another lie from the front lines

#nilbie

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    berenice hillcox
    Si era sempre ritenuta bravissima a mantenere i segreti, Nice Cox-Hill, per lo meno quando si trattava dei suoi segreti; quelli altrui rientravano in una categoria diversa, a parte, e non aveva nei loro confronti lo stesso riserbo e la stessa apprensione. Ma i suoi... Ah! Si vantava di essere forte, che la sua mente fosse una fortezza invalicabile e che il suo autocontrollo non vacillasse mai; sapeva quanto difficile fosse farle ammettere qualcosa e che, piuttosto che dire la verità, si sarebbe tagliata la lingua con un Diffindo.
    I suoi segreti, le piacevano.
    In verità, le piacevano un po' tutti: anche essere a conoscenza di quelli altrui le dava, in un certo senso, la sensazione di avere un potere, di poter decidere quando e come renderli di dominio pubblico, o chiedere favori in cambio del suo silenzio.
    Era sempre stata così, Nice, pronta ad origliare le conversazioni di fratelli e cugini e poi ricattarli con quanto scoperto. E le cose non erano cambiate di certo una volta abbandonato il futuro e aver vestito i panni di Berenice Hillcox -- dopotutto nulla, o quasi, era cambiato in lei a seguito del viaggio nel tempo, quella missione disperata di chi non ha nulla da perdere. Una disperazione, poi, che l'aveva portata a fare cose inconcepibili per la Nice che fu, tipo ad esempio tornare tra i banchi di scuola, per dirne una, o cercare rapporti che mai, nel suo passato, avrebbe azzardato; una disperazione che, per certi versi, l'aveva anche smussata -- forgiata.
    Tuttavia, non aveva perso di vista chi era e chi sarebbe diventata: la migliore tra i migliori, un'icona di moda, la Vivienne Westwood del mondo magico, la personificazione dello StileTM. Quello era il suo destino -- e sapeva che per arrivarci, avrebbe dovuto rimboccarsi le maniche.
    Non bastava lavorare per la Jerarci, e anche se li ringraziava (mai verbalmente) per l'opportunità data, sapeva non fosse abbastanza: le serviva un lavoro stabile, un'entrata che le permettesse (di pagare l'affitto ad Hyde) di poter mettere via i galeoni necessari per aprire, prima o poi, il suo atelier; arrotondava qua e là con delle creazioni esclusive per figure di spicco nella società magica (ah, zia Penn...) ma nemmeno quello era sufficiente, era un buon modo per mettere il suo nome la fuori e farlo finalmente circolare, sulla bocca di ricchi maghi sempre alla ricerca di qualcosa di unico, ma a conti fatti non pagava le bollette.
    Certe volte (facciamo anche: molto spesso) sentiva la mancanza degli anni d'oro della sua infanzia, quando i soldi di mamma Zoe avevano reso tutto più facile e ogni suo capriccio veniva assecondato senza problemi; quelli erano i momenti in cui, più di ogni altra cosa, sentiva lo sconforto crescere in lei e la sensazione di non farcela faceva scattare automaticamente quella molla che, invece, le ricordava, quasi fosse un monito: a qualsiasi costo.
    Avrebbe fatto qualsiasi cosa pur di vedere quel futuro dispiegarsi davanti ai suoi occhi, così come l'aveva immaginato -- possibilmente, prima dei trent'anni.

    Non avrebbe mai puntato sul Ministero come prima scelta, né come seconda o terza -- ma in una società come quella, che altre opzioni le rimanevano? Tornare ad Hogwarts come assistente era fuori discussione, e di curare ossa rotte o malattie infettive in quel del San Mungo non ne aveva la minima intenzione; tutto sommato, il ministero inglese era davvero il male minore, nonostante le gerarchie e le infinite persone a cui dover sottostare, piccola nel suo insulso ruolo di dipendente. Così, quando Scott le aveva proposto di occupare il posto rimasto vuoto al quarto livello, ufficio censori, Nice aveva stretto le labbra in un'espressione poco entusiasta ma aveva accettato lo stesso -- e lo aveva persino ringraziato (sì, a parole) quando il ragazzo le aveva fissato un colloquio col Capo Censura, pochi giorni dopo.
    Si ripeteva che poteva farcela, poteva presentarsi ogni giorno a lavoro e fingere che quello non andasse contro ogni singolo insegnamento che i suoi genitori avevano cercato di instillare in lei (senza riuscirci davvero); nel (futuro.) passato che Nice aveva vissuto, gli Zomeron si erano battuti (perdendo) per rendere il mondo un posto migliore, libero dall'egemonia ministeriale e dalla dittatura; avevano sognato un mondo dignitoso e vero.
    Onesto nella sua imperfezione.
    E ora lei accettava di vestire i panni di coloro che, per definizione, si facevano carico di decidere cosa fosse giusto rendere pubblico alla società magica e ciò che, al contrario, doveva essere estirpato poiché ritenuto eretico, potenzialmente sovversivo. Faceva quasi sorridere l'ironia della cosa.
    Lei, censore presso il ministero della magia inglese.
    Cameron Hill si stava rivoltando nella tomba.

    Eppure, lo fece: la sua morale era abbastanza grigia da permetterle di non provare eccessivi sensi di colpa per quello che sarebbe diventato il suo impiego quotidiano; inoltre, sempre con un occhio proteso al futuro, immaginava che, un giorno avrebbe potuto chiedere il trasferimento ad un altro ufficio qualora si fosse liberato un posto meno scomodo. Confidava che, una volta dentro, sarebbe stato semplice muoversi all'interno del ministero e delle sue cariche.
    Così aveva firmatgo: un contratto che prevedeva ben più di una clausola -- qualcosa di molto diverso dal "non si parla della Jarden" che era rimasto taciuto nel momento in cui aveva firmato con i Jerarci, pochi mesi prima, ma ugualmente inderogabile: un vincolo di segretezza, la promessa di non divulgare alcuna delle informazioni che circolavano presso l'ufficio e l'intero reparto.
    Con aria sicura di sé, Berenice Hillcox aveva accettato la piuma e la pergamena offerta dal ministeriale e aveva sorriso, educatamente ma con aria impassibile, apponendo la sua elegante firma sulla linea tratteggiata.
    Era fatta.
    Era custode di segreti indicibili -- una volta tanto, avrebbe dovuto imparare a custodire anche quelli altrui.

