Feeling like a boulder hurtling

Libera @ wizburger

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    HUNTER
    OAKES
    Hunter ancora non aveva ben chiaro come fosse finito al -1 del San Mungo. In realtà, se proprio doveva essere del tutto onesto con se stesso, non aveva idea del 90% degli avvenimenti accaduti negli ultimi due anni e di come fosse riuscito, in generale, a sopravvivere. Se si fosse sforzato un minimo – e non ne aveva comunque voglia – dubitava sarebbe riuscito a mettere a posto i pezzi di quel puzzle di cui non conosceva neanche l’immagine. Gli sembrava di essere una pedina nel mezzo di Labirinth, mossa da un giocatore inesperto e/o incapace, ferma nello stesso identico punto della piattaforma di gioco, impossibilitata ad andare avanti, in dietro o in qualsiasi altra direzione, mentre il mondo attorno a lui cambiava costantemente faccia, apriva e chiudeva strade sempre quando non era di turno per compiere la sua mossa. L’Oakes aveva provato a prendere un minimo il controllo, finendo tuttavia su una tessera mobile, trascinato dagli eventi fino ad essere espulso dal terreno di gioco e ricominciare, ancora una volta, tutto da capo.
    La verità è che, dopotutto, si trovava bene nella bolla che aveva costruito attorno a sé, in quella tasca dell’universo da cui poteva scegliere di sbirciare cosa stesse avvenendo attorno a lui, senza mai farne davvero parte, scegliendo di uscire alla luce del sole solo quando strettamente necessario e per cause non dipendenti da lui.
    Era successo così di rado che riusciva a contare quelle occasioni sulla punta delle dita di una mano, parentesi di quello che avrebbe potuto essere se solo avesse scelto un altro modo per risolvere i suoi problemi, se solo avesse scelto di vivere.
    Sospirò piano, poggiando il vetrino sulla superficie illuminata dalla lampada, cercando di osservare come reagivano quelle cellule a contatto con uno dei tanti reagenti che avevano in quel laboratorio di prim’ordine, così diverso dal sotterraneo in cui aveva dovuto affrontare i suoi M.A.G.O. e che lo aveva sconvolto al punto che neanche la terapia con Styles era riuscita a smuovere qualcosa in lui, benché meno a superare il trauma.
    Eppure, contro ogni logica, era finito nuovamente tra formule e formaldeide, tra tomi e vasetti contenenti i più disparati organi, tra note e reagenti, muovendosi come se tutto quello fosse parte di lui, come se fosse nato per brillare con in mano organi e provette.
    Si era spesso immaginato come un macellaio, pronto a fare a pezzi, sminuzzare e analizzare ogni parte del corpo umano, ma la realtà era ben diversa dal suo immaginario: per quanto fosse vera anche la parte di cui sopra, il suo era un lavoro molto metodico, dove il rumore dei macchinari utilizzati per esaminare organi, tessuti e cellule dettava il ritmo delle sue giornate. Spesso capitava semplicemente di dover diagnosticare qualche malattia, analizzare campioni di sangue o altro materiale organico, e questo lo aiutava a non pensare, ad alienarsi dietro una serie di azioni che ormai ripeteva ogni giorno quasi fosse una sua personalissima danza; di rado, invece, arrivava qualche cadavere morto per cause sospette, svegliando l’Oakes dal suo torpore e dandogli una ragione per non sentirsi il mago più inutile del pianeta. Ottobre, quando era stato isolato un nuovo virus a Hogwarts, era stato uno dei momenti più alti della sua vita da Guaritore. Si era sentito quasi lo Sherlock Holmes degli anatomopatologi: erano stati giorni carichi di lavoro, stress e responsabilità, eppure c’erano sempre nuovi sintomi da analizzare, nuove escrescenze cutanee, un nuovo tutto che poteva anche aver terrorizzato la maggior parte degli studenti, ma lui si era sentito quasi… eccitato dall’incalzare di questa nuova malattia.
