«ce l’ho già un lavoro» «come fai a chiamare quello lavoro…» In quella torrida mattinata d’agosto, Jekyll Crane Winston non aveva le forze necessarie a (vivere) sollevare il capo dalla sua tazza di Cheerios per volgere a Nice un sopracciglio inarcato e lo sguardo più offeso che potesse mettere su. Avrebbe voluto, ed avrebbe dovuto, ma aveva dormito troppo poco – e troppo male – per concentrarsi su altro, persino sulla Hillcox che parlava male della sua carriera da rapper. Versò due dita di whisky nel mix di latte e cereali, spingendo quest’ultimi più a fondo: la colazione dei campioni, un metodo efficacissimo per fare pace con il troppo alcol della sera (e della notte, e delle prime luci dell’alba) precedente e per iniziare al massimo la giornata; aveva bisogno di carburante, il pirocineta, per essere così… così. «mi stai ignorando?» «mi sono appena svegliato» «ma è mezzogiorno…» «non giudicarmi, sono rientrato in mattinata.» Attese qualche minuto, godendosi il silenzio interrotto unicamente dal proprio masticare anellini di miele croccanti, per poi ritenere insopportabile tutta quella quiete che s’era andata a creare. Non era in grado, il Daniels, di esistere senza avere un costante rumore a ronzare nelle orecchie impedendogli di pensare troppo; aveva i suoi metodi per tenere la mente occupata, ma si rendeva conto di non poter passare ventiquattro ore al giorno sotto i fumi dell’alcol o le lenzuola di qualcuno. «e poi, cosa vuoi che faccia?» si strinse nelle spalle, ancora senza cercare gli occhi chiari dell’amica – che, lo sapeva, per interessarsi così spassionatamente alla sua vita lavorativa doveva o avere un proprio fine, o tenerci davvero tanto. Cosa che non avrebbe mai ammesso, e che forse nemmeno era così vero: sosteneva di capire le persone, Jek, ma raramente sapeva davvero cosa dicesse loro la testa; l’unico che poteva dire di conoscere davvero, era suo fratello. «insomma…» guardami: sono un buono a nulla, no? «il mio punto forte è la musica -» «ma non sta andando bene.» «non sei d’aiuto -, e rompere le palle a Hyde.» sottinteso, ancora, ma che non aveva bisogno di dire alla ragazza: non sono bravo in altro. Aiutava Ethan con i draghi, sì, ma quella era una passione: non avrebbe mai pensato di chiedere soldi all’Huxley per parlare con i rettili quando capitava di lì. Al San Mungo avrebbe fatto solo danni, così in qualsiasi livello del Ministero. Aprire un’attività sarebbe stato anche peggio, avrebbe fatto fallire non solo quella ma probabilmente l’intera economia del mondo magico inglese – come, non ne aveva idea; sapeva solo di esserne in grado. Era un portento. «se conosci un lavoro in cui potrei applicare queste mie qualità, dimmelo.» «…» «…» «…» «…» «…» «oh mio dio, ho un’idea.» «oh no.»
Oh sì. O almeno, idealmente. Perché se si era deciso, mesi prima, a fare un colloquio come addetto alla security, era nell’ottica di passare il tempo con sua sorella e sua cugina perlopiù nel secondo livello del Ministero, a spiare Jack e ad assillarlo con la sua presenza non solo a casa, ma anche in ufficio. E a controllare stesse bene, che non si esponesse troppo, che non rischiasse nulla. Non aveva idea del fatto che avrebbe dovuto fare la spola tra gli uffici governativi, l’ospedale magico ed Hogwarts. Non erano quelli gli accordi. Erano esattamente quelli, gli accordi. «eddai, mabe.» Zittì la voce della sorella nella sua testa – che era sempre stata un po’ la voce della propria, inesistente, coscienza, insieme a quella di River –, scansando un paio di studenti del primo anno lungo il corridoio del terzo piano del castello. Ma nonostante non fossero quelli gli accordi, checché ne dicesse la voce di sua sorella, aveva imparato in fretta e furia a adattarsi a quell’imprevisto. Insomma, stare nella scuola magica aveva i suoi vantaggi: aveva già trovato a chi rompere le palle tra gli adulti, con chi fare comunella, gli studenti preferiti con cui andare a farsi le canne di nascosto (ma anche professori, docenti, altri colleghi di security, gente che passava lì per caso… vabbè dai, chiunque…). Soprattutto, volete mettere l’opportunità di fare stalking alla sua famiglia? Probabilmente Maeve già si stava pentendo di averlo messo al mondo, non avendolo nemmeno ancora programmato («non sei stato programmato, papà dice sempre che sei uscito per errore» cit. qualsiasi figlio dei Crane-Winston, ad