    «Era ora.» Alzandosi dalla panchina che aveva occupato nell'ultima mezz'ora, Nice sistemò la gonna a balze e la maschera di impazienza che, infondo, non era poi così finta: il fatto di aver dovuto aspettare Albie per ben trenta minuti in più del dovuto non aveva migliorato affatto il suo umore. «Dovresti comprarti un orologio che funziona con il primo stipendio vero Non aveva idea di quanto fruttasse il lavoro di (tirocinante) magiavvocato -- probabilmente non abbastanza ma hey! Nice quasi apprezzava quella particolare svolta nella loro vita: i cugini Cox finalmente erano indipendenti e avevano un'entrata fissa (una e mezzo, nel caso di Nice) che fosse loro e solamente loro. Squadrò il biondo cugino facendo poi scoccare la lingua contro il palato. «Ma prima inizia con l'offrirmi il pranzo, che ne dici.» Non era una domanda e, dandogli le spalle, si diresse verso l'ascensore del quarto livello. Sulle porte dorate vide il riflesso deformato della sua figura, e di quella spilla con scritto "Visitatore" che le aveva garantito l'accesso al Ministero per presenziare al colloquio e firmare il nuovo contratto. oh boi.
    Il ding del campanello che segnava l'arrivo del mezzo, la fece trasalire: doveva proprio parlare con Albie, non gli aveva neppure detto di avere un colloquio fissato per quel giorno. Tanto meno per l'ufficio censure. «Albie, non ho tutto il giorno, andiamo.» In quel periodo (che, onestamente, andava avanti da mesi) i segreti tra loro erano aumentati a dismisura e se c'era una cosa che a Nice non andava particolarmente a genio era non sapere per filo e per segno quello che succedeva nella vita dei suoi familiari e Albie era l'unico che le rimaneva. Voleva -- no, doveva sapere quali novità ci fossero nella vita del cugino, ma era consapevole che, per farlo, avrebbe dovuto vuotare lei stessa il sacco. Che, più che un sacco, nel suo caso era una borsetta elegante appositamente incantata con un Incantesimo di estensione irriconoscibile.
    Poteva iniziare da quella innocua e stupidissima novità, dopotutto, no?
    Solo una volta all'interno dell'ascensore, dunque, fissando dritta davanti a sé e mai, mai, in direzione del cugino, finalmente parlò. «Ho mentito -» sai che novità «- quando ho detto che sarei venuta solo per il pranzo. In realtà avevo un colloquio. E mi hanno presa.» Non che avesse mai avuto dubbi a riguardo, quando si metteva in testa una cosa Nice Hillcox non ammetteva rifiuti o insuccessi. «A partire da lunedì lavoreremo sullo stesso piano, non sei felice?» Lei sì tantissimo, e lo si capiva dall'aria deadpan con cui aveva parlato, rubata direttamente dal repertorio #hyllie (#ally? #hyllister? come vi chiamate, dai.)
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    Adalbert Behemoth
    Bertie, nella vita, di problemi ne aveva tanti. Come tutti, certo, sebbene i suoi, naturalmente, fossero molto più importanti e consistenti di quelli altrui. Grandi, piccoli, eterni o passeggeri che fossero, ce n’era però uno che, da sempre, era molto più importante degli altri. Era molto sentito, cosa ovviamente strana, per il ragazzo. E, ancora più sconcertante, era vero.
    Il sentito, grande, vero problema di Bertie era, da sempre, uno solo: la noia. Tutto, a lungo andare, lo annoiava. Chiaramente le persone prima di ogni altra cosa, ma questo era quasi scontato. Lo annoiava qualsiasi passatempo, ma anche qualsiasi attività ben più complessa. A tratti, per non dire sempre, era la vita stessa ad annoiarlo.
    Sebbene portasse questa sua caratteristica ben appuntata sul petto, per sfoggiarla davanti a tutti con estremo orgoglio, come praticamente in ogni cosa Albert mentiva. Agli altri e a sé stesso. Quella noia che provava verso il mondo era come un soffuso malessere, per lui, che non se ne andava mai. Un ronzio di sottofondo che non spariva e che, anzi, quando rimaneva solo con i suoi pensieri, finiva per diventare quasi assordante. Quasi pari alla noia stessa, insomma. Tutti, persino le persone più stupide e infime del mondo, avevano uno scopo, una passione da inseguire. Tutti tranne lui. Sebbene si ripetesse e, soprattutto, ripetesse a chi lo circondava che questo suo essere sempre annoiato, in realtà, fosse un grande, enorme vantaggio, un modo per non chiudere mai del tutto nessuna porta, per avere infinite possibilità, Bertie provava esattamente il contrario. Lui, di possibilità, non ne aveva nemmeno una. La noia lo soffocava, rendendo tutto indifferente. Rendendo lui, soprattutto, indifferente.
    E allora perché ne soffriva? Questo non riusciva, o forse non voleva, spiegarselo. Era sempre stato così, fin da quando ne aveva memoria. Una nuova attività, di qualunque tipo fosse, all’inizio lo prendeva così tanto da fargli dimenticare tutto il resto; ben presto, ovviamente, vi eccelleva, e a quel punto ecco che… subentrava la noia. L’unico modo per non percepirne i morsi, quindi, era passare alla mania successiva. In un ciclo senza fine.
    Si sentiva vuoto.

    Tutto era sotto controllo. O meglio, era stato sotto controllo. Purtroppo o per fortuna non aveva mai davvero avuto occasione di interrogarsi sul dopo. Prima era ancora troppo giovane, poi era successo l’irreparabile, e infine si era ritrovato catapultato, per sua volontà, certo, in quel passato che ora era il futuro. Tornare a Hogwarts era stata una necessità, non solo un capriccio; anche quest’ultimo tassello l’aveva allontanato, ancora una volta, dal rischio di perdere il controllo.
    Ma ora era finita. Ora era nel mondo. Letteralmente. Un mondo dove tutti si affaccendavano a essere qualcuno, o quantomeno a provarci. Bertie, lo sapeva, non ne avrebbe avuto bisogno: qualsiasi cosa gli sarebbe riuscita naturale. Sarebbe stato perfetto, come sempre. Il solo pensiero, però, gli faceva salire la nausea. Doveva ancora cominciare, ma già si sentiva annoiato. Dal futuro… e da sé stesso.
    Così, come sempre, in quella prima, vera estate di libertà – che ai suoi occhi, però, sembrava più che altro un carcere –, Albie aveva indossato la sua maschera preferita, quella che gli calzava a pennello. L’apatia, insieme al sarcasmo e alla saccenteria, era la sua seconda natura e nessuno osava mai metterlo in discussione. Eppure una piccola, microscopica parte di lui desiderava che succedesse. E l’unica che avrebbe potuto accorgersene era lei, Nice.
    Ma non era successo. I giorni erano passati, uno dopo l’altro, e la (irritante) voce di sua cugina non si era mai fatta sentire. O almeno, non su quell’argomento. Nice parlava e parlava e parlava, ma mai di lui. O di sé stessa. Nascosto dietro la sua maschera apatica, Bertie aveva cominciato a sentirsi offeso… e ferito. Sempre pronti a mentire al mondo esterno, tra loro si erano sempre detti tutto, un’abitudine che, dopo il ritorno al passato, non aveva fatto che solidificarsi. O così pensava Albie. Quand’erano davvero cominciati i problemi? Quand’è che avevano smesso di essere… loro?

    Se Nice non voleva più essere parte della sua vita, tanto peggio per lei. Lui aveva cose più importanti da fare. Come trovare un modo per eliminare la causa di tutti i loro problemi prima ancora che diventasse tale. E scoprire una cura. E ribaltare il regime. E tornare nel futuro, dalla loro famiglia. Oh, non vedeva l’ora di costringerla a ringraziarlo! Sapeva quanta fatica le costasse farlo, specie a parole. Ma, una volta che lui fosse riuscito a ottenere tutto quello che si era preposto, Nice non avrebbe avuto via di scampo.
    Però, Bertie aveva bisogno di tempo. E di soldi. La noia sarebbe stata sempre dietro l’angolo, qualunque cosa avesse deciso di fare. Chiuso nella sua apatia, aveva quindi cominciato a sondare i pro e i contro, deciso a trovare il meno peggio. Anzi, in realtà, da valutare, c’era anche un altro fattore. Per quanto sempre sulle sue e pronto a defilarsi, Albie prendeva molto seriamente il suo ruolo nella Resistenza. Ancora si vergognava di non aver potuto partecipare a quello che era successo al Museo Egizio. Doveva rendersi utile. Voleva farlo.
    Quale modo migliore, quindi, se non infiltrarsi al Ministero? Aveva preso in esame ogni tipo di vera carriera, ovvero di tipo intellettuale. Il sogno modaiolo di Nice? Ecco, quello non era un vero lavoro… alla fine la scelta si era ristretta tra tre scapolottine candidate, tutte a loro modo utili alle fila dei ribelli. Storico, censore o magiavvocato erano tutte scelte papabili e comprensibili, nonché adatte al suo cervello sopraffino, secondo la sua modestissima opinione.