    Certo, se avesse voluto il brivido della professione non era quella la specializzazione che avrebbe dovuto seguire, ma in quel preciso momento della sua vita era quella dove avrebbe potuto far meno danno, dove poteva tranquillamente far brillare i suoi tratti ossessivi, quell’essere preciso e rigoroso fino al limite della sopportazione, senza fare danni, senza dover necessariamente caricarsi della responsabilità di altre vite umane.
    Un po’ vigliacco, non lo negava neanche lui, ma non era stato smistato a Grifondoro per dei motivi ben precisi, e questo aspetto del suo carattere rientrava tra quelli.
    Avrebbe potuto cambiare in futuro? Certo, ricordava ancora quali fossero le motivazioni che lo avevano spinto a coltivare il sogno di guaritore, ma ancora doveva fare i conti con una realtà che faceva fatica a digerire e non si sentiva pronto ad operare nelle corsie dei vivi.
    Diede uno sguardo all’orologio affisso sulla parete della stanza, rendendosi conto – ancora una volta – di quanto fosse ormai passato da un pezzo il termine della sua giornata lavorativa. Ripose tutto con estrema calma ed estrema cura al proprio posto, segnando le ultime variazioni dei tessuti analizzati e annotando alcune informazioni che gli sarebbero state utili nella stesura finale della sua relazione peritale, prima di chiudere il proprio zainetto e prendere, dopo ore, una boccata d’ossigeno.
    Era sempre una sensazione strana, quella di respirare aria fresca dopo ore trascorse chino in laboratorio, tale da farlo restare fermo sempre qualche secondo di troppo appena fuori l’uscio dell’Ospedale.
    Non gli andava di preparare la cena, benché meno di scaldare avanzi (erano già 3 sere che si immolava per non dare dispiacere ai Losers che avevano provato – e fallito miseramente – a fare della pasta al forno alternativa: non aveva chiesto cosa ci avessero messo dentro e, probabilmente, non lo avrebbe mai fatto, illudendosi fossero tutti ingredienti commestibili), quindi non gli restavano molte opzioni per non morire di fame. Non che fosse un problema, ormai era così secco che si faceva fatica a distinguerlo da un palo della luce, ma sapeva quanto fosse importante nutrire anche il corpo e non solo la mente – soprattutto quando quest’ultima ormai non lo accompagnava più -.
    Si diresse verso il Wizburger e se ne pentì nell’esatto momento in cui varcò la soglia del locale, travolto da luci, suoni e, soprattutto, persone. Non seppe quanto ci mise a farsi largo fino al bancone – ormai il tempo era relativo – e, solo col vassoio pieno di cibo alla mano, si rese conto di quanto fosse stato stupido da parte sua credere ci fosse un tavolo libero per lui.
    Si guardò attorno nel locale, fino a scorgere un posticino vuoto in uno degli angoli della sala e provò a dirigersi a passo svelto, sfruttando le lunghe gambe per una buona causa. Poggiò il vassoio sul tavolino e si lasciò cadere sulla sedia, rendendosi conto solo dopo qualche istante che non era da solo.
    “Io non…” iniziò a balbettare, avvampando di imbarazzo. “Perdonami non ti avevo visto, pensavo il tavolo fosse… vuoto?” una domanda retorica, che non era neanche una domanda. “Posso restare? Non c’è un posto neanche a pagarlo e…” e non lo avrebbe pagato, a stento si era portato dietro i soldi, e fu una piacevole sorpresa vedere che nel suo borsello ci fossero falci a sufficienza per permettergli di pagarsi la cena. Non che non guadagnasse bene, ci mancherebbe, è che non credeva gli sarebbero potuti servire galeoni o altro nel tragitto casa-ospedale / ospedale-casa e per questo preferiva viaggiare leggero. "C'è sempre così tanta gente qui? Fanno serate live?" Prese uno dei cartocci che aveva sul vassoio e lo porse al suo interlocutore, ignaro compagno per quella serata. “Patatina?”