un certo punto della propria esistenza), dopo tutte le volte che aveva fatto irruzione nella sua aula per portargli qualche studente che aveva rotto le palle in giro per la scuola, o per controllare che nessuno stesse facendo danni lì dentro. Amalie ok, ormai si era abituata alla sua invadenza anche in quella vita, immaginava non si accorgesse nemmeno della sua presenza quasi costante nella stanza degli psicomaghi. Flow e River – o Oscar e Arturo, come preferivano – prima o poi sarebbero scappati da quella scuola senza diploma, per fuggire dai suoi pedinamenti. Era tutto bellissimo. Peccato che dovesse anche lavorare, una vera rottura di coglioni. «ehi, coglioncelli» se mamma Maeve lo avesse sentito, gli avrebbe dato uno scappellotto tra capo e collo: quasi poteva sentire la sua voce (minchia, ma quante voci sentiva) (tante) (magari prima o poi si sarebbe fatto controllare) (nella prossima vita) dirgli di scusarsi con quegli studenti. Prese per la collottola uno dei due ragazzi, quello che aveva trovato in una posizione di supremazia, sollevandolo con fin troppa facilità per appenderlo al muro – ma con delicatezza: vabbè che vabbè, ma mica voleva correre il rischio di fargli male –, e con un cenno del capo invitò l’altro – col naso evidentemente rotto e sanguinante – ad andarsene via da lì. «corri in infermeria, prima vai e meno farà male rimetterlo a posto» suggerì, quando notò un’iniziale reticenza del ragazzo a muoversi. Da una prima occhiata alle divise dei due, era facile intuire che quello col sangue sulla camicia voleva assicurarsi l’altro venisse punito nell’immediato. Peccato che Jekyll non volesse. Mise giù lo studente solo quando fu sicuro che il Grifondoro fosse uscito dal corridoio del piano infestato, sistemandogli con delle poderose pacche le pieghe che gli aveva procurato sui ricami violacei. «non ho iniziato io…» «ma hai finito tu, no?» gli prese la faccia tra le dita, e avvicinandosi col viso prese a studiarlo smuovendolo tutto. «e non hai neanche un boh… un graffio, un livido… che tristezza, martin» perché sì, il pirocineta conosceva il coglioncello in questione: era un ragazzo un po’ esuberante ma non un attaccabrighe, fumantino ma tutto sommato un bravo ragazzo. «possiamo parlarne un’altra volta di quello che è successo, mh?, ma la prossima che ti becco sopra un mago ti porto in sala torture» sollevò un sopracciglio, smorzando subito le parole a fiorire sulle labbra dischiuse. «oh, lo sai che non voglio, ma meglio che ti ci porti io che non la queen. a meno che tu non abbia kink strani, non ti giudico – anzi» alzò le mani. «ci sta di brutto, zio. ora sparisci e vai dalla winston a spiegarle quello che è successo.» Attese di vedere il fumo sotto i piedi del ragazzo, prima di buttare fuori l’aria e rilassarsi. Non gli piaceva fare la persona seria, non ci credeva nessuno: poteva farlo per una volta al giorno e basta. Con gli studenti poteva ancora un po’ funzionare, non lo conoscevano, ma prima o poi avrebbe perso di credibilità anche con loro. Fortuna che o si diplomavano, o morivano; c’era un continuo riciclo lì dentro. Troppo bello. Mio dio aiuto è orribile. «ah, credo di meritarmi una pausa» chissà quando aveva iniziato a parlare da solo, assecondando le voci nella sua testa. Si sentiva un po’ il personaggio di un anime che deve commentare qualsiasi cosa stia facendo ad alta voce. Nemmeno si guardò attorno, assicurandosi non ci fosse più nessuno, prima di recuperare dal taschino della giacca una sigaretta poco legale ed intrufolarsi in un’aula aperta: chi poteva mai esserci a zonzo alle undici del mattino per il piano infestato? Nessuno. «julian???» Julian Bolton non era nessuno. «bello, ti sei perso?» domande lecite. Spinello tra i denti, impunito a pendere dalle labbra carnose del ventottenne, fece vagare lo sguardo chiaro e confuso per tutta l’aula, prima di concentrarsi sul portiere dei rosso-oro. Indicò prima lui, poi il mucchio di abiti, poi di nuovo lui, infine si grattò la radice del naso. «e sei… nudo… ok…» e, laddove una persona normale avrebbe lasciato la stanza e concesso al giovane spazio per ricomporsi, il Crane-Winston, chiuse la porta alle sue spalle. «aspetta… aspetta!» aveva capito tutto. «è un appuntamento segreto con joni, non è vero?» perché certo, sapeva tutto di tutte le ship di Hogwarts: fategli causa. «eh???» Non aveva capito un cazzo. |