    La noia aveva fatto il resto e ora Bertie si ritrovava all’inizio del suo secondo mese di tirocinante magiavvocato. Lo urtava e, soprattutto, lo annoiava profondamente dover avere a che fare di continuo con inutili scartoffie e con una ancora più inutile – e irritante – persona, ma mentre raggiungeva Nice nell’atrio del Ministero camminava a testa alta, fregiandosi ora, invece che dell’apatia, della spocchia che, in molte occasioni, lo contraddistingueva.
    Con una rapita occhiata individuò la cugina seduta su una panchina, quindi indirizzò i propri passi nella sua direzione. «Era ora.» Albie inarcò un sopracciglio e si umettò le labbra, pronto a ribattere, ma Nice fu più veloce: «Dovresti comprarti un orologio che funziona con il primo stipendio vero». «Almeno io uno stipendio vero ce l’ho. E anche un lavoro. Non passo tutto il tempo a ricamare con un angelo del focolare vittoriano. Io lavoro», la rimbeccò con una punta di acidità, stringendosi nelle spalle. Chiaramente, di vero, non c’era niente. Al momento il suo lavoro era noiosissimo e per nulla dissimile alla schiavitù, sia oraria che salariale. E non era nemmeno davvero sua intenzione ferire la cugina. Voleva solo punzecchiarla un po’. Come ai vecchi tempi.
    Quella constatazione gli provocò una fulminea ma pungente fitta al cuore, che si affrettò a ignorare, mentre Nice lo sorpassava pretendendo che le offrisse il pranzo. «Sarò magnanimo solo perché, oltre al mio stipendio vero per il mio lavoro vero, mi danno anche dei bellissimi buoni pasto.» In questo caso era la verità, se non fosse che i suddetti buoni rappresentavano una fetta piuttosto grossa della sua (misera) busta paga. Si accigliò appena, pensandoci, e intanto la raggiunse davanti alle porte dell’ascensore, per poi vederla come… trasalire. Gli sfuggì un mezzo sorrisetto. «Che c’è? Ora che sono un uomo di potere… hai paura di me?», la canzonò, ignorando invece il suo riprenderlo sul non avere tempo. Se c’era, uno tra loro due, che non aveva tempo da perdere, quello era lui: la sua pausa pranzo durava solo un’ora e di certo non sarebbe tornato in ufficio dopo il tirocinante finto biondo.
    Si infilarono nell’ascensore e qui Bertie osservò Nice riflessa nello specchio. Apparentemente aveva la sua solita espressione, quel misto di freddezza e sicurezza dal quale, però, trapelava una punta di malinconica dolcezza, ma… non lo guardava. Non era dei non sostenere uno sguardo. Specie il suo, poi. Di nuovo quella fitta. Di nuovo quel dolore. «Ho mentito -» Rise, seccamente. «Sai che novità», non riuscì a non puntualizzare, sebbene, dentro di lui, una piccola, microscopica scintilla di speranza si accese. «- quando ho detto che sarei venuta solo per il pranzo. In realtà avevo un colloquio. E mi hanno presa. A partire da lunedì lavoreremo sullo stesso piano, non sei felice?»
    Per una volta, Albert Cox - Bulgakov – Wood Adalbert Behemoth rimase senza parole. Fu questione di pochi istanti, qualcosa di impercettibile, per i più, ma per lui fu un’eternità. Nice gli aveva mentito. E ora aveva un lavoro. Sul suo stesso piano. «Potrei vomitare», iniziò. «Non ho ancora richiesto un segretario. Bravi, però, hanno anticipato i miei bisogni», continuò, riuscendo finalmente a sputare fuori qualcosa, con il suo solito tono a metà tra l’apatico e il sarcastico. «Dovrai stare al passo o ti faccio fuori, ti avviso.» E, a proposito di questo, non appena l’ascensore tornò a trillare Bertie si precipitò fuori, giusto in tempo per nascondere alla cugina quel lieve scintillio che gli brillava negli occhi. Non era emozionato, ovviamente. Non gli importava niente.
    «Allora? Non ho tutto il giorno, andiamo», la imitò, sia nel contenuto sia nella voce, girandosi solo dopo parecchi passi, una volta sicuro di aver nascosto quella spia di sentimenti che per un attimo gli aveva attraversato lo sguardo. «E dato che pago, decido io. Andiamo al cinese e… ora mi racconti tutto
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    when the truth is… I miss you.
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    berenice hillcox
    «Almeno io uno stipendio vero ce l’ho. E anche un lavoro. Non passo tutto il tempo a ricamare con un angelo del focolare vittoriano. Io lavoro» «Aw, dunque pensi che io sia un angelo. Vedo che ti è rimasto un briciolo di intelligenza, allora.» Non gli rivolse nessuno sguardo, ma sorrise di nascosto, mentre si dirigevano insieme agli ascensori e lasciava che il cugino infame denigrasse il suo lavoro dei sogni, immaginandosi, per ripicca, Albert che incontrava una Jericho Karma Lowell e veniva, inevitabilmente, scuoiato vivo. Ah, bellissimo.
    In attesa del mezzo ministeriale, lasciò cadere nella conversazione un «dovresti davvero conoscere il mio capo.» Non le dispiacerà utilizzarti come bersaglio semi-mobile. Il sorriso si allargò sulle labbra della ex Serpeverde, gustandosi la scena di Al che incontrava il suo boss.
    E sì, la considerava ancora il suo boss (un po' per scherzo, e un po' seriamente) perché, a conti fatti, non aveva abbandonato i Jerarci: poteva fare entrambe le cose, Nice Hillcox, e dedicare alla loro collezione le stesse attenzioni riservate fino a quel momento. Non aveva paura di strafare, non era il genere di persona che bruciava in fretta sotto il peso di troppe responsabilità e troppi doveri: aveva imparato sin da giovanissima come destreggiarsi tra diversi impieghi, tutti che richiedevano la sua totale attenzione, e quei due nuovi lavori non erano tanto più dispendiosi, a livello di energie, di molti altri avuti in precedenza. C'era molto della sua storia che Nice non raccontava, un passato di cui non andava molto fiera e che ci teneva rimanesse, appunto, passato: il viaggio nel 2020 era stato il suo nuovo inizio, il “fresh start” di cui aveva avuto bisogno.
    Lei e Albie, entrambi.
    E proprio al biondo rivolse uno sguardo impassibile mentre diceva una delle sue solite stronzate -- stronzata che, comunque, le strappò un grugnito di risata, da lei tentato di mascherare con un colpo di tosse e un pugno davanti alla bocca, ancora piegata in un sorriso sinceramente divertito. «È proprio vero quello che dicono: hai la faccia da stupido, e quando parli non aiuti di certo la tua causa. Ora capisco cosa intendevano.» Chi lo diceva? Boh, tutti e nessuno; magari era un rumor che aveva iniziato lei stessa, o magari lo aveva sentito per caso nei corridoi di Hogwarts; o, magari, lo aveva inventato in quel momento di sana pianta. Fatto sta che non diede delucidazioni in merito, e si affrettò invece a salire in ascensore una volta che questi ebbe raggiunto il loro piano.
    Che suo cugino avesse sviluppato un (pessimo) senso dell'umorismo era... a dir poco straziante; lo preferiva di gran lunga musone e antipatico, almeno quello era l'Albie che meglio conosceva e che meglio sapeva gestire. Il ragazzo che era con lei in ascensore, invece, sembrava lontano anni luce da quello con cui Nice era cresciuta e sentiva un divario, tra loro, che mai prima c'era stato. Si rendeva conto di essere in parte responsabile per come le cose si erano evolute dall'estate sino a quel momento: gli ultimi mesi di scuola, i preparativi per il prom, Dominic (che era una questione tutta a sé), gli esami finali, l'attentato, un'estate passata alla ricerca di un lavoro che le permettesse di inserirsi finalmente nella società magica, la vita in casa CW, Dominic, l'inizio della collaborazione con i Jerarci, pedinare Zac... insomma, erano stati mesi impegnativi, i suoi, e forse, ma giusto forse, non era stata proprio al passo con quello che succedeva intorno a lei: gossip e chiacchiere non le sfuggivano di certo, ma per quanto riguardava le cose più profonde... non aveva assolutamente il tempo di pensare anche a quelle altrui, non quando ogni giorno che passava era sempre più vicina al cedere e contattare i suoi genitori, pur di parlare con loro un'altra volta, e soprattutto non con Dom che la confondeva sempre di più con regali inaspettat(amente dolc)i e fottutissime canzoni scritte per lei. Okay, se le meritava decisamente, ma... era difficile rimanere stoica e impassibile di fronte a certe attenzioni. Quindi, insomma, i problemi di Albie erano passati in secondo piano rispetto alle sue priorità e, finalmente, Nice prendeva davvero coscienza di quanti silenzi fossero passati tra loro in quei mesi -- silenzi di cui la stilista si rendeva conto solo ora.
    Erano silenzi che, ad essere onesti, la preoccupavano un po': pesavano come i silenzi di zio Tyler quando zio Adam ne combinava una delle sue e il giornalista cercava di fare ricorso a tutto il suo autocontrollo per non appellare fogli del divorzio e firmarli seduta stante. Solo che, nel caso di Albie, era un silenzio diverso rispetto a quello del padre. Era un silenzio ferito.
    Lo osservò di sottecchi, fingendo di sistemare la borsa in spalla, domandandosi se spettasse a lei muovere il primo passo e... chiedere cosa non andasse; forse sì, forse no, il loro problema era che, essenzialmente, non c'erano mai stati periodi simili nel loro rapporto, non una sola volta in ventidue anni di vita. Era una situazione nuova e Nice non sapeva – ancora! - da dove iniziare per sbrogliarla e venirne a capo.
    Tirò un sospiro di sollievo nel sentirlo parlare – ma solo mentalmente. Nel pratico, le parole le fecero roteare gli occhi verso una nuovo piano astrale, ma tant'è.
    Uscirono entrambi dall'ascensore, lui affrettando il passo e dandole le spalle, facendo tentennare la Hillcox per un attimo, presa in contropiede da quell'atteggiamento apertamente ostile (sì beh, insomma, più del solito comunque) ma fu veloce a riprendersi e, mento alto e sguardo fiero, si affrettò a raggiungerlo in un tintinnare di tacchi che colpivano, precisi e sicuri, il pavimento in marmo del ministero.
    «E dato che pago, decido io.» «Oh no.» «Andiamo al cinese e… ora mi racconti tutto.» Avrebbe dovuto scommetterci che l'antipatico cugino l'avrebbe portata “al cinese” per pranzo. Tipico di (Adam) Albert, spendere i soldi in locali del genere. Si lasciò sfuggire uno sbuffo, rallentando il passo solo una volta nuovamente al fianco di Al. «Potevi almeno fare uno sforzo e fingere di averci pensato un po' su. Del vero pesce non farebbe schifo, sai? Potremmo Smaterializzarci in Sardegna, fa un po' freddino in questo periodo, certo, ma c'è quel ristorante sul mare dove andavamo spesso con-» si fermò di colpo, chiudendo la bocca e abbassando il dito con cui aveva gesticolato mentre navigava, inconsciamente, nel viale dei ricordi. «No. Lo inaugureranno tra tre anni Il sorriso mantenuto fino a quel momento lasciò spazio ad un'espressione meno divertita, che durò però pochissimo: non aveva davvero voglia di parlare di quello -- non quel pomeriggio, né nei prossimi giorni.
    Fece schioccare la lingua contro il palato, ancora ferma in mezzo all'atrio del ministero, le braccia conserte e l'aria di chi non aveva assolutamente voglia di muoversi di lì. «Ho un appuntamento da Amortentia, più tardi, per rifarmi le unghie e non ho voglia di andarci che puzzo come una friggitoria.» Gli rifilò un'occhiata decisa, informandolo in maniera silenziosa che non avrebbe ceduto facilmente. «Troviamo un compromesso. C'è quel localino nuovo, a qualche isolato da qui, che fa cose veg e sembra buonissimo.» E aveva buttato un occhio anche al menu, la Hillcox: era leggermente fuori budget ma Albie poteva permetterselo. Aveva o no uno stipendio vero e blablabla?
    Onestamente, però, Nice avrebbe cercato di farlo desistere per poco ancora, accettando a malincuore una sconfitta nel caso in cui non avessero trovato un accordo nel giro di pochi minuti: era stato difficile mandare giù alcunché quella mattina, con lo stomaco chiuso per via del colloquio – non che avesse ansia o cose del genere, ma tendeva sempre a perdere l'appetito quando qualcosa di importante l'attendeva – e di conseguenza, arrivata all'ora di pranzo, aveva famissima. Voleva solo mettere qualcosa sotto i denti e, forse, tentare di svuotare un po' il sacco con suo cugino.
    Forse.
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    La verità era che Nice gli mancava. Gli mancava così tanto da fare male. Come poteva essere così egoista? Erano tutto quello che avevano. Lui e lei. Albert e Nice. Erano l’unica famiglia che avevano, che era loro rimasta.
    Invece Nice aveva deciso di andare avanti. E, così facendo, l’aveva lasciato indietro. Non solo perché lei si era affrettata lungo la via, ma anche perché lui, al contrario, era rimasto fermo immobile.
    Per Bertie tutto questo avrebbe dovuto essere temporaneo. Un incubo lungo anni, certo, ma pur sempre un incubo. Qualcosa dal quale, infine, si sarebbe, si sarebbero svegliati. Sarebbero tornati alla normalità, sarebbero tornati a essere solo due dei tanti (e forse troppi, secondo alcuni) Cox che popolavano il mondo magico. Non aveva mai amato sentirsi così e, anzi, aveva sempre fatto di tutto per spiccare nella sua unicità. Eppure, adesso, persino questo faceva male. Desiderava essere nuovamente il fratello di qualcuno. Il nipote di qualcuno. Il figlio di qualcuno.
    Era nato adulto, o forse vecchio, come diceva scherzosamente suo padre (e meno scherzosamente sua sorella, nonché Nice stessa), Bertie, e non aveva mai sentito la necessità di essere un bambino. Anzi, quella condizione l’aveva sempre destabilizzato, per non dire schifato. Non aveva mai visto alcuna attrattiva, o positività, nel non essere adulti. Ma adesso… adesso avrebbe dato qualsiasi cosa per poter essere infantile, per potersi sentire nuovamente quasi soffocato da quell’amore che arrivava da tutte le parti.
    Invece era solo, perché quell’ultimo, flebile spiraglio di sentimento si era allontanato sempre di più da lui. Perché Nice aveva deciso che quello non era un incubo, bensì la vita.
    Nice gli mancava era vero. Ma, come suo solito, non era tutta la verità. Dietro a uno schermo di purezza, perché cosa c’era di più puro dell’affetto che provava per lei, del fatto che lo facesse soffrire non vivere più l’uno nella mente dell’altro, come avevano sempre fatto, si nascondeva un altro sentimento. Un sentimento tutt’altro che puro. Marcio. Nice si era rifatta una vita, mentre lui no. Bertie era nascostamente, ma furiosamente, invidioso.
    Si diceva che quello di Nice era egoismo, che era meschino, da parte sua, comportarsi come se quella fosse la loro vita. Si diceva che il suo non aver mai voluto fare nulla a riguardo, all’opposto, era invece un segno di fedeltà e di forza. Una scelta, insomma.
    Peccato che, in realtà, Bertie non avesse scelto un bel niente, esattamente come faceva da tutta la vita. Non sapeva vivere, ecco qual era il vero problema. Che fosse per noia, per apatia, o semplicemente per incapacità, Albert non era riuscito ad andare avanti.
    E ora era solo, solo come non era mai stato.