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    Edited by Messier_43 - 28/7/2022, 12:20
     
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    kang haeil
    kyle
    Un giorno, prima o poi, Kyle avrebbe fatto la spesa e riempito il frigorifero del suo appartamento-slash-laboratorio di cibi freschi e dalla scadenza a lungo termine; verdure, insaccati, cibi in scatola da riscaldare velocemente e senza impegno, ma pur sempre cibo commestibile; un giorno, avrebbe comprato qualcosa di diverso dalle dieci confezioni di gelato e pacchi di biscotti formato famiglia che acquistava di solito – comprati per una questione di risparmio, non perché avesse una famiglia.
    Un giorno, avrebbe addirittura fatto una lista fissandola alla lavagnetta in legno come un vero adulto, segnando le cose che mancavano e di cui avrebbe avuto bisogno per tenere una casa-officina in condizioni decenti e vivibili.
    Un giorno avrebbe persino aggiustato la porta del bagno che cigolava ad ogni movimento – e avrebbe sistemato i tre cassetti smontati che pendevano dalla credenza “appoggiata” (in mancanza di una sistemazione che avesse senso) nell'ampio corridoio che separava l'ambiente giorno (ovvero il laboratorio vero e proprio) da quello notte (quindi la nicchia che il ragazzo aveva adibito a camera da letto).
    Un giorno avrebbe probabilmente anche cercato una sistemazione diversa (una vera casa) e adatta per viverci in maniera stabile –perché, ormai, era certo al cento percento di non voler più tornare a Seoul, soprattutto non per prendere le redini dell'azienda di famiglia: la sua nuova vita era in Inghilterra.
    Ma non era quello il giorno.
    Anche quel pomeriggio, il sudcoreano si ritrovò ad affacciare il viso paffuto oltre lo sportello dell'elettrodomestico sospirando tristemente nel rendersi conto che era rimasto con i soli resti di una cena da asporto vecchia e ammuffita, e un cartone di latte lasciato a metà; se avesse avuto dei biscotti si sarebbe fatto andare bene quella misera cena – la cena dei pigroni, ma una veloce occhiata allo sportello della credenza sopra la sua testa gli strappò un ulteriore sospiro: non aveva nemmeno i biscotti. Come aveva fatto a rimanere senza biscotti. Una tragedia.
    Haeil era bravissimo in un sacco di cose ma prendersi cura di se stesso, almeno sotto l'aspetto del nutrimento, non rientrava tra queste; controllare di avere gli giusti alimenti a disposizione – o ancora, ricordarsi di mangiare ad orari decenti e regolari – non era il suo forte.
    O la sua priorità.
    Solitamente si preoccupava di mettere qualcosa sotto i denti solo quando sentiva un buco nero crescere al centro del suo stomaco, e in quei casi si limitava ad aprire una confezione di gelato (che non mancava mai) o ad ordinare una quantità disumana di Gyoza, o qualsiasi altro cibo di cui avesse voglia in quel momento. Nella sua testa c'era spazio solo per altre cose, come gli infiniti progetti personali (e quelli per la Resistenza), e... basta, onestamente: a Kyle fregava ben poco di tutto il resto. Passava le giornate perso in schemi, formule matematiche ed esperimenti, al punto da perdere spesso il contatto con la realtà, fino a dimenticare addirittura lo scorrere dei giorni; se non fosse stato per le sporadiche telefonate dei suoi (pochi) amici – alle quali, c'è da dirlo, non sempre rispondeva – e le visite un po' più regolari che faceva al QG per riunioni e varie ed eventuali, avrebbe potuto campare benissimo nel suo mondo fatto di ingranaggi e circuiti elettronici. Gli bastava.
    Alcuni avrebbero detto che aveva bisogno di un hobby salutare e... beh, avrebbero avuto ragione; non è che a Kyle non piacesse uscire o incontrare gente – è che, in maniera molto banale, non ne vedeva la necessità. Succedeva che accettasse di vedersi con quei pochi amici che lo chiamavano al telefono, per una birra o un'uscita serale, ma avrebbe mentito dicendo di non preferire di gran lunga il silenzio di casa sua.
