give yourself some credit for how far you've come

[ joey + turo (o altri serpeverde) @sala comune ]

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    Che Joey non fosse una persona da parole, lo sappiamo tutti. Non era in grado di fare discorsi motivazionali senza tenere sotto mano degli appunti o senza essersi preparato prima cosa dire; non sapeva discutere motivando le sue ragioni se non poteva inserire un vaffanculo qua e là per sottolineare che cazzo, aveva ragione lui anche se non sapeva spiegarlo in inglese. Conosceva i suoi limiti, sapeva di non essere un grande oratore, preferiva agire.
    Eppure c'erano volte in cui persino lui si rendeva conto di non poter picchiare la sua strada fino all'obiettivo.
    O circa.
    metà e metà, dai.
    A grandi falcate (quelle che le sue gambette gli permettevano, almeno) attraversava i sotterranei del castello, cercando di fare mente locale sulla strada da prendere, senza guardare in faccia nessuno e dando un paio di spallate ai pochi studenti mattinieri già in giro. Arrivato di fronte al muro prescelto si fermò, fiato leggermente alterato dopo la mezza corsa.
    Valutò l'idea di aspettare lì. Violare quella soglia non invitato non gli sarebbe solo costato la sala delle torture. Avrebbe voluto dire disonorare un tacito patto, superare un confine di cui capiva l'esistenza, da bravo sportivo: era un luogo sacro per la squadra e per tutti i Seperverde, la loro casa nove mesi l'anno - per alcuni di più...
    Da solo, il muro si aprì, lasciando uscire due ragazzine.
    Adesso o mai più. Pensieri avversi da parte Joey si buttò in avanti, superandole per entrare nella sala comune serpeverde, ignorando i loro gridolini.
    Era già stato lì dentro (un paio di volte per sersha negli ultimi anni, non troppo tempo prima per il compleanno di Turo), ma ugualmente per un attimo si sentì soffocare dall'ambiente. Non era claustrofobico, ma si sentiva al posto sbagliato, e gli sguardi stupiti dei - pochissimi a quell'ora - serpeverde accrescevano quel sentimento. Sapeva che non sarebbe dovuto essere lì, ma sapeva anche che ne valeva la pena.
    «dove cazzo è arturo maria hendrickson»
    «Non puoi stare-»
    Alzò un dito medio verso il primino che aveva parlato senza neanche guardarlo, continuando a studiare l'ambiente alla ricerca del giovane. Forse era ancora a dormire, visto che non si era dovuto svegliare per gli allenamenti. Quella testa di minchia. «arturo. fottuto . maria. hendrickson»
    Che facessero da spia con i professori e lo mandassero in sala torture, lo stava facendo per qualcosa di più importante del suo benessere fisico. Lo stava facendo per il Quidditch.
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    La parte difficile non era stato crederci; la parte difficile era stato accettarlo.
    Per uno così convinto che le reincarnazioni non solo fossero vere, ma anche inevitabili, il discorso di Gwendolyn Markley non aveva fatto una piega. L'aveva ascoltata (confuso, certo, perché quello lo era di default, ma anche) annuendo senza rendersene conto.
    Viaggi nel tempo? Ma sì, perché no: Barry Allen insegnava che non erano mai la soluzione al problema perché si creavano sempre più casini di quanti se ne riuscissero davvero a risolvere, ma Arturo poteva crederci. In un mondo popolato da maghi, da special e da chissà quale altri tipi di creature non ancora scoperte, l'idea che si potesse fare avanti e indietro nello spazio e nel tempo, non lo sconvolgeva (o disturbava) poi così tanto. Insomma, erano ben altre le cose che minacciavano di far crollare il terreno sotto i suoi piedi, destabilizzandolo.
    Una missione per cercare di salvaguardare il futuro? Beh, poteva accettare anche quello senza troppe storie: era il pane quotidiano per quelli che, come lui, cercavano rifugio in pannelli colorati e storie incredibili, frutto della fantasia di qualcun altro. Ma era, appunto: fantasia. Non c'erano, nella vita reale, eroi e salvatori, gente disposta ad andare così oltre per un bene maggiore. Disposta a sacrificare così tanto. (E di certo, lui non si reputava tale.)
