Era estremamente semplice far innervosire Elwyn, toccare uno dei suoi tanti nervi scoperti e lasciare che il suo sangue ribollisse per ore, se non giorni, nelle vene mentre la sua mente restava incastrata su quell’unica parola fuori posto in un discorso che andava avanti da diversi minuti.
Non importava che quel fatal errore potesse essere stato commesso in una conversazione ben argomentata, in uno scambio proficuo di opinioni o addirittura in una dissertazione scientifica riguardante i buchi neri dell’universo, bastava un solo termine o una minima espressione facciale a far precipitare tutto.
Per questo motivo, quando sentì il suono della risata del mercenario accompagnare la sua battuta, ne fu sorpresa. Anzi no, ne fu piacevolmente sorpresa. Uno di quei momenti più unici che rari, reso ancor più speciale dal fatto che l’Huxley avesse scelto di stare al gioco e non di fare un passo indietro, chiudere la porta e andare via.
Inclinò la testa di lato, studiando la figura dell’uomo mentre sorrideva con lui e domandandosi se davanti a lei ci fosse una copia del metamorfo o se fosse quello vero. Era sul punto di chiedergli se si sentisse bene o se avesse bisogno di contattare un Guaritore, ma sarebbe stato troppo. Non aveva ancora appreso fino a che punto le fosse possibile tirare la corda e giocare con le paranoie dell’uomo, quanto a fondo alle sue frecciatine fosse permesso di scavare in quella corazza che l’uomo aveva costruito attorno a sé.
Erano passati quasi tre anni dalla famosa scommessa che aveva portato l’ex Corvonero a esibirsi al Lilum, eppure sentiva che la personalità dell’uomo era un territorio ancora completamente inesplorato, più simile a un campo minato che a un caratteristico sentiero di montagna, dove addirittura venivano fornite tutte le indicazioni per proseguire in modo sicuro.
Elwyn non aveva un libretto di istruzioni, non c’era uno schema logico o razionale da poter seguire o tale da poter prevedere ed evitare eventuali passi falsi. Poteva esplodere da un momento all’altro e spazzare via tutto quello che avevano costruito fino a quel momento.
Un occhio esterno avrebbe avuto diversi elementi per insinuare che, in realtà, non c’erano stati progressi nel loro non—rapporto, che oltre all’ambito lavorativo nessuno dei due poteva realmente dire di conoscere la persona che avevano davanti, che alla base di tutto c’era una relazione di convenienza basata sullo scambio di informazioni e transazioni di denaro. Ciononostante, sebbene fosse irrilevante negare o confermare determinate osservazioni, per quanto la riguardava, c’era un intero linguaggio composto da micro-segnali che era stato completamente e interamente stravolto.
Svetlana non era ancora in grado di leggere Elwyn, eppure credeva di essere sempre più vicina al farlo e lo stesso poteva dire l’uomo di lei. Riusciva a comprendere l’umore dell’altro dalla postura delle spalle, dalla tensione della linea delle labbra, da quanto fosse pronunciata o meno il profilo marcato dalla mascella. Iniziava ad essere in grado di cogliere una potenziale situazione di pericolo dalla rigidità del corpo altrui, da come passava le dita tra i capelli, da quanto era bassa e profonda la sua voce. Tutti piccoli dettagli, spesso insignificanti, che le permettevano di fare più o meno pressione, di osare con una battuta tagliente o di posare momentaneamente le armi e riprogrammare le mosse successive.
Provare a conoscere Elwyn poteva essere un’attività sfiancante – e il più delle volte lo era -, ma le piaceva e rendeva quasi tollerabile il tempo trascorso insieme. O almeno questa era la bugia che amava raccontarsi, perché no, i momenti con il co-proprietario del SUB non erano solo tollerabili ma nella maggior parte dei casi anche gradevoli e, talvolta, divertenti.
Non lo avrebbe ammesso, non ad alta voce, benché meno all’uomo che aveva davanti in quel momento, a quella particolare e unica versione di Elwyn, così diverso da quello a cui i rotocalchi e i giornali di gossip avevano abituato il mondo magico.