    «Aw, dunque pensi che io sia un angelo. Vedo che ti è rimasto un briciolo di intelligenza, allora.» «Certo. Perché gli angeli fanno schifo. E rappresentano la radice più bigotta e conservatrice della società cristiana», le spiegò con tono saccente, per sottolineare come la cosa fosse scontata e ovvia. Bertie adorava offendere la gente, specie poi se di mezzo c’era il divario tra cultura e ignoranza, ed era solo contento quando il destinatario delle sue frecciatine se la prendeva, perché era un chiaro segno della sua superiorità intellettuale. Con Nice, però, era diverso: alle volte una piccola, piccolissima parte di lui aveva quasi il timore di ferirla. Tuttavia, al contempo, la cugina sapeva benissimo che, dietro alla miriade di insulti che si rivolgevano ogni giorno (almeno un tempo…) vi era in realtà celato un profondo rispetto e un infinito affetto. Eppure, adesso, per un istante Bertie tentennò, domandandosi come la cugina l’avrebbe presa. Se rivolgersi l’un l’altro in quel modo era sempre stato l’unico metodo, per loro, di interfacciarsi, adesso non succedeva da così tanto tempo, almeno per i suoi gusti, da farlo sentire, anche solo per un attimo, in dubbio.
    Per fortuna, però, il tutto durò davvero un battito di ciglia, perché all’uscita successiva di lei Bertie aveva già ripreso completamente il controllo su sé stesso e, ancora di più, sulle proprie emozioni. «In effetti non mi dispiacerebbe incontrarla, la tua capa…» Parlando scoccò un’occhiata maliziosa a Nice, sapendo benissimo di irritarla con quel fare marpione. Al contempo, però, in fondo era persino serio: chiunque avesse gli occhi, e non fosse completamente asessuale, avrebbe voluto incontrare Jericho Lowell. In quel senso. In tutti gli altri, invece, non è che ci tenesse particolarmente ad avere a che fare con una pazza schiavista e probabilmente omicida. E comunque persino Nice, che si era sempre dichiarata etero al cento per cento, un pensierino o due (o anche dieci) ce l’aveva fatto.
    Tornò a guardarla con il suo solito fare apatico, mentre dentro, però, continuava a sentire quel fastidio, quel dolore pungergli il petto in un punto ben preciso. Ma fu allora che accadde. Era inutile che si nascondesse dietro un colpo di tosse: Nice stava ridendo. Si morse le labbra dall’interno per non fare lo stesso, ma il suo sguardo cambiò, addolcendosi improvvisamente. Quella era la Nice che conosceva, che gli mancava. Sempre pronta a sfotterlo e infastidirlo, certo, ma anche a ridere per cose che riguardavano solo e soltanto loro. «È proprio vero quello che dicono: hai la faccia da stupido, e quando parli non aiuti di certo la tua causa. Ora capisco cosa intendevano.» «Dicono? Chi? Le vocine nella tua testa? Le tue personalità multiple? Fate pure, ma tanto lo sapete anche voi di mentire costantemente a voi stesse.» Non era forse quello che facevano sempre, loro due? Mentire. Mentivano al mondo, certo, ma, spesso e volentieri, anche a loro stessi. Il problema è che cominciava a diventare troppo, dal momento che, ormai, Bertie non si accorgeva neanche più di farlo. Lo stava facendo da settimane, mesi, anzi. Si ripeteva che andava tutto bene, che sarebbe andato tutto bene. Nice sarebbe rinsavita, avrebbero risolto la situazione e, infine, sarebbero tornati a casa.
    Mentre quel pensiero andava ad aumentare gli infiniti spilli appuntati nel suo cuore, Bertie si affrettò a uscire dall’ascensore e a distanziare la cugina. Se fosse stato meno orgoglioso, più coraggioso, e, soprattutto, meno Albert, avrebbe affrontato di petto la questione, invece di allontanarsi ancora di più da lei, fisicamente e, soprattutto, emotivamente. Invece, in quei mesi, non aveva fatto che fuggire, aspettando che fosse lei a fare la prima mossa. Nice avrebbe dovuto cogliere le sfumature diverse nella sua apatia, perché Nice non era il resto del mondo. Invece aveva scelto di voltarsi dall’altra parte, fingendo di non vederlo. Una parte di lui avrebbe voluto, o forse dovuto, giustificarla, ma proprio non ci riusciva. La cugina era l’unica persona che ritenesse alla sua altezza, dunque non aveva scuse: non solo sapeva, ma aveva deliberatamente deciso di ignorarlo. Così come aveva deciso che quella, adesso, era la sua vita. Una vita che non comprendeva Bertie.
    Ascoltò il suono familiare dei tacchi di Nice farsi sempre più vicino, con una fulminea ma dolorosa stretta al petto. Quando l’ebbe raggiunto non si voltò verso di lei, continuando a camminare con lo sguardo altezzosamente fisso davanti a sé. Solo con la coda dell’occhio la osservò, sentendosi a casa ma, al contempo, in una posizione sospesa e surreale. Per quanto lo desiderasse, quella non era più la loro quotidianità. Quella sensazione spaccata continuò mentre la sentì lamentarsi del cinese. «Ma io ci ho pensato. Non ho tempo da perdere. E…» «Potremmo Smaterializzarci in Sardegna, fa un po' freddino in questo periodo, certo, ma c'è quel ristorante sul mare dove andavamo spesso con-»
    Non erano più spilli quelli nel suo cuore, ma una lama in grado di trapassarlo da parte a parte. Dimenticò di respirare per parecchi istanti, mentre mille immagini gli passarono davanti agli occhi. Le stesse che, ne era certo, stavano attraversando anche la mente di Nice. «… con loro», mormorò apparentemente atono: un orecchio attento, però, forse sarebbe riuscito a notare quella nota incrinata, la stessa che si rovesciò nei suoi occhi, improvvisamente di cristallo. «No. Lo inaugureranno tra tre anni.»
    Avrebbe voluto slanciarsi ad abbracciarla per schermarla dai ricordi e mormorarle che presto sarebbero tornati là, in quella terrazza assolata a picco sul mare, a litigarsi l’ultimo bicchiere di vino con i loro fratelli. Avrebbe voluto rassicurarla, assicurandole che presto sarebbe andato tutto bene. Invece rimase immobile. Ad attraversarlo furono solo un piccolo tremito e un movimento impercettibile della mano, che si avvicinò appena a quella di lei, come per stringerla. Ma poi la mano gli ricadde sul fianco, stringendosi solo su sé stessa, in un pugno di rabbia e di dolore. «Te l’ho detto, la mia pausa pranzo dura solo un’ora. Non abbiamo tempo No, non avevano tempo. Non quello giusto, almeno.
    Riprese a camminare, come se, così facendo, potesse allontanarsi anche dai ricordi, ma non sentendo il rumore dei tacchi di Nice alle calcagna, stavolta si girò a guardarla. «Allora? Ti muovi?», la incalzò acido, vedendola rimanere ferma. «Ho un appuntamento da Amortentia, più tardi, per rifarmi le unghie e non ho voglia di andarci che puzzo come una friggitoria.» «Principessa, vai là e li paghi. Potresti puzzare anche di latrina: nessuno aprirebbe neanche la bocca.» Conosceva benissimo quello sguardo, però: Nice non avrebbe ceduto. Ma neanche lui, naturalmente. Già così, per quella schermaglia così familiare, faticò a trattenere un sorriso. Poi però lei parlò di compromesso, facendolo capitolare e incurvare appena l’angolo destro della bocca. «E secondo te la roba vegana che sa di cartone sarebbe un buon compromesso? Come hai fatto a superare il colloquio, visto che sei palesemente ubriaca?» Alzò gli occhi al cielo e la incalzò nuovamente: «Andiamo».
    Dove? Ovviamente non al vegano. Ma neanche al cinese. Bertie non era uno che cedeva, sia chiaro, ma fu più forte di lui: dopo tutto quel tempo, Nice era di nuovo sua. Il trucco era fingere che non fosse solo per un periodo limitatissimo di tempo e in quell’atmosfera così straniante. Dopotutto, era il migliore anche nella menzogna, no? «Niente storie. Si fa quello che decido io», sentenziò, fermandosi davanti a un locale minuscolo che faceva l’unica cosa che li aveva sempre messi d’accordo… almeno fino a quel momento. Non voleva contemplare l’opzione rifiuto, Bertie. Non poteva farlo. Perché, se fosse successo davvero, si sarebbe spezzato. Nice non poteva non volere quella cosa.
    La pizza.
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    berenice hillcox
    Londra, 11 gennaio 2034.