    Non era asociale, il Kang, era solo selettivo; ma bastava conoscerlo per capire che l'aria da “puzza sotto il naso” era semplicemente il frutto di un'educazione fin troppo rigida che l'aveva lasciato arido e poco abituato ad avere a che fare con gli altri in maniera distesa e spontanea: aveva provato a non farsi piegare dai modi distaccati dei suoi genitori adottivi, eppure si rendeva conto ad ogni conversazione di quanto fosse poco portato per la socialità – e, più in generale, la poca inclinazione che avesse nei confronti delle persone. Gli piaceva osservarle da lontano, niente più; continuava a preferire tutto il resto, nello specifico le cose che non avevano modo (o ragione) di esistere, eppure esistevano, quelle che lui poteva dissezionare e studiare e capire.
    A capire il genere umano aveva rinunciato da un pezzo, e aveva perso dunque quel poco fascino che aveva suscitato in lui negli anni dell'adolescenza.
    Era raro, dunque, che preferisse l'alternativa che contemplava "uscire" e abbandonare il comfort del suo appartamento; o, per lo meno, quello era un discorso che valeva la maggior parte delle volte – quel giorno era un'eccezione.
    Haeil aveva perso il filo dei propri pensieri all'ennesimo brontolio insistente e aveva, suo malgrado, sfilato gli occhiali protettivi per dirigersi nell'angolo dell'officina adibito a cucina, luogo dove aveva fatto la triste, triste, scoperta. Ed era ancora lì, svariati minuti dopo, ad osservare il vuoto cosmico del frigorifero – e desiderando ardentemente di poter evocare qualcosa di commestibile solo con la forza del pensiero.
    Non aveva quel genere di potere, purtroppo, e con un sospiro chiuse lo sportello, valutando le sue reali opzioni: ordinare da asporto – quarta volta nel giro di altrettanti giorni – e rimanere al calduccio nel suo appartamento, in pigiama e con i capelli arruffati, oppure fare la persona Responsabile e Matura e....... uscire.
    Non doveva nemmeno riflettere su quale delle due opzioni avrebbe reso felicissimo il suo amico e collega Milkobitch – ed era ovviamente quella che Kyle il suo istinto gli diceva di scartare a prescindere.
    Invece, con l'ennesimo respiro soffiato e pesante, tipico di chi è già stanco ancor prima di iniziare l'opera, Kyle spense la luce della zona giorno e si diresse verso il bagno, dove avrebbe riflettuto sul senso della vita sotto il getto bollente della doccia per almeno mezz'ora prima di convincersi ad uscire, quando ormai il buco nero nel suo stomaco minacciava di divorare se stesso dall'interno.

    Una paio di ore dopo, Haeil era seduto su uno dei divanetti di Wizburger e perso in una formula che stava tentando di risolvere; il pensiero gli era venuto all'improvviso, mentre osservava pigramente il poster appeso sulla parete di fronte a lui e che annunciava le nuove sorprese megagalattiche e fantasmagoriche degli Happy Wiz; in un gesto veloce, il mago, aveva girato il foglio di carta posto sul vassoio del fast food e chiesto una penna allo sconosciuto seduto accanto a lui – una delle tante contraddizioni che lo rendevano quello che era; poteva infatti non esultare di gioia all'idea di trovarsi in mezzo alla gente, ma non era così introverso da trovare strano il chiedere, di punto in bianco, ad una persona del tutto random, se avesse una penna.
    Il punto è che, tal persona, una penna ce l'aveva davvero e gliel'aveva anche prestata: buon per Kyle!