“Sempre.” Confermò con un’alzata di spalle, quasi fosse scontato il suo interesse per tutto quello che le accadeva attorno. La verità era ben altra e nascosta sotto strati di orgoglio che non era disposta a sollevare, che coprivano e seppellivano la terribile consapevolezza che dell’ex Arpia le importava. No, non per lavoro che svolgeva per lei e che le faceva fruttare ingenti guadagni, non perché decriptarlo fosse uno dei suoi passatempi preferiti, ma perché… e questo era un punto che difficilmente avrebbe ammesso apertamente, ad alta voce o anche solo nei suoi pensieri, era Elwyn. Semplicemente Elwyn. E proprio per tale motivo non era il caso di affezionarsi troppo. Non era nella sua natura, non era da lei, non faceva parte di quel ruolo di regina dei ghiacci che aveva sapientemente costruito.
Senza contare che non poteva permettersi di perder tempo dietro sciocchezze simili, quando era palese che dall’altra parte, non ci fosse lo stesso patetico interesse.
Non era mai stata una ragazzina, non come le altre almeno, e non lo sarebbe certo diventata all’alba dei suoi ventisei anni.
“Quarto anno di fila?” Domandò lasciandosi andare a una risata incredula. “Dopo il tentativo miseramente fallito con un ministeriale e dei dinosauri, credo ci abbia rinunciato. Un appuntamento sempre più movimentato dell’anno precedente ma…” Scosse piano la testa, fingendo quanto tutte quelle non attenzioni dell’Oblinder l’avessero ferita. Reputava gli organizzatori dell’Oblinder abbastanza intelligenti da mollare il colpo, quindi era abbastanza tranquilla che anche quell’anno non si sarebbero fatti vivi, lasciando così inalterata la sua fuga di compleanno.
“Non che questo per te sia mai stato un problema.” Si poggiò alla scrivania, le mani ferme sulla superficie a sorreggere il resto del corpo, mentre osservava i movimenti studiati dell’ex Corvonero. Non aspettava una risposta alla sua affermazione, il conto aperto dell’Huxley – e ancora non saldato – parlava da sé. Ok, nel periodo in cui era impegnato con l’allestimento del SUB le sue visite si erano fatte più sporadiche, ma non era mai stato il tipo da rifiutare (o non reclamare) un bicchiere di whiskey o un cocktail ghiacciato. “Non sei il tipo da disdegnare un corpo scoperto.” Non solo per la completa e totale assenza di pudore, per le bravate che gli erano costate un’intera carriera o per le diverse avventure che lo avevano visto protagonista alle feste di capodanno, quanto per la sua mancanza di filtri, per quel desiderio di poter arrivare alla vera natura delle cose e, forse, anche di sé. Portò lo sguardo sul busto dell’uomo mentre si liberava del maglione, soffermandosi indisturbata per qualche secondo sugli ampi pettorali, prima di seguire con particolare attenzione il movimento delle braccia, notando e apprezzando particolarmente come i muscoli si flettevano sottopelle. “Sicuro di non voler tentare un provino?” Domandò con un sorriso, una velata ammissione su quanto il fisico dell’Huxley potesse essere abbastanza in forma per i suoi gusti e non solo per quelli del suo locale. Sulle doti da ballerino ci sarebbe stato parecchio da lavorare, così come sulla sua personalità irruenta e poco adatta a trattare col pubblico, ma c’era altro, molto altro in realtà, che non era decisamente da scartare. Spostò le iridi chiare sui vestiti riposti meticolosamente sulla spalliera del divano, sollevando piano un sopracciglio. “Anche se sono molto più curiosa di sapere cosa potrebbe accadere se facessi accidentalmente cadere il tuo maglione a terra.” Incrociò le braccia al petto, picchettando piano con le dita la punta del mento. In realtà aveva un’idea ben precisa di quello che sarebbe successo, soprattutto del volo che avrebbe fatto il mercenario fuori dal suo locale qualora avesse deciso che la soluzione più pacifica a quell’imprevisto fosse sfasciarle lo studio, ma quelli erano solo dettagli marginali, di poco conto.
