Dormitine rapide e prive di sogni, ma capaci di rigenerare più di quanto non riuscisse a fare un sonno profondo e completo – soprattutto perché era impossibile farne uno filato, di quei tempi. Non aveva nemmeno bisogno del tempo per pensare di voler schiacciare un pisolino: non appena aveva finito di fare il proprio dovere, Shot si spegneva. In qualunque posto, in qualunque posizione. Quando c’era di nuovo bisogno di lui, dopo aver comunque più volte finto di essere morto, tornava a pieno regime.
    Di tutte le tecniche di sopravvivenza che aveva sviluppato nel corso di quei ventisei anni, quella era senza dubbio la migliore e la più utile.
    «Deadman, sei sveglio?» aprì solo un occhio, rimanendo sdraiato con i piedi incrociati sulla scrivania comune e le braccia incrociate al petto: una cosa apprezzabile dell’equipe, era che lo comprendevano e non gli rompevano troppo l’anima se crollava sul posto di lavoro. Avrebbe preferito non lo svegliassero mai, ma non poteva pretendere troppo. «Jaeger ha di nuovo tentato di tagliare le dita a Cruz?» domandò, già pronto per alzarsi ed andare a togliere qualsiasi oggetto tagliente avesse rimediato quella volta l’ospite del letto tredici. Non era ancora riuscito a comprendere perché avesse bisogno dei mignoli della povera vecchietta, ma (lo rispettava, e purtroppo) non poteva lasciarle portare a termine l’opera.
    Solo quel giovedì, era la settima volta che tentava invano.
    Anzi, sarebbe stata la settima volta. «Nessun rischio di amputazione. Non ancora, almeno.» il caposala gli fece un cenno con il capo, invitandolo a guardare fuori dalla porta del reparto. «C’è qualcuno che ti cerca.» nel vedere la fronte corrugata dello special, aggiunse solo: «Ha detto poco, solo che potresti aiutarlo per una cosa non meglio specificata. È un po’ inquietante, vedi se dobbiamo ricoverarlo qui.»

    A posteri, al buon Colin Portman, avrebbe dovuto rispondere che, , era da prendere in cura lì da loro. Magari lo avrebbe fatto, una volta portato a termine quel lavoro.
    Si accese una sigaretta, dando un’altra occhiata al vicolo dell’Inferius per accertarsi di essere da solo. Non che avrebbe fatto molta differenza, lì: avrebbe potuto tranquillamente entrare in un palazzo nel quale non era stato invitato, scassinare la porta di un appartamento di certo non suo, e nessuno avrebbe fatto un fiato che fosse uno.
    Effettivamente, fu proprio quello che fece. Non aveva assolutamente voglia di lavorare quella sera, ed aveva detto ad Albert Adams – il soggetto niente affatto losco che si era presentato al San Mungo – che per quel motivo avrebbe dovuto pagargli un extra. Agognava tanto il proprio letto, che entrato nella vecchia casa del tizio valutò l’opzione di gettarsi su quello dove probabilmente aveva dormito con l’ex: per sua fortuna, il raziocinio vinceva sempre sulla disperazione.
    Lasciò cadere la cenere sul pavimento, che tanto più lercio di com’era difficilmente sarebbe diventato, iniziando a gettare lo sguardo in giro per il bilocale. Era un compito semplice: doveva recuperare una maledetta cassetta incantata, con dentro “cose che non ti interessano” – ci aveva tenuto a precisarglielo, sebbene a Shot potesse interessare meno di niente –, che la concubina non aveva voluto restituirgli dopo il divorzio.
    La signora Adams era uscita da poco più di un quarto d’ora, e non sarebbe rientrata prima di tarda notte: aveva abitudini discutibili, sempre a dire del cornuto, ma al mercenario importava solo che fosse fuori dai coglioni per una decina di minuti.
    Quel posto sarebbe dovuto essere vuoto.
    Allora di chi erano quei passi?
    Si nascose dietro un muro, dita a stringere celeri il calcio della pistola, in attesa.
    Porca miseria, aveva detto a Murphy di aspettarlo per la cena – precotta; ordinata su Just Eat; gentilmente offerta da Lydia e Jay.
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    Non c’era gioia più grande di tornare dalla propria famiglia dopo una giornata passata a lavoro, o almeno quello era ciò che la Beaumont aveva sentito dire in giro. Per quanto si sentisse appagata dal suo lavoro, non la pagavano abbastanza per fare gli straordinari con due bestie che la aspettavano affamate a casa. Aveva pensato di portarsele al lavoro qualche volta dato che l’età media era quella, ma aveva paura che la stupidità (e gli istinti omicidi) dei suoi colleghi fosse contagiosa, un po’ come la varicella e le stds. Dunque, la sua unica opzione era abbandonare i gemelli ad adulti più o meno responsabili, e quello la rendeva più ansiosa di lasciarli in cura ai suoi animali domestici. Mandami una foto della prole. coinciso e dritto al punto, inviò il messaggio a William per poi riporre il telefono in tasca. Un po’ le mancavano Ronan e Lynch, e un po’ voleva vedere se fossero ancora vivi (o se fosse ancora vivo Will, non si sapeva mai con la prole BB). Il lavoro che doveva portare a termine all’Inferius era relativamente semplice, si trattava di verificare una segnalazione anonima e di prendere in custodia lo special in questione, o se questo non fosse stato al luogo segnalato, di indagare il luogo dove si sarebbe dovuto trovare -un appartamento, appartenemente- per eventuali indizi. Era un compito così banale che avrebbe potuto mandare qualunque altro cacciatore, se non avessero tirato fuori scuse prese direttamente da un bambino delle elementari. Ma andava bene così, gliela avrebbero pagata in un modo o nell’altro.
    Nonostante la Beaumont fosse abituata a frequentare topaie a causa del suo lavoro, rimaneva una donna cresciuta nel lusso e attenta alla pulizia e quel quartiere rimaneva uno dei peggiori shitholes in tutta Londra magica. Imprecò a bassa voce quando per poco non inciampò in quelli che parevano indumenti macchiati di urina (sperava animale), forse alla fine di quella missione sarebbe stata costretta a bruciare i vestiti, se non fargli fare un bagno nella candeggina per sempre. Arrivò all’indirizzo che le avevano dato, introdursi nel palazzo richiese lo stesso sforzo di rubare le caramelle a dei bambini (Akelei ne sapeva qualcosa, aveva visto Ronan farlo). Una volta approcciata la porta dell’appartamento notò qualcosa di terribilmente sbagliato: era accostata. Quello voleva dire due cose: o che qualcuno aveva avvisato lo special della segnalazione anonima, o che qualcuno era arrivato prima di lei. Impugnò la bacchetta e la portò davanti a sé, un incanto pronto sulle labbra, per poi aprire la porta con un calcio secco.
    Si aspettava molte cose, Akelei Beaumont, ma non «Shot?» *shit.
    La francese era confusa da quell’inaspettato incontro, e per quello non accennò ad abbassare la bacchetta, ancora in allerta. «Che ci fai qui?» lanciò uno sguardo al letto disfatto, una domanda implicita nell’aria. Ma guarda te, la reunion dei genitori che vanno a prendere le /sigarette/.
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    sai che ridere se si uccidono a vicenda .


    Edited by ambitchous - 16/4/2022, 00:06
     
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1 replies since 14/4/2022, 23:09   113 views
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