    Si era messo dunque a scribacchiare numeri, dimenticando le patatine ormai fredde, e sorseggiando la fanta annacquata solo come passatempo in attesa che la Soluzione lo illuminasse, gli occhi scuri rivolti alla formula e la mente impegnata a processare diverse ipotesi e scenari senza trovare quello corretto; di tanto in tanto, interrompeva la gara di sguardi con il foglio unto solo per scrollare con insistenza sul proprio cellulare alla ricerca di altre idee. E, perso in una di quelle ricerche sul web, non aveva notato la penna rotolare a terra, accorgendosene solo quando, finalmente illuminato, tornò a servigli per appuntare uno stralcio di inizio che lo avrebbe portato alla soluzione.
    La cercò ovunque: sotto il cartoccio di patatine, dietro i rimasugli del triplo hamburger, sotto il vassoio – e la trovò, invece, a terra. Si chinò per raccoglierla e, rialzando la testa oltre il tavolo, notò di non essere più solo.
    «...Hunter?»
    Era... confuso e certo al centocinquanta percento che l'altro non fosse stato lì pochi secondi prima; si guardò intorno nel locale pieno zeppo di gente, prima di posare di nuovo lo sguardo sul ribelle di fronte a lui.
    «Posso restare? Non c’è un posto neanche a pagarlo e…» Un'altra persona non l'avrebbe nemmeno fatto finire di porre la domanda, annuendo subito affermando che sì, certo, accomodati pure, ci mancherebbe! Ma Haeil era pur sempre Haeil, perciò si ritrovò a boccheggiare un attimo, senza sapere cosa dire, prima di allungare la mano e invitarlo a restare – forse con un'aria che doveva sembrare poco convinta agli occhi dell'ex Corvonero. «Certo-» ma non si mosse per raccogliere le sue cose e fargli posto – non per maleducazione ma perché stava ancora cercando di capire cosa fosse successo.
    Per un attimo rimase a guardare il ragazzo pensando che se solo avesse distolto lo sguardo Hunter, improvvisamente come era arrivato, sarebbe anche sparito. Quando invece si rese conto che l'Oakes era davvero lì, in carne ed ossa, Kyle drizzò la schiena e iniziò a riunire i resti del suo pasto e liberare una porzione di tavolo.
    «C'è sempre così tanta gente qui? Fanno serate live?» «Uhm...» si strinse nelle spalle, guardandosi intorno ancora una volta. «Non lo so.» Risposta valida per entrambe le domande: non era un assiduo frequentatore del posto, e a dire la verità non ricordava bene come c'era arrivato quel giorno – forse guidato dalla fame e basta, e dall'odore di cibi grassi e fritti in un olio che probabilmente non veniva cambiato da troppo tempo.
    Era il genere di locale da cui sua mamma lo aveva sempre tenuto lontano.
    E, ovviamente, era il genere di locale verso cui, per una ribellione intrinseca nel suo DNA, Haeil tendeva a gravitare – solo perché per anni gli era stato proibito; i panini del Wizburger non lo facevano nemmeno impazzire così tanto!
    Abbassò gli occhi a mandorla sul cartoccio di patatine offerte dell'Oakes, ma rifiutò con educazione. Oltre a quello, poi... non disse altro per svariati minuti. Conosceva Hunter di vista, non poteva certo dire di averci scambiato mai più di un “ciao” o un “alla prossima” entrando ed uscendo dal QG, cosa che per Kyle valeva un po' con chiunque.
    Fare due chiacchiere non era il suo forte, ma non voleva sentirsi a disagio in quella situazione; l'altra opzione (alzarsi e andarsene) gli pareva maleducata – infondo il ragazzo non era neppure un totale sconosciuto dal quale Haeil poteva congedarsi educatamente e via.
    Che.....fare......
    «Uhh...m. Allora...» dov'era Troy quando serviva rompere il ghiaccio? Era utile per poche cose (bacini bacini) ma almeno la spigliatezza della ragazza lo tirava fuori da situazioni del genere di solito.
    «...che dici?» Ah, non era così che si intavolava una conversazione??? Ah no????? Assurdo.