“Un Dom Pierre Pérignon Rosé del ’92? Oh Elwyn, questo champagne non è un furto. Non potrà mai esserlo.” Si avvicinò all’uomo mentre estraeva la bottiglia dalla borsa magica, riconoscendo la tipologia di bollicine solo dal particolarissimo packaging nero con le striature rosate. Glielo sfilò delicatamente dalle mani, lo sguardo che passava incredulo dal maggiore a quel piccolo tesoro che non tutti potevano permettersi e che ancor meno palati avrebbero potuto comprendere. “Una scelta raffinata, di buon gusto.” Che cozzava così tanto con la persona tirchia e non propriamente elegante che aveva davanti. “L’unico crimine che si potrebbe commettere, è non berlo ghiacciato.” Continuò osservando il metamorfo aggirarsi nel suo studio come se fosse a casa propria, con una naturalezza e disinvoltura che nessun altro, a parte lei, avevano in quell’ambiente. Ma non aveva abbastanza tempo per soffermarsi su quei dettagli, troppo impegnata a cercare di capire esattamente cosa stesse succedendo, quali fossero le reali intenzioni dell’Huxley, soprattutto perché nessuno sarebbe entrato a mezzanotte dalla porta alle sue spalle, nessuna esibizione si sarebbe interrotta per augurarle un buon compleanno. In queste occasioni, quando i protagonisti erano i suoi dipendenti, erano soliti organizzare qualcosa prima l’apertura del Lilum: una torta, una bottiglia da stappare e qualche pensierino di gruppo. Non si lasciava mai coinvolgere troppo, non usciva quasi mai dalla muta di Svetlana, restando per lo più sulle sue, mostrandosi generosa con la quota da versare o offrendo uno dei loro liquori più pregiati. Cercava di cambiare le disposizioni in sala affinché il festeggiato o la festeggiata avessero la possibilità di prendere mance più cospicue. Non si univa alle celebrazioni più dello stretto necessario e non si lasciava trascinare dall’euforia collettiva, evitava di mangiare qualsiasi cosa le venisse offerta, limitandosi a partecipare al brindisi prima di re-immergersi nei suoi impegni, di tornare a governare il suo piccolo mondo dall’altro.
Non era più in grado di instaurare legami profondi con le persone. A dirla tutta, questa era una caratteristica che Svetlana non aveva mai avuto. Tuttavia, i suoi ballerini erano anche le persone con cui trascorreva la maggior parte del suo tempo, quanto di più simile ci fosse a una famiglia e lei non poteva usarli, non voleva spremerli per poi gettarli via una volta che non incassavano più abbastanza. Si era impegnata con ogni fibra del suo essere a rendere il Lilum un posto migliore e questo comportava anche che lei scendesse a compromessi con se stessa, con quanto poteva o non poteva mostrare di sé.
Per questo motivo all’inizio pensò semplicemente che Elwyn volesse affidare a lei quella bottiglia perché in grado di apprezzare le note floreali di testa dello champagne, che sarebbero andare a sfumare man mano in profumi più fruttati e agrumati, perché in grado di riconoscere quella precisa annata solo dal sapore denso e corposo del liquido sul palato.
Per essere chi era, non si dava abbastanza credito. In realtà, non si amava abbastanza da poter anche solo pensare che ci potesse essere qualcun altro al mondo così folle da voler vedere cosa ci fosse dietro la sua maschera.
Se non fosse stata distratta dal buonumore di quello che poteva tranquillamente essere considerato membro onorario del Lilum, da quella risata iniziale che le aveva migliorato la serata, dalla semplicità con cui accettava che qualcun altro potesse invadere i suoi spazi, forse ci sarebbe arrivata qualche minuto prima. Forse avrebbe colto il motivo per cui il maggiore era lì quella sera. Ma non voleva pensarci, non voleva correre il rischio di illudersi e di restare delusa, di credere che per l’uomo valesse qualcosa, anche meno di una bottiglia pregiata di champagne.