    La sua indole pessimista e già pronta a fiutare aria d'inganno gli aveva suggerito, in un primo momento, che fosse tutto uno scherzo e che quel pomeriggio fossero stati riuniti lì per essere bonariamente presi per il culo dall'assistente di Barrow -- non poteva negare di averla proprio sentita nell'anima quella sensazione di scherno e presa in giro, un po' come gli capitava ogni singola volta che qualcuno cercava di complimentarsi con lui o, più in generale, cercava di essere carino e disponibile con l'Hendrickson: lui non ci credeva, nessuno poteva mai essere sincero. Non se lo meritava. Quindi era stato prontissimo a scoppiare a ridere, in attesa della battuta finale, the punchline, quella che avrebbe dato a lui, a Mac, a Posh, persino a Willow il via libera per scherzarci su.
    Ma non era arrivata.
    Al suo posto erano state tirate fuori lettere, e un proiettore, e un fottuto PowerPoint. E delle foto. Oscar - su puto primo - era apparso dal nulla. Oscar che l'aveva preso da parte e vi giuro: Arturo non era una persona aggressiva ma in quel momento, osservando l'altro ragazzo negli occhi, avrebbe voluto tirargli una testata ben assestata, per qualche stracazzo di motivo. A lui e al nonsense che stava blaterando e al 2043 e ad altri fratelli altri amici altre vite.
    Non aveva badato più a chi ci fosse intorno a lui, ad una Beckham pietrificata nello scoprire chi fosse il sangue del suo sangue; non aveva stretto la mano di Mac anche se ne aveva sentito la necessità perché «we're all in this together» e voleva che lo sapesse, il battitore, che Arturo stava pensando quasi sicuramente le stesse cose che frullavano nella sua testa in quel momento.
    Ma le attenzioni dello spagnolo erano solo per quel cugino a cui non riuscì a chiedere nulla di utile se non un mezzo strozzato «¡estás de broma...! ¿no?» perché era un fottuto scherzo, quello, giusto?


    But the joke's on him -- perché era tutto vero.
    Non le aveva volute, quelle foto: le aveva lasciate a Gwen, a Oscar, ad un fottuto passante che si trovava da quelle parti in quel momento. Non gli interessava perché... Un conto era credere che la reincarnazione esistesse e accettarlo e farci compiti per qualche lezione e diamine! Persino leggere il passato di qualcuno su Twitter per fare conversazione. Ma accettare di aver vissuto una vita prima di quella e di aver deliberatamente deciso di... cosa, resettarla? Annullarla del tutto? Mandarla all'aria?
    Non aveva senso.
    Arturo aveva più domande di quante non ne avesse avute quando era giunto al parco convinto fosse lì per una lezione di leadership, ma non aveva nessuno a cui farle. No, bugia: avrebbe avuto così tante persone a cui chiedere, stando alle parole di Oscar, ma... nessuno a cui volesse davvero farle.
    Il rientro a scuola era ormai imminente, e come se non bastassero già l'ansia di tornare ad Hogwarts (punto, fine. era già ansiogena quella, come cosa) per l'ultimo anno (si sperava) e per l'ennesima stagione da Capitano perdente ora doveva aggiungerci anche il peso di quella... rivelazione. Non avrebbe voluto sapere, l'aveva detto che ignorare la lettera sarebbe stato forse meglio, eppure... non poteva non chiedere almeno una cosa. Almeno una.
    E l'aveva fatto.
    Tornanto a casa, aveva preso i suoi genitori e aveva posto una domanda ben specifica. Una che, a giudicare dall'espressione gelida di sua madre, pesava su quella famiglia già da tempo. Non aveva avuto bisogno di una conferma verbale -- anche se l'avrebbe preferita: lo sguardo colpevole di Paule la mascella serrata di Ana Teresa erano stati sufficienti per confutare ogni dubbio.
    Se n'era andato da casa affranto e dispiaciuto, non per aver scoperto la verità, non c'era nulla di male ad essere adottati, ma quanto più per il modo in cui, per diciotto anni, gli Hendrickson gli avevano mentito spudoratamente, alimentando in lui ogni pensiero negativo e dando credito a quella vocina che gli suggeriva, ormai nemmeno più velatamente, di non essere abbastanza per nessuno.