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    HUNTER
    OAKES
    Hunter si sentiva un po’ come Brad Pitt quando ammetteva candidamente di star iniziando a non riconoscere più i volti delle persone. L’Oakes, tuttavia, non soffriva di alcuna malattia, giusto quel po’ di miopia che faceva sì il mondo fosse un po’ più ovattato senza occhiali e, soprattutto, tanta stanchezza. Sentiva le palpebre pesanti e la messa a fuoco, dopo ore trascorse nel laboratorio dei sotterranei, stava iniziando a risentirne parecchio (così come le sue orecchie, abituate più al suono dei macchinari ché al chiacchiericcio della gente). Ci mise qualche istante a collegare la voce dell’inventore al suo volto, la testa inclinata di lato e gli occhi quasi ridotti a due fessure. Tastò con la mano libera il petto, nella vana ricerca dei suoi occhiali, un gesto automatico, dettato più dall’abitudine che da una vera necessità.
    “Oh, Kyle! Grazie!” Lo salutò e ringraziò con quelle due semplici esclamazioni e un mezzo sorriso, perché non aveva idea di come approcciarsi con le persone. L’ex Corvonero non era un animale sociale, di fatto preferiva la compagnia dei morti e dei loro resti umani a quella dei vivi, e situazioni simili gli mettevano sempre un sottile disagio addosso. Come si doveva comportare? Doveva dargli una pacca sulla schiena? Nah, c’era mezzo tavolo in mezzo e comunque era sbucato praticamente dal pavimento, poteva avere addosso un sacco di germi ed era meglio evitare. Non trovava i suoi occhiali, c’erano ancora meno chance potesse trovare al volo l’igienizzante. Doveva porgergli la mano per una stretta? Un bro fist? Un… Boh, non lo sapeva, però era piuttosto convinto di aver fatto un’ottima uscita offrendogli le sue patatine! Non stava andando poi così male, era anche riuscito a non dover cedere il suo posto ad altri e, forse, poteva addirittura pensare di abbandonarsi sul divanetto e provare a rilassare la schiena. Sì, gli mancava l’oplà e poi poteva già vantare il patentino per vecchi dentro.
    Fece un po’ di spazio sul tavolo, stando ben accorto a non mischiare le carte su cui l’altro Ribelle stava lavorando. Non c’era solo educazione e rispetto nei suoi gesti meticolosi, quanto anche la consapevolezza che se qualcuno avesse portato scompiglio nei suoi appunti, probabilmente non sarebbe rimasto vivo a lungo per poter raccontare cosa significasse avere davanti un Hunter molto, se non estremamente, arrabbiato. L’ex Corvonero nelle sue cose era ossessivo, per usare un eufemismo: aveva i suoi metodi, la sua personalissima routine nella quale riusciva a trovare un po’ di serenità. Era maniaco dell’ordine dalla punta dei capelli fino ai piedi e niente di quello che faceva era lasciato al caso o alla logica.
    Chiuse piano le palpebre, pregustando già la sua cena, e inalando l’aria di fritto e colesterolo che permeava ogni angolo del Wizz Burger. Ancora faceva fatica a crede fosse tra la gente. Se lo avesse detto ai Losers, probabilmente non gli avrebbero creduto.
    Fissò qualche istante Kyle, passandogli piano una mano davanti agli occhi, sembrava quasi fosse imbambolato e Hunter ancora non capiva perché: non aveva una bellezza disumana, ancora non aveva detto nulla di inopportuno e non ricordava gli fossero spuntate strane escrescenze su diverse parti del suo corpo.
    “Tutto ok?” Domandò prima di addentare il suo hamburger, anche perché non voleva si raffreddasse e stava, letteralmente, morendo di fame. Non era uno che faceva troppe cerimonie, benché meno a tavola.