    «Sei proprio sicura che abbia chiesto espressamente una torta ricoperta esclusivamente di cioccolato bianco?»
    «Mh, mh.»
    «E che voglia anche le decorazioni fatte con il cioccolato bianco
    «Sì, Florence. Sono sicura.»
    «Okay...» Dal suo tono di voce, Nice deduceva non fosse affatto okay, ma non rivolse attenzioni alla sorella, limitandosi a rimanere concentrata sul proprio lavoro. Dopo poco, Florence parlò di nuovo. «Quanto sei sicura?»
    Solo a quel punto, Nice sollevò lo sguardo gelido sulla maggiore dei Cox-Hill e la minaccio con la sac à poche piena di crema (al cioccolato bianco, ovviamente). «Sì, Florence.» Una pausa interminabile e una sfida di sguardi; nessuna delle due sembrava intenzionata ad abbassare la guardia per prima, a cedere. «Sono sicura.»
    Allora la ventenne, mangiucchiando qualche mora appena lavata e riposta in una ciotola trasparente, si strinse nelle spalle. «Se lo dici tu.» Oh, tipico tono accondiscendente di Florence. Certo, che lo diceva lei. Chi era la migliore amica di Albie, uhm? (Minnie, ma non valeva perché era anche sua sorella.)
    Era lei.
    «So perfettamente cosa piace a mio cugino e cosa no, ma grazie per aver dimostrato interesse, Florence.»
    Il luccichio che notò negli occhi delle gemelle Tydamdee, che avevano assistito a tutta la scena in rigoroso silenzio, quando fece cadere lo sguardo su di loro, prometteva tutto fuorché bene. La futura Serpeverde (lo sapeva già, anche se mancavano più di otto mesi al suo effettivo smistamento, ma era una delle tante cose su cui non aveva mai avuto dubbi) rivolse alle cugine un'occhiata complice, prima di riprendere a disegnare roselline bianche sulla sommità della torta. Erano imprecise, e tremolanti, ma stava facendo del suo meglio; se solo non avesse avuto una certa distrazione...! «Ora puoi andartene? Grazie.»
    «Qualcuno è di cattivo umore, eh. Lo sai che i dolci vengono male, se non sei felice?» Non aveva mai sentito una sciocchezza simile, doveva essere qualcosa che Flo si era appena inventata. O qualcosa sentita da zia Milly ― sì, era il genere di cose che la zia amava dire. «Mh, mh. Okay. Ciao ciao.»
    Sentì lo sgabello di Florrie strusciare sul pavimento, ma non alzò lo sguardo verso la sorella: non voleva darle altra corda: sapeva essere una vera piattola quando ci si metteva.
    «Ok, me ne vado. Ero qui solo per accertarmi che fosse tutto in ordine e pronto per la festa di stasera. Non capita tutti i giorni che un mago compia undici anni.» Duh, ancora con quelle frasi da cioccolatini da discount che sua zia distribuiva in giro.
    Rimase in silenziò per un po', Nice, definendo un'ultima fogliolina prima di passare alla prossima rosa, poi sussurrò: «sarà una festa bellissima, Albie rimarrà di sasso.»