    Chiunque lo conoscesse anche un minimo, sapeva che bastava molto meno per mandarlo in para e scatenare in Arturo un vortice di pensieri negativi e incertezze e ripensamenti e delusioni e ansia generale e non sono abbastanza -- ed era proprio ciò che era successo in quei pochi giorni dalla rivelazione al rientro a scuola. Se pensava al pomeriggio all'Aetas, sentiva una morsa al petto, l'aria si faceva improvvisamente così fitta che respirare diventava un problema e il cuore prendeva a battere all'impazzata; non aveva mai avuto attacchi di panico, nemmeno durante le partite, ma il pensiero di quello che aveva scoperto e quello che lo aspettava lo portavano ad andarci molto molto molto vicino. E come se non bastasse, pensare al castello, pensare al quidditch, pensare a Mort, pensare a Costas, non gli rendeva le cose più facili: aveva ghostato tutti, aveva smesso di rispondere ai messaggi perché non dire nulla era l'unica cosa che riuscisse a fare. Con il suo vice, poi, era tutto così complicato. Gli ammonimenti di Willow Beckham erano stati chiarissimi, cristallini: “se ne fai parola con qualcuno, ti uccido”, e chi era lui per mettere alla prova la parola della cacciatrice avversaria?! Le avrebbe creduto anche se nello sguardo della ragazza non avesse letto la promessa che l'avrebbe fatto sul serio; d'altronde, l'aveva sempre terrorizzato da morire. Quindi, nonostante i passi avanti che avevano fatto solo qualche settimana prima, Arturo aveva completamente chiuso fuori il battitore: non un messaggio, non una lettera, non una parola.
    Non era un bugiardo, Arturo Maria, e non sarebbe mai riuscito a guardare Costas negli occhi e non dirgli nulla. Ma cosa doveva dirgli? Non lo sapeva. Non lo sapeva.
    Tornare al castello, dunque, non fu affatto semplice.
    Ogni fibra del suo corpo aveva protestato affinché rinunciasse -- perdere l'Espresso, sbagliare il binario, finire chissà dove: tutto era meglio che tornare a scuola e affrontare Costas. Affrontare Amalie. Affrontare Oscar. Affrontare la professoressa Winston. Loro... loro lo sapevano. In quanti, negli ultimi tempi, l'avevano guardato negli occhi e avevano taciuto quella verità? In quanti lo avevano guardato, magari immaginandosi come fosse (come sarebbe?) stato in un'altra vita? E quanti di loro, tirando le somme, avevano deciso che era meglio non saperlo? Che... non ne valeva la pena?
    Non riusciva a non portare i propri pensieri lì, su quella dannata conclusione.
    Non c'era una singola cellula del suo corpo che non gli suggerisse delusione e sfiducia in se stesso; non una minima parte di lui che si sforzasse di incoraggiarlo con un poco sentito ce la farai poco credibile, nessuna vocina a ricordargli che c'erano cose ben peggiori al mondo.
    Chiuso in se stesso, con la sua auto commiserazione e i suoi pensieri negativi, non riusciva a immaginare come potersi mostrare sicuro di sé, come poter fare il capitano di una squadra che non aveva mai davvero guidato -- non quando un minimo di fiducia in se stesso ce l'aveva avuta, figurarsi adesso che aveva perso ogni stabilità e certezza. Non ce la poteva fare. Esistere ad Hogwarts era già abbastanza complicato; camminare per i corridoi a testa bassa ed evitare gli sguardi altrui, evitare gli agguati della Crane e del Daniels; cercare di mantenere il più possibile le distanze da tutti gli altri. Il solo pensiero di affrontare la squadra a viso aperto e rimettersi in sella ad un manico di scopa gli faceva venire la nausea.
    Era pur sempre Arturo, alla fine: inetto, codardo, arrendevole. Non sarebbe mai stato in grado di presentarsi in allenamento e guardarli uno a uno mentre rinunciava alla spilla, non avrebbe saputo cosa dire, cosa fare. Lo sentiva nel panico crescente ogni volta che pensava a quell'oggetto custodito nella scatolina perché non era più degno di indossarlo; lo sentiva ogni volta che lanciava uno sguardo veloce e Costas e lo beccava a fissarlo, confuso e alla ricerca di una fottutissima spiegazione. Lo sentiva ogni volta che abbassava lo sguardo e lo mollava all'ennesimo silenzio.