Eppure una parte di lei non aveva smesso di raccogliere ed elaborare i dati, una parte di lei era ancora abbastanza umana, abbastanza fiduciosa da credere che anche lei meritava qualcosa di bello o di speciale senza dover dare necessariamente nulla in cambio.
E poi il click avvenne. Poco dopo aver assunto un’espressione disgustata alla sola menzione di pannolini. Avrebbe potuto aggiungere altro, avrebbe potuto pungolare l’ex giocatore di Quidditch ancora un pochino, soltanto per il gusto di farlo, semplicemente perché lui glielo permetteva, ma si bloccò diversi istanti, le labbra leggermente dischiuse, le dita della mano strette attorno all’involucro del tappo che stava per rimuovere.
“Oh.” Fu tutto quello che riuscì ad articolare in un primo momento, temporaneamente senza parole, mentre le iridi chiare raggiungevano quelle di Elwyn, cercando nei suoi occhi un’eventuale fregatura. Non sono qui per me. Poteva significare solo una cosa. Erano in due in quella stanza e non era poi così difficile andare per esclusione. Richiuse la bocca, mordendosi piano il labbro inferiore.
Holden a parte, faceva a ricordare quando fosse stata l’ultima volta che qualcuno cui teneva avesse fatto qualcosa per festeggiare il suo compleanno. Non esisteva più per la sua famiglia, faceva fatica a credere che Elwyn, tra tutti, si fosse spinto così in là per celebrare quel giorno.
C’era un’altra crepa che inconsapevolmente stava mostrando al mercenario, un’altra falla in quella maschera soltanto all’apparenza perfetta. Gli stava inconsapevolmente indicando un altro punto dove avrebbe potuto sferrare un colpo per farle del male, se solo avesse voluto farla soffrire.
Quella volta, però, una parte di lei sentiva di potersi fidare di quell’uomo che aveva la capacità di rompere i suoi schemi, di sgretolare a poco a poco quella maschera che non riusciva a non indossare. Una parte di lei voleva concedersi il lusso di non provare paura per quello che sarebbe successo se ogni sua difesa fosse venuta meno.
“Dovresti essere qui per me ogni volta.” Provò a riprendersi da quel piccolo black out, a far ripartire il sistema, sperando che l’ex Corvonero non cogliesse quell’occasione per sfilarle uno dei suoi tanti coltelli per puntarlo lì dove si era appena scoperta, dove si era mostrata vulnerabile. “Ma so di non poter competere con il tuo ego smisurato.” Continuò scartando lentamente la copertura in alluminio, continuando a sostenere lo sguardo dell’altro. “Tuttavia, essendo qui per la sottoscritta…” ripeté indicandosi prima di sedersi sullo schienale del divano e prima che Elwyn potesse cambiare idea “… perché vogliamo festeggiare?”
Non c’era vanità in quelle parole, non c’era boria, non c’era arroganza, soltanto tanta, tanta gratitudine che ancora non riusciva ad esprimere e quella piccola infantile voglia di sentirsi importante, almeno per qualcuno che fosse in grado di vederla.
Seguì il piccolo botto, non troppo forte, quasi discreto, del tappo che veniva liberato dalla bottiglia, tale da farle portare l’attenzione altrove, in lidi più sicuri. Versò lo champagne nei due flûte sul tavolino e ne porse uno a colui che, forse, nonostante la lunghissima lista di difetti, avrebbe potuto considerare almeno un amico, che, nonostante il distacco fisico ed emotivo che si riservavano l'un l'altra, avrebbe voluto quanto meno abbracciare in quel momento, così, per iniziare.
“Lascio a te il discorso. Stupiscimi.”
O, come sarebbe stato il caso di dire, continua a stupirmi.