    Londra, oggi.
    «Non abbiamo tempo.»
    Era una frase particolare da dire.
    Avevano il tempo ― se l'erano ritagliato, da soli, con le loro mani. Del tempo per risolvere i loro problemi, del tempo per sistemare le loro famiglie. Del tempo per rimettere a posto tutto quanto. Tranne le loro attuali vite.
    Ma si erano illusi, perché quel tempo non ce l'avevano. Non davvero.
    E forse non ce l'avevano mai avuto.
    Il tempo per un pranzo? Quello forse sì ― per il resto, ne avevano già sprecato fin troppo. Il solo il fatto di aver scelto di rimanere nel 2020 li aveva condannati, incagliati in un tempo che non era il loro, in delle vite che potevano solo tentare di rimettere in carreggiata; ma non sarebbero mai state come speravano. Il loro passato, il loro futuro, un mero eco di ciò che era stato. E di ciò che avrebbe potuto essere.
    Ci stavano provando, nonostante tutto.
    C'era chi c'era riuscito (non senza problemi) e chi invece faticava ad accettare lo scorrere inesorabile di quel tempo tanto prezioso, e che non sarebbe mai tornato indietro; Albert era fermo, in una situazione di stallo, di stasi, in lotta contro il mondo che tanto faticosamente andava avanti, e la sua infantile decisione di rimanere indietro. Che non si fosse mai adattato davvero al 2020 Nice l'aveva sempre saputo: quando ancora condividevano tutto, ogni sguardo e ogni sospiro di fastidio; quando tra loro non c'erano muri alti e all'apparenza insormontabili ― Nice l'aveva saputo.
    E aveva deciso di non fare nulla, di rimanere stoica nel suo silenzio perché non era colpa sua ― era una decisione che avevano preso in due. Insieme. Lei si era semplicemente adattata, imparando a convivere con le conseguenze di quella scelta.
    Eppure, cercando brevemente lo sguardo ferito del cugino, si ritrovò catapultata in una memoria che aveva quasi dimenticato, repressa insieme ad molte altre facenti parte di una vita passata; il ricordo della prima volta che Albie l'aveva guardata sentendosi tradito. Per una cosa scema, certo, ed era stato uno scherzo ― ma era stata la prima volta.
    L'unica, poi; negli anni a venire, non sarebbe più successo.
    Certo, disgusto era all'ordine del giorno con Albert Bulgakov-Cox-Wood ma Nice aveva imparato ad accettare quel cugino; era diventato quasi (comico) familiare nella sua caparbietà di dimostrarsi così ditico nei confronti del mondo intero. Una brutta imitazione di suo papà.
    Ma quell'espressione ferita? Nice non l'aveva più dimenticata e, per sua fortuna, non l'aveva neppure più vista.
    Non fino a qualche tempo prima.
    Contrariamente alla Nice dodicenne, che era rimasta stoica nel suo silenzio mentre zio Tyler mandava zio Adam a comprare una torta di riserva nella miglior pasticceria francese, nonostante sapesse bene di avere la vera torta pronta nel frigorifero, e che fosse ad un passo dall'andarla a prendere, Berenice aveva deciso di prendere di petto quel problema e risolverlo. Se il viaggio nel tempo le aveva insegnato qualcosa, era che mentire a quelle poche persone che amava davvero non era la cosa giusta. Non quando rischiava di rovinare un rapporto importante come quello con Albert.
    Poteva essere anche una palla al piede, antipatico e con dei modi discutibili per blastare la gente, ma ciò non significava che gli volesse meno bene. Era pur sempre la sua famiglia ― la sola che le restasse, in quel mondo.
    Rimase impassibile ad osservarlo per un po', per niente colpita da quelle parole vuote che avrebbero dovuto essere insulti: non si stava nemmeno sforzando. Le cose andavano proprio: male.
    Ebbe l'impulso di chiedere scusa, adesso, a distanza di più di un decennio, per quella torta al cioccolato bianco che lui detestava: doveva essere uno scherzo, un gioco stupido per prendersi beffa di lui. Non avrebbe voluto farlo stare male. Ma anche in quel momento, come anni prima, non trovò le parole per farlo; tenne le labbra serrate, lo sguardo perso nel ricordo di quel pomeriggio orribile, e ricordò l'espressione delusa di sua mamma e quella fiera di suo padre. O forse, era così che una piccola Nice aveva voluto interpretarle.
    Scosse appena il capo, scacciando via i fantasmi di un tempo.
    «Andiamo» chiedere dove sarebbe stato superfluo: nonostante tutto, ancora conosceva suo cugino e sapeva che l'opzione cinese fosse ormai scartata; per orgoglio, però, lui non lo avrebbe mai ammesso.
    E lei poteva accontentarsi: il peggio era passato.
    Si incamminò di nuovo dietro il tirocinante magiavvocato, ormai fuori dal ministero, abbassando degli occhiali da sole, totalmente superflui vista la giornata nuvolosa: era solo una disguise per poter fingere di non essere lei quella beccata in compagnia di Albert ― sai che figura ci avrebbe fatto.
    «Niente storie. Si fa quello che decido io», «Ah sì? Da quando?» ma quando alzò gli occhi e vide l'insegna di una pizzeria, si lasciò sfuggire un sospiro e curvò impercettibilmente le spalle, pensierosa. Poi, come se nulla fosse, fece schioccare la lingua contro il palato e lo superò oltre l'entrata della pizzeria. «Non ci credo. Ti ho chiaramente detto che sono in una fase di rinuncia ai carboidrati, maledetto.» E lui la tentava così?
    Resistere alla tentazione era un peccato, e Nice non era mai stata una santa.
    Si avvicinò al bancone e osservò i tranci di pizza esposti, valutando accuratamente l'ammontare di calorie di ognuno di essi. «Ti detesto, Albert.» Non era vero nemmeno un po'.