    Per questo la scelta più facile era stata quella di convocare l'allenamento e chiedere al Coach Milkobitch di presenziare: aveva affidato a lui la spilla, con gli occhi lucidi ma la mascella serrata, fingendo di non vedere la delusione oscurare appena i lineamenti di Jeremy -- o forse era solo Arturo che stava proiettando le proprie emozioni sul coach, chi poteva dirlo. Lui, di certo, era deluso da se stesso. E, in piedi accanto all'uomo, aveva osservato in silenzio mentre veniva dato l'annuncio del suo abbandono, e sempre in silenzio aveva subito gli sguardi increduli e delusi e amareggiati e confusi e io-lo-sapevo dei suoi compagni; sguardi che non aveva ricambiato, ma il cui peso aveva gravato ulteriormente sulle sue spalle già provate. Quando Jeremy si era avvicinato a Costas per consegnargli la spilla, Arturo aveva girato i tacchi e se n'era andato.
    E il suo silenzio era continuato nei giorni a seguire: i commenti di Mort erano diventati ancora più spietati, se possibile, ed era chiaro che il minore si sentisse benissimo per averlo sempre saputo; Arturo lo lasciava fare -- se lo meritava e Mort aveva, forse per la prima volta in vita sua, ragione. Costas aveva smesso di chiedere spiegazioni, invece, forse quel gesto vigliacco era stata la proverbiale goccia che aveva fatto traboccare il vaso: Arturo non aveva avuto le palle di consegnare al suo vice la spilla di persona. C'erano tante cose che Arturo, col senno di poi, avrebbe voluto fare diversamente, ma non poteva. Doveva accettare le conseguenze della sua codardia e andare avanti -- fingendo che non fossero l'ennesimo colpo al suo già precario equilibrio mentale.
    Poteva superare quell'anno, evitando il più possibile i compagni, i conflitti, qualsiasi cosa. Per lo meno fino a che non fosse riuscito a ridare un senso a se stesso.
    Ce la poteva fare.
    Ce la potev- «...Joey?» la sorpresa di vedere il capitano blubronzo nella sala comune serpeverde, al rientro dalla corsa mattutina, lo sorprese al punto che si ritrovò a parlare ancora prima di rendersene conto. Era sudato, era stanco, era un sacco di cose, ma soprattutto era: confuso.
    E kinda spaventato -- Joey tendeva a fare quell'effetto.
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    «Ehm...»
    in un altro momento, Joey sarebbe stato fiero dei serpeverde che non gli stavano dicendo immediatamente dove si trovasse l'Hendrickson, probabilmente temendo il Moonarie fosse lì per prenderlo a calci in culo, ma quello non era un altro momento: quello era Joey incazzato nero, deluso, offeso.
    «senti» cercò di spiegare alla ragazza che lo guardava con occhi da cerbiatta «voglio solo-» (tirargli una testata per fargli tornare un po' di senno) «Joey?»
    Non ci fu bisogno di continuare la frase, visto che il grande ricercato era lì.
    Il corvonero si voltò di scatto verso il ragazzo, sguardo assottigliato. Sarebbe riuscito a non dargli una ginocchiata nelle palle per principio? (voce di mac nella testa che scongiura: «Non tutti li puoi convincere con le botte») Forse.
    Prese un grosso respiro, e si avvicinò verso di lui.
    «che cazzo ti passa per la testa?» quando? chi? dove? Perchè? ma di cosa stava parlando? Nella vita reale la gente non se ne esce con queste domande campate in aria. Lo fanno nei film, forse, dove si è appena vista la scena di cui il protagonista sta parlando, quindi chi è al cinema capisce; le persone normali non parlano così.
    Ma joey non era normale.
    Era ovvio stesse parlando del quidditch.
    Almeno per lui.