    “Mh… peccato.” Sarebbe stato carino se nel locale fossero attrezzati anche per spettacoli di musica live, poteva segnarlo nella lista di posti papabili per un concerto dei 404. Ok, avevano perso Aidan nell’Est Europa, ma era iniziata a correre voce si fossero ritirati per scrivere il loro album di debutto, e chi era Hunter Oakes per non credere a quelle voci? Un membro della band.
    E poi, eccola lì la domanda da un milione di dollari. “In realtà, non stavo parlando.” E si preoccupò non poco, perché perfino nel mondo dei maghi sentire voci non è un buon segno. Diede un altro morso al panino, concentrandosi sull’esplosione di gusto nella sua bocca e su quel mix di sapori e consistenze che andavano dalla croccantezza del cetriolino alla morbidezza della carne, passando per la scioglievolezza del cheddar fuso, prima di realizzare che, forse, la frase pronunciata dall’inventore fosse solo un modo di dire.
    “Hm.” Si asciugò le labbra col tovagliolino prima di iniziare a parlare. “In realtà niente di ché. Sono quasi sempre al San Mungo, c’è sempre un sacco di lavoro da fare e i tessuti da analizzare non finiscono mai. Ogni tanto qualche morto ravviva un po’ l’atmosfera, ma per il resto è tutto molto tranquillo.” Intinse tre patatine nella salsa prima di continuare. “Però è divertente, soprattutto quando i risultati non sono quelli che ti aspetti.” I suoi colleghi non la pensavano allo stesso modo, perché significava che avrebbero dovuto svolgere altri esami, mentre l’Oakes mostrava tutto l’entusiasmo di chi era pronto a risolvere un nuovo enigma.
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    kang haeil
    kyle
    C'era (più di) un motivo se Kyle aveva pochi amici: era a causa (per colpa?) del suo carattere chiuso e la sua tendenza a non cogliere subito i messaggi - non tanto sottili - che le persone gli mandavano. O, più in generale, possiamo dire che facesse un po' pena a leggere le persone, punto.
    Ed erano gli stessi motivi per cui tendeva a circondarsi, in quei rari ed eccezionali casi in cui davvero riusciva a fare amicizia, di persone che fossero il suo esatto opposto: Zac e Troy erano i due esempi più lampanti, perfetti per sottolineare quel concetto. E la sua totale, incommentabile, mancanza di social skills. Preferiva di gran lunga parlare con i robot o i prototipi di intelligenza artificiale che collaudava nel suo laboratorio, piuttosto che con le persone; quanto meno, esseri di metallo e circuiti elettronici non pretendevano che cogliesse la sottile ironia che caratterizzava gran parte delle chiacchiere fatte con leggerezza, né si aspettavano da lui umorismo e battute divertenti. I robot, esattamente come lui, si basavano su cose pratiche e reali, sui fatti piuttosto che sulle parole.
    (Forse era vero quando dicevano di lui che in un'altra vita, probabilmente, era stato a sua volta un androide; non se ne sarebbe stupito molto.)
    Fatta questa premessa, forse, verrà più facile comprendere perché al «in realtà, non stavo parlando.» di Hunter, si ritrovò a rispondere con un'occhiata altrettanto confusa lanciata oltre lo schermo dello smartphone: chi stava parlando? Lo sguardo scuro del Kang saettò a destra e a sinistra più volte, nella sua testa l'ipotesi che magari il collega stesse rispondendo a qualcun altro.
    Poi, come un Internet Explorer qualunque, capì.
    «No, intendevo: cosa mi racconti.» Colpa sua, probabilmente non parlava inglese così bene come credeva.
    O forse la colpa era di entrambi perché Hunter, sotto certi aspetti, era un po' come Kyle ― poco incline alle small talks e decisamente più a suo agio in mezzo a corpi che non potevano rispondere, né tantomeno fare domande.
    A Kyle piaceva fare domande; ma dipendeva dal genere.
    Si sentì in dovere di chiarificare quella appena rivolta al ragazzo, però, poiché era chiaro che qualcosa fosse andato perso nella traduzione simultanea dal coreano all'inglese; e infatti, poco dopo, anche Hunter sembrò illuminarsi.