    Dopo aver scelto ciascuno il proprio pranzo, presero posto ad uno dei tavolini della pizzeria e iniziarono finalmente a mangiare. Nice dimenticò del tutto la sua severa policy “niente carboidrati” al primo morso. La pizza era sempre la pizza.
    A metà trancio, rivolse finalmente attenzione al Behemoth seduto di fronte a lei. Non le era sfuggito come non avesse chiesto maggior informazioni in merito alla bomba appena sganciata; si era limitato a fare una battuta poco divertente e niente più. OK. Va bene Albert. Se non vuoi sapere, cazzi tuoi.
    Lei poteva ancora fare la persona matura e provare a fare due chiacchiere con suo cugino per cercare di aggiornarsi. Non era certa di come si facesse, specialmente con Albert, ma ci avrebbe provato. «Dunque, come vanno le cose nella vostra porzione di piano? E... in generale. Qualcosa che devo sapere prima di iniziare?» Poi lo squadrò un secondo più a lungo del necessario e, nascondendosi dietro la fetta di pizza, chiese con (finto) disinteresse: «ti sei già imbattuto in Sinclair?» Ovvio che volesse tutti gli scoop su quello, non le fregava nulla del piano in sé.
    Voleva un altro genere di gossip.
    23 yo | ex slythcensor
    Though time is ruthless itt showed us kindness
    in the end, a second chance to make amends
    fasion iconw. w. taylor swift do?



    ho scritto e cancellato questo post, specialmente la prima parte, così tante volte che non so più cosa sia. scusa cicci
     
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    «Ah sì? Da quando?» Già, da quando? Da quando era lui quello che decideva? Quella di Nice voleva essere solo una provocazione, un’eco delle punzecchiature su cui si reggevano, si erano rette, tutte le loro conversazioni, da quando avevano imparato a mettere una parola dietro l’altra in un discorso di senso compiuto. Ma Bertie sapeva che nascondeva anche molto, molto di più. E un tempo lo sapeva anche lei. Ora… ora non ne era più così sicuro. Non quanto lo era, invece, della risposta a quella domanda. Mai. Non era stato mai lui a decidere. Non voleva essere un modo di scaricare la colpa sugli altri, il suo; era una semplice constatazione. Albert Cox-Bulgakov-Wood non era mai stato capace di decidere. Sì, proprio lui, quello che si fregiava di essere in grado di fare qualsiasi cosa. E, in effetti, era davvero così, dal momento che aveva sempre eccelso in qualsiasi disciplina, o compito, gli fosse stato messo davanti. Ma il decidere era tutta un’altra storia. Non c’era mai riuscito. Non aveva mai voluto farlo.
    E adesso, in quella nuova vita, era successo di nuovo. Non aveva deciso. Non decideva. Se ne stava lì, fermo, in balia degli eventi. «Forse sei tu a non essere stata attenta, negli ultimi, umh… ventidue anni?», le rispose però con noncuranza, fermandosi davanti all’ingresso della piccola pizzeria. Sentì Nice sospirare, ma prima che potesse girarsi e dirle qualcosa, o meglio, sfotterla, lei lo oltrepassò, spingendo la porta e mettendo un piede dentro. «Non ci credo. Ti ho chiaramente detto che sono in una fase di rinuncia ai carboidrati, maledetto.» Non voleva sorridere, eppure lo fece lo stesso. Impercettibilmente, certo, ma le labbra si incurvarono, spinte all’insù dal battito appena accelerato del cuore, felice di sentire quei finti insulti tanto familiari. Certo che era maledetto. Proprio come lo era anche lei. Tuttavia… «Me l’hai detto? Sicura di non starti confondendo con il tuo toy boy con cui giochi alla dottoressa con l’infermiere?», la punzecchiò sarcastico, senza però preoccuparsi di nascondere una punta di vera, e profonda, acidità nella voce. In realtà Nice gliel’aveva effettivamente detto, motivo per cui erano lì – per infastidirla, appunto, almeno in parte –, ma non importava davvero, perché entrambi sapevano della verità nascosta in quelle parole.
    Nonostante tutto, però, adesso erano dentro e la porta si era richiusa dietro di loro. Di nuovo insieme, anche se, lo sapeva bene, per poco, per troppo poco. Scrutò i vari gusti di pizza esposti con estrema concentrazione, per quanto sapesse benissimo, e Nice con lui, che la scelta sarebbe ricaduta su… «Un trancio di margherita. Quello», lo indicò con un cenno del capo, avendo selezionato accuratamente quello che gli sembrava il migliore: né troppo cotto, con il giusto quantitativo di mozzarella e abbondante pomodoro. Ah, e una foglia di basilico, naturalmente. «Ti detesto, Albert.» Voltò il capo verso la cugina, lasciando che, per una volta, fossero i suoi occhi, prima di tutto, a parlare. Senza schermarli, senza nasconderli. Di nuovo quel fremito, quella brevissima scossa ad attraversarlo, quel senso di casa. «Lo so.»

    E quindi eccoli lì, adesso, in un tavolino che stonava decisamente con gli abiti ricercati di Nice e persino con i suoi, non all’ultima moda come quelli di lei, ma comunque del tutto adatti alla sua nuova posizione di aspirante avvocato. Non che si aspettasse nulla di diverso, ma quel silenzio cominciava comunque a pesargli. Tuttavia, non poteva essere lui a cedere. Non voleva esserlo. Davvero non avevano niente da dirsi? Loro che riuscivano a intavolare conversazioni chilometriche anche dopo essere stati tutto il giorno insieme, dopo aver condiviso ogni secondo e ogni esperienza? Certo, tutto era sempre una sfida, in un modo o nell’altro, ma, stavolta, era quasi disposto ad ammettere di aver perso già in partenza. Di conseguenza, Nice gli doveva almeno: provarci. Era il minimo.
    Si guardò bene dal puntare gli occhi su di lei, lasciandoli invece vagare pigramente in giro, come se non fosse accorto che lei lo stava fissando. Fallo, cazzo. Parla. Parlami.
    E Nice effettivamente lo fece. Nel modo più banale, più no sense, più da non Nice possibile. Gli sfuggì una risatina strozzata, piena di sarcasmo. Era terribilmente da lei. Fare ma non fare una cosa. Solo per il gusto di irritarlo. «Come se tu non sapessi già tutto», iniziò, portando finalmente lo sguardo su di lei, fino a trovare l’esatta copia dei suoi occhi. «Vorresti davvero dirmi che Nizza la pettegola indomita non si è già informata su ogni cosa, compresi quanti rotoli di carta igienica ci sono nei bagni?» Ovviamente lei sfuggì al suo sguardo, nascondendosi dietro quello che rimaneva della sua pizza. Se ne compiacque, almeno un pochino, tornando a sua volta ad addentare la propria.
    «ti sei già imbattuto in Sinclair?» Ah, ecco dove voleva andare a parare. Alzò gli occhi al cielo, imitando la più tipica delle reazioni di lei, con tanto di: «Eww», borbottato tra i denti. «E a te che te ne importa?» Conosceva perfettamente la risposta, ma fu più forte di lui: doveva lanciarle quell’accusa velata. Entrambi erano pettegoli di prima categoria, lo erano sempre stati; da quando le cose tra loro si erano silenziosamente incrinate, però, in quella marea di non detti, persino la loro migliore qualità aveva perso il suo smalto. Nice rimaneva la pettegola che amava, certo, ma erano mesi che si preoccupava dei fatti di tutti tranne che dei suoi. Sospirò, strofinandosi gli occhi con due dita. Non voleva essere debole. Non voleva cedere. Ma, in tutti quei mesi, con chi aveva parlato, lui? Con Chelsey? Con Hyde? Con Perses, persino? O era stato seduto, immobile, a fissare il vuoto, fianco a fianco il Daniels, altrettanto immobile e altrettanto muto?
    «Al Ministero sono ancora più stupidi di quanto pensassimo», sentenziò, tra la noncuranza e il disprezzo, pulendosi la bocca con un tovagliolo. «Fanno i concorsi, prove su prove, decretano il migliore – cioè io, ovviamente – e poi… non sanno neanche contare?» Sbuffò. «Quel posto era uno solo. Ed era mio. Sinclair non dovrebbe neanche esserci, lì. Sembra di stare in un cimitero, quando arriva la mattina. Non solo per la sua nauseante simpatia, ma quell’odore di rose avvizzite… Ugh!» Fa una smorfia, arricciando il naso. «Le mette ovunque. In faccia, nel tè… Ormai mi perseguitano. Lui mi perseguita. Con la sua saccenteria. Con quel modo di fare, di essere, così fastidioso... Come se ce l’avesse solo lui.»
    Di chi stava parlando davvero? Di Perses Sinclair… o di sé stesso?
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    Scusami ciccina, ma o scrivevo o scrivevo.
    E sì, potrei aver pianto (di nuovo) rileggendo il tuo ultimo post.
     