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    Fu istintivo per Arturo retrocedere di qualche passo nel notare lo sguardo serio di Joey posarsi su di lui. Che fosse successo qualcosa era indubbio - per quale altro motivo avrebbe dovuto spingersi così lontano dalla propria sala comune, altrimenti? E di solito, quella dei Serpeverde diventava campo da quidditch solo negli incubi dello spagnolo, quindi a meno che non si fosse perso qualcosa di recente, Joey non aveva alcuna ragione di essere lì se non: era successo qualcosa. E non c'entrava assolutamente nulla l'indole allarmista di Turo, no no.
    «che cazzo ti passa per la testa?»
    Oddio. Era una domanda a trabocchetto? Aveva detto o fatto qualcosa che non doveva?? Si era lasciato sfuggire qualche commento di troppo e aveva innescato l'ira funesta della Beckham? Joey era lì per avvisarlo?!?!? (No, col senno di poi avrebbe dovuto arrivarci da solo: in quel caso forse avrebbero mandato Mac... O forse no, la Beckham lo avrebbe atteso dietro ad un angolo appartato e avrebbe fatto sparire il suo corpo così come era successo con Chiaki.)
    E invece.
    Tu pensa: aveva davvero fatto qualcosa ma non pensava che a Joey potesse fregare qualcosa di quel che Turo decideva di fare con la sua spilla.
    Che ingenuo.
    «Io... non..» sguardo confuso puntato diritto in quello un po' meno sereno e pacifico dell'altro, una mano portata a scansare un ciuffo scuro appiccicato sulla fronte. «eh?» Non capiva. «A dire la verità: un sacco di cose Si domando, distratto, quanto Joey sapesse: Mac e Willow ne avevano parlato con il loro amico e capitano? O si tenevano il segreto facendo affidamento l'uno sull'altra, facendosi forza a vicenda? Doveva essere bello: avere qualcuno vicino che capisse. Sospirò, aggiungendo: «di che parli?» Non riusciva proprio a capire cosa volesse Joey da lui, perché fosse lì, come se Arturo non avesse già un fottìo di cose di cui preoccuparsi!! Lui e Joey non avevano molto in comune, se non i loro silenzi e la loro riservatezza e il modo in cui fossero tacitamente grati l'un l'altro per i momenti di calma in cui di solito cadevano quando si ritrovavano insieme. E il quidditch, immagino... chissà se valeva ancora, ora che Arturo non era più capitano e non aveva più modo di -- «oh.» dopo pochi secondi, capì.
    Si lasciò cadere sui gradoni di marmo alle sue spalle. Era ufficialmente: stanco.
    Passò entrambe le mani sul volto e poi le premette forte sugli occhi, fino a vedere un caleidoscopio di luci apparire nel buio. «Immagino tu abbia saputo.» Non vedeva come potesse importargli di lui o di quello che decideva di fare, ma d'altra parte avrebbe dovuto immaginarselo: per Joey non c'era cosa più sacra de(i suoi amici e de)lla squadra, e rinunciare alla spilla da Capitano era il più grande degli affronti e dei disonori.
    Ai suoi occhi Arturo doveva essere una delusione immane, così grande che meritava persino di essere giudicato e rimproverato di persona. Abbassò ulteriormente le spalle, senza guardare Joey. «Se sei qui per convincermi a tornare sui miei passi, hai sprecato energie e tempo. Se invece sei qui per farmi la predica e dirmi che avrei dovuto-»
    - cacciare le palle
    - assumermi le mie responsabilità
    - evitare di tornare al castello
    - consegnare la divisa, insieme alla spilla, perché immeritevole di indossarla
    - crescere e maturare
    (dai ne aveva sentite di tutti i colori)
    «-provarci di più e che sei deluso, beh» fece spallucce, e poi rimase in silenzio.
    Go for it, Joey. Non c'è cosa che Arturo non si sia già detto da solo, comunque.
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    «Io... non..» Il semplice fatto che Turo lo guardasse tanto confuso, solo vagamente allarmato dalla presenza del Moonarie lì, lo offese. Che cazzo di smidollato doveva essere, per non avere le palle di essere arrabbiato e dimostrarsi tale? Per non stargli rispondendo con tono duro almeno quanto quello di Joey? «A dire la verità: un sacco di cose.» sospirò Turo. Sbuffò dal naso il corvonero, stringendo i pugni. «di che parli?»