    «In realtà niente di ché.» Non si reputava una cattiva persona, Haeil, ma di certo era riservato e poco curioso di scoprire la vita e le passioni della gente ― non per cattivera, appunto, o per mancanza di interesse (che, comunque, scarseggiava: gli esseri viventi erano interessanti solo fino ad un certo punto!) ma più semplicemente per il fatto che nella sua testa non c'era spazio per niente altro che non fossero i suoi progetti.
    Poteva anche sforzarsi di stare ad ascoltare la gente, ma era più forte di lui e semplicemente non immagazzinava le informazioni ricevute: arrivavano alle sue orecchie già pallide e prive di contenuto, scivolandogli addosso con estrema facilità. Dimenticate ancora prima di atticchire davvero.
    Del discorso del mago aveva seguito si e no un terzo, ancora alla ricerca di una soluzione al suo problema, perciò si stupì di se stesso quando si ritrovò, suo malgrado, a rilasciare un «oh» appena sussurrato, le spalle un po' più dritte e l'espressione meno persa nei meandri dei suoi ragionamenti.
    Morti che ravvivavano l'atmosfera? Doveva per forza chiedere «in che senso?» nella speranza che la risposta somigliasse a qualcosa sulla linea di "in realtà non erano mai morti". Sarebbe stato un vero plot twist.
    «Però è divertente, soprattutto quando i risultati non sono quelli che ti aspetti.» Su quello poteva concordare: al Kang piaceva particolarmente scoprire qualcosa di nuovo e accidentale durante i suoi esperimenti o studi, ancora meglio se aprivano le porte a nuove emozionanti possibilità.
    Se invece si rifilavano fallimenti, rovinavano la sua giornata.
    (Per sua fortuna non credeva in quella bruttissima parola, Haeil, ma solo nella possibilità di fare di nuovo, e meglio!, qualcosa venuta male.) (Questione di punti di vista, suppongo.)
    In fin dei conti, si ritrovò a pensare addentando distrattamente una patatina, non erano poi così diversi i loro lavori: uno si occupava di corpi morti, l'altro di corpi non vivi; praticamente la stessa cosa.
    Erano simili sotto quel punto di vista.
    E anche sotti altri, a ben pensarci.
    Proprio per questo, ipotizzò il sudcoreano, non avevano mai parlato granché nel corso del tempo, limitandosi allo stretto indispensabile per questioni di resistenza; entrambi sapevano (e volevano) rimanere al loro posto, sulle sue.
    Era piacevole rendersi conto che al mondo esistevano ancora persone come lui: (introverse) riservate.
    «Tu? Su cosa stai lavorando ultimamente?» Questa la ragione che lo spinse, nonostante tutto, a staccare davvero la mente dal problema alla mano e dedicare qualche minuto alle chiacchiere con Hunter: rispetto reciproco tra soci di Riservatezza.
    «Mah, poche cose.» In realtà erano un sacco di cose ma non tutte argomenti di conversazione adatti ad un luogo affollato come il Wizburger. «Principalmente sto lavorando a nuovi prototipi di scopa per special» un argomento che non era certamente passato in sordina nel mondo magico, quello dell'introduzione degli special nel campionato scolastico inglese: era stato un successo? un fallimento? boh, a Kyle interessava ben poco del gioco in sé, o di quello che rappresentava un cambiamento così grande nel panorama inglese. A lui interessava la parte pratica, ovvero le scope messe a punto dal laboratorio che aveva aperto con Zac (e con JD, prima che quest'ultimo diventasse un ricercato di fama internazionale).
    Si strinse nelle spalle, e prese un'altra patatina. «Più qualche progettino personale, sai.» Per far passare il tempo, come se ne avesse di libero da ammazzare.
    E niente, questo è quanto: vi avevo già avvisati che Kyle non fosse esattamente il tipo di persona ideale per intrattenere conversazioni leggere, ma eh, ci si prova.
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