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    «Forse sei tu a non essere stata attenta, negli ultimi, umh… ventidue anni?»
    Nice si permise di alzare pigramente lo sguardo, ancora nascosto dietro i grandi occhiali scuri, sul cugino, giudicandolo; lei era stata attenta — sempre. Più di tanti altri, per i motivi più disparati che andavano da quello più banale legato alla noia e al bisogno di occupare le sue giornate, a quello più profondo per il quale non doveva fornire precisazioni, perché era convinta che Albert sapesse, nonostante tutto, quanto lei lo amasse.
    Evidentemente, se si erano ridotti a commenti del genere, si era sbagliata; succedeva così di rado che non era familiare con il sapore amaro di quella consapevolezza, e decise di lasciar perdere, riparandosi dietro gli occhiali da sole e uno schiocco della lingua contro il palato come unica risposta al fu Cox-Bulgakov-Wood.
    Se era convinto di quello, Albie, se era convinto che Nice non prestasse attenzione, allora per lui non c'era più nulla da fare: era un caso perso e nemmeno la terapia d'urto della ex cheerleader l'avrebbe salvato. Meglio lasciarlo crogiolare nella sua idiozia.
    Non oppose alcuna resistenza, dunque, quando la conversazione passò con molta (fin troppa) facilità ad argomenti vuoti e frivoli, come la pizza; per carità, Nice stessa avrebbe firmato col sangue una petizione per decretare la pizza un patrimonio dell'umanità, ma non era il genere di conversazione che avrebbe voluto avere con suo cugino, con il quale non parlava – non parlava davvero – ormai da fin troppo tempo.
    Come si erano ridotti così?
    Nice non lo sapeva, ed era troppo orgogliosa per cercare risposte nei suoi difetti, e nel modo in cui si era dedicata anima e corpo al lavoro e alla relazione con Dominic — era più facile decidere autonomamente che la colpa fosse soprattutto di Albie, e farla finita lì.
    Tanto non è che il biondo si stesse impegnando molto per farsi vedere sotto una luce migliore, eh, con quei suoi commentini da Blair Waldorf sottomarca, una Mean Queen Bitch che non ce l'aveva fatta; sarebbe stato quasi commovente, il suo provarci, se Nice non l'avesse anche trovato enormemente insopportabile.
    «Me l’hai detto? Sicura di non starti confondendo con il tuo toy boy con cui giochi alla dottoressa con l’infermiere?»
    Scelse di fare un favore ad entrambi, la Hillcox, e da donna matura quale era decise di non rispondere a quell'ennesima provocazione; Albie doveva essere proprio disperato se pensava che sarebbe bastato quello a irritarla, e non erano problemi di Nice se lei, suo malgrado, era riuscita a lasciarsi andare e ad aprirsi con qualcuno, mentre Albert rimaneva statico nella sua ignavia — se credeva che bastasse così poco per farla sentire in colpa, ancora una volta, non la conosceva affatto.
    Era una situazione così nuova, ancor più che strana, e Nice non aveva i mezzi con cui affrontarla: quel viaggio nel tempo aveva cambiato fin troppe cose, e la stilista non s'era resa conto che avesse cambiato anche il rapporto con Albie fino a che non era diventato troppo tardi; che cosa gli era successo? Come avevano potuto lasciare che la vita si mettesse tra loro e sfilacciasse il legame che li teneva uniti, l'unico che gli rimanesse, fino a renderlo così fragile da minacciare di staccarsi per sempre da un momento all'altro? Bastava un peso appena più forte, un pugno saldo che andasse a tirare un estremo della corda mentre una forza uguale e contraria tirava il lembo opposto, e le loro strade si sarebbero separate senza probabilmente incrociarsi più.
    Poteva davvero sopportare l'idea di osservare il viso di suo cugino e vederci uno sconosciuto?
    No, non poteva; ma non era nemmeno in grado di fare qualcosa per evitare che accadesse. Perché Nice era orgogliosa, ed era testarda, e soprattutto era piena di sé: non poteva sopportare il fatto di essere nel torto, né riconoscersi delle colpe che aveva ma che non voleva ammettere; quella sua ostinazione le era costata già almeno due rapporti importanti, nella vita, con due persone orgogliose almeno quanto lei — ma Albie non era né Florrie, né Zoe… Lui, prima o poi, avrebbe abbassato la testa e avrebbe cercato un compromesso per uscire da quella situazione.
    Nice si ripeteva che fosse così, che dovesse solo aspettare, perché non aveva nient'altro per andare avanti se non quello; e le serviva, necessario come l'aria.
    Eppure i minuti scorrevano, i tranci di pizza erano quasi a metà, e Albie non aveva ancora spiccicato parola se non per quei commenti vuoti che avrebbero voluto far male e che, invece, a malapena l'avevano fatta sorridere.
    Parole al vento, intangibili e vuote.
    Qualcosa che non avrebbe mai pensato di associare al rapporto con Albert, eppure rischiavano di arrivare proprio lì.
    E Nice, avvilita ma non abbastanza umile, non si azzardò a fare nulla se non ad alimentare quel fuoco gelido che bruciava tra di loro; la domanda su Sinclair era l'ultima delle sue priorità, ma era qualcosa con cui, era sicura, potesse toccare nervi scoperti del tirocinante magiavvocato e suscitare in lui una reazione.
    Che, di fatti, non tardò ad arrivare.
    «Come se tu non sapessi già tutto» Nice si strinse nelle spalle, mordendo il trancio di pizza, senza staccare gli occhi dal cugino. «Vorresti davvero dirmi che Nizza la pettegola indomita non si è già informata su ogni cosa, compresi quanti rotoli di carta igienica ci sono nei bagni?»
    “Nizza la pettegola indomita”, quasi un complimento, quello di Albie; lo avrebbe accettato volentieri, la faceva sentire più vicina a zio Tyler!
    «E a te che te ne importa?»
    Di Sinclair, nello specifico, «nulla,» ma di Albert tutto; quello, comunque, non lo disse. «Ma avevo capito avessimo deciso di parlare delle cose meno interessanti possibili,» aggiunse con un filo di sarcasmo, pulendosi le dita impiastricciate con un tovagliolo di carta, e incastrando Albie in una sfida di sguardi.
    L'occhiata gelida della Hillcox era pregna di significato, e la ragazza attendeva il momento in cui Albie avrebbe finalmente capito che dalla bocca della cugina non sarebbe uscito assolutamente nulla di serio “fino a che lui non avesse tirato fuori la testa dal culo”, citazione testuale di sua mamma quando si parlava di papà Cam, e che si addiceva perfettamente anche a quel momento tra cugini. Se era così che Albert voleva giocare, Nice accettava le regole e le seguiva alla lettera.
    «Al Ministero sono ancora più stupidi di quanto pensassimo» non commentò, stringendosi nelle spalle: sì e no, qualcuno ancora si salvava, a detta di Nice, ma non avrebbe difeso nessuno perché non erano affari di Albie, non in quel momento.
    «Quel posto era uno solo. Ed era mio. Sinclair non dovrebbe neanche esserci, lì. Sembra di stare in un cimitero, quando arriva la mattina.» E via, uno sproloquio infinito su quanto la saccenteria dell'ex concasato gravasse sulla stabilità psicologica del Behemoth, su quanto lo infastidisse il profumo di rosa del Sinclair, di quanto la sua presenza rovinasse le giornate di Albie, e blablabla. Per essere uno che odiava qualsiasi aspetto del Regal Biondo, Albert ne sapeva proprio tanto a riguardo.
    Alzò un sopracciglio perfettamente curato, Nice, lasciando intendere che ci fosse solo un modo di risolverla: «scopate, e facciamola finita, siete insopportabili» perché non ci credeva nemmeno un po' che il cugino non ci avesse fatto almeno uno (o dieci) pensieri sconci: purtroppo per lui – e purtroppo anche per lei – il sangue Cox era difficile da tenere a bada, e la natura libertina aveva sempre il suo modo di venire a galla. «La tua ossessione nei suoi riguardi non è salutare,» ma una bella scopata in inimicizia sì, lo dicevano un sacco di media babbani e non. Persino zia Dee ci avrebbe girato un film a riguardo, di lì a qualche anno.
    23 yo | ex slythcensor
    Though time is ruthless itt showed us kindness
    in the end, a second chance to make amends
    fasion iconw. w. taylor swift do?
     
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