    Di cosa-.... di cosa parlava? Di cosa parlava?
    Davvero?
    con uno scatto joey spalancò le braccia in modo auto esplicativo, mentre con lo sguardo e le labbra strette fra loro faceva capire un "Secondo te?". Ovviamente parlava dell'argomento più importante del mondo.
    «oh.»
    eh.
    Joey non si sedette con lui sulle scalinate, trovando di nuovo anzi un po' patetica la reazione del serpeverde. Lo avrebbe voluto in piedi, offeso per quella imboscata, pronto a parlare (o forse litigare) per spiegare le sue (stupide) ragioni. Invece sembrava fosse appena stato sconfitto, nonostante si fosse inflitto da solo quella punizione, lasciando la spilla da capitano- no, peggio. Lasciando la sua squadra.
    «Immagino tu abbia saputo.» «non da te»
    e solo dopo averlo detto, dopo aver sputato le parole senza neanche pensarci, si rese conto di quanto quel dettaglio gli avesse invero fatto male più di tutto il resto.
    Non si giudicava una persona capace di fare amicizia. Il numero di persone che gli volevano bene - che lo sopportavano - era limitato, e anche per questo ci teneva tanto. Con Arturo forse non aveva il tipo di rapporto che aveva con i Freaks, o con i corvonero, ma era speciale a modo suo. Gli piacevano i silenzi, gli piaceva parlare con lui di scuola o guardare i suoi disegni e fargli sentire delle canzoni che gli trasmettevano le stesse emozioni dei personaggi rappresentanti... ma era sul quidditch che si era basata la loro amicizia, grazie ad esso che era nata. Come un gatto che si avvicina e si fa accarezzare solo dopo aver annusato la tua mano e deciso che non sei una minaccia, così Joey si era avvicinato al serpeverde, testando la sua passione per lo sport e trovando nei suoi pensieri al riguardo qualcosa di simile ai suoi.
    Si sentiva tradito dal fatto che non solo avesse deciso di mollare il quidditch, ma che non glielo avesse neanche detto, pur sapendo evidentemente che Joey si sarebbe offeso. Pur sapendo quanto per lui fosse importante.
    «Se sei qui per convincermi a tornare sui miei passi, hai sprecato energie e tempo. Se invece sei qui per farmi la predica e dirmi che avrei dovuto... provarci di più e che sei deluso, beh»
    Si morse l'interno della guancia rendendo ancora più severo lo sguardo, se possibile. Che cazzo di atteggiamento era? Che cazzo di atteggiamento era! Davvero sarebbe stato lì zitto, e basta? Ignorando a tal punto la rabbia di Joey?
    Sì, era lì per fargli la predica. Sì, era lì per dirgli che doveva tornare sui suoi passi. Sì, era deluso.
    E a quanto pareva Arturo lo sapeva, e non gli interessava.
    «ma vaffanculo»
    Per qualche secondo, restò in silenzio, la testa a ronzare, lo sguardo fisso sul ragazzo ormai perso sui gradini. Avrebbe dovuto andarsene, lasciare il ragazzo al suo autocompiacimento- ma non poteva. Non voleva.
    Crederci.
    Che fosse davvero tutto lì.
    «almeno...» sbuffò, scosse la testa, distolse lo sguardo. Ricominciò, gli occhi chiari di nuovo sull'Hendrickson, ma il tono di voce questa volta era meno arrabbiato rispetto alla frase detta precedentemente «almeno ti è mai piaciuto? giocare» era quasi... triste.
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    «non da te»
    A quelle parole, Arturo alzò lo sguardo fino ad incontrare quello gelido del capitano corvonero, e non riuscì a trovare in sé il coraggio per mantenerlo per più di qualche istante. Joey era una persona schietta e diretta, caratteristiche che avevano sempre affascinato lo spagnolo che, nella sua incredibile confusione e indecisione, nella testa aveva sempre troppa confusione per potersi permettere di esserlo allo stesso modo: non sapeva cosa volesse dire franchezza quando, anche per rispondere alla più banale delle domande (o delle accuse) entrava in paranoia e si faceva mille film diversi con almeno sei finali ciascuno. Invece Joey no: per lui era o bianco, o nero. Una cosa o era giusta, o era sbagliata.
    E, in quel caso specifico, non solo era sbagliata: ma era fottutamente inconcepibile.
    Riportò quindi lo sguardo ad osservare senza reale interesse i gradini, non avendo le palle necessarie per affrontare il Moonarie. Che poi, Joey era solo l'ennesimo nome che andava ad aggiungersi ad una lista così lunga che non si riusciva nemmeno più a vederne l'inizio. Tante le persone che aveva ghostato in quel periodo semplicemente perché non sapeva come affrontarle; si era rifugiato in nuove conoscenze più facili e che richiedevano meno energie, rendendosi conto solo troppo tardi che era un modo per evitare di scontrarsi con la realtà, e le difficoltà che essa comportava. Ma dovevano dargli tregua! Lui voleva solo vivere quell'ultimo anno se non in serenità almeno in pace; non chiedeva tanto, solo di poter sopravvivere.
    Tutti pronti a giudicarli, a dirgli come vivere la sua vita, in piedi con blocchi di pergamene pieni zeppi di consigli su come essere migliore, su come affrontare a testa alta le cose, su come essere meno pesante e piagnone; su come rinascere. Facile per loro, non avevano idea di cosa volesse dire essere Arturo. Solo pochi lo capivano -- e infatti lo lasciavano in pace.
    Sarebbe arrivato ad un punto in cui, finalmente, le cose avrebbero ripreso ad andare secondo il verso giusto: ma doveva arrivarci da solo.
    E con i suoi fottutissimi tempi.
    Avere gente che si preoccupasse per lui era esattamente ciò che non aveva mai voluto,non tanto per se stesso ma perché si rivelava sempre uno spreco del loro tempo.
    «ma vaffanculo» al quale Turo non rispose: cosa avrebbe dovuto dire? (Doveva aspettarselo che) Joey avrebbe voluto che mostrasse un minimo di palle, che cacciasse fuori il carattere e che rispondesse a tono, ma era una battaglia che Chelsey Weasley in persona aveva già perso (e infatti lui aveva quittato la squadra) e che altri dopo il corvonero avrebbero continuato a perdere (ciao Joni).
    Non era nella sua indole (avere le palle) cedere ai conflitti, anzi! Li evitava il più possibile... perché di solito era lui a rimetterci.
    E, ultimo ma non meno importante, perché era un vigliacco. Che poi rispondeva anche alla tacita domanda di Joey “perché non me l'hai detto tu stesso” -- che era la stessa cosa che Costas gli chiedeva da tempo e alla quale Turo non aveva mai dato una spiegazione. Anche se il fatto che non rispondesse era già di per sé una risposta.
    «almeno ti è mai piaciuto? Giocare»
    Con ogni probabilità, l'unica domanda che Arturo non si sarebbe aspettato. E infatti alzò gli occhioni azzurri su Joey, puntando lo sguardo confuso in quello ora meno adirato dell'altro. Aveva una risposta pronta? Ovvio che no, dai. Come se non fosse prevedibile.
    Doveva rifletterci su.
    Sì, in parte si era divertito: il primo anno da riserva era stato bello far parte di un gruppo, essere vittima innocente delle battute del Motherfucka o della brutalità di Sersha, ringraziava per l'amicizia semplice e sincera di Charles, e per aver fatto sì che la sua performance sul campo lo portasse nell'orbita di niente popò di meno che Heather Morrison. Si era sentito persino lusingato della proposta dell'allora Capitano, che lo aveva preso da parte affidando a lui la sua spilla. E della fiducia che lo stesso coach Milkobitch aveva riposto in lui, spalleggiandolo e supportandolo quando la situazione gli sfuggiva di mano (quindi spesso).
    Aveva avuto un progetto, quell'estate: unire la squadra e renderla un vero team, qualcosa di cui essere fiero. Poter finalmente dire di avere più che dei semplici compagni di squadra; c'aveva creduto, fortissimo. Aveva fatto schemi di gioco, aveva pensato agli allenamenti, a cosa dire, a cosa fare, a come renderli... coesi, un gruppo.
    Poi erano subentrati i mille pensieri, i dubbi che l'avevano tenuto sveglio la notte e avevano in breve soppiantato i buoni propositi; avevano ribaltato le carte in tavola, avevano sottolineato tutti i motivi per cui non meritava di indossare quella spilla e pensare a come zittire quelle voci era diventato più importante che tentare di dimostrare quanto si sbagliassero. E non avevano aiutato certo alcuni elementi nella squadra, che se possibile si erano insinuati ancora di più nelle insicurezze del capitano e l'avevano fatto dubitaredi ogni cosa: e se avessero ragione loro? E se fossi qui ad occupare il posto di qualcun altro? E se non ne fossi in grado? E se fosse tutto sbagliato? E se, e se e se e se es....???
    Da lì a perdere di vista ciò che era davvero importante, poi, era stato un attimo: non riusciva più a pensare al gioco, e quello si era tradotto in delle pessime prestazioni da parte sua durante le partite; non era riuscito a riprendere il controllo della situazione, che gli era completamente sfuggita di mano al punto da portarlo persino a inveire contro Mac, tanto lo stress e la frustrazione e il malumore. Era stato tutto terribile. Giocare.... beh, non era nemmeno più preso in considerazione dal serpeverde. Aveva smesso di essere un gioco quando aveva indossato quella fottuta spilla, e se n'era pentito così tanto da arrivare persino a pensare che forse, dopotutto, il Quidditch gli piaceva solo se visto dagli spalti.
    «Sì... abbastanza.»
    Ovviamente fu tutto quello che si limitò a dire, poi ci domandiamo perché non riesce a superare i propri problemi ma okay, andiamo avanti.
    «È stato... beh, un'esperienza, suppongo.» Come poteva affrontare quel discorso con Joey senza mancare di rispetto alla cosa più importante per il Moonarie?? Non era certo di saperlo fare, qualsiasi cosa avesse detto avrebbe sicuramente ferito l'altro. Così si limito ad un neutrale «ci sono persone tagliate per questo sport,» Lo guardò, allungando quel silenzio un po' più del dovuto: tu sei una di quelle, ma non lo disse, infondo Joey lo sapeva, «e altre no.» Fine della storia. Era andata così.
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    Che Turo non fosse esattamente una persona da mille parole lo sapeva perfettamente: era quello che aveva fatto avvicinare Joey, il suo internal awkward hidden charm, ma da qui a ricevere solo silenzio ne passava. C'erano momenti in cui condividere l'assenza di suoni era piacevole, e altri in cui spiegarsi era d'obbligo.
    Il livello di rabbia di Joey non aumentò alle non risposte dell'altro - era già al picco - ma di certo la sua frustrazione e la sua pazienza non ne beneficiavano troppo. Era confuso, e avrebbe voluto sfogare tale confusione prendendo la testa dell'altro e sbattergliela contro i gradini. Chissà, magari lo avrebbe aiutato a riflettere sui suoi errori meglio di quanto isolarsi non stesse facendo.
    Arturo alzò lo sguardo, questa volta apparentemente intenzionato a non riabbassarlo dopo cinque secondi, e Joey lo resse, aspettando.
    «Sì... abbastanza.»
    «abbastanza ripetè a denti stretti.
    «È stato... beh, un'esperienza, suppongo.» Un'esperienza. Per lui essere stato capitano serpeverde era stato come andare ad un workshop di giardinaggio un pomeriggio che si annoiava, insomma. «ci sono persone tagliate per questo sport, e altre no.»
    «che cazzo vuol dire.» strinse i pugni. Era quella la sua risposta? Non sono tagliato per il quidditch? Arabells Dallaire era nata cieca, ed era diventata una campionessa. Ragazzi special erano stati allontanati dal campo da quidditch, e avevano pregato le loro squadre di farli comunque allenare con loro nonostante non potessero più usare le scope magiche. Lui si era rotto una mano che ancora gli faceva male come l'inferno quando la sforzata, impedendogli di giocare come cercare per paura di mollare la sua squadra quando più avrebbero avuto bisogno di lui.
    E Turo pensava di essere limitato.
    Di non essere tagliato per quello sport.
    «Il Quidditch è per tutti» categorico.
    Sì, ok, sapeva che non a tutti piaceva e sta minchia, cazzi loro che si perdevano l'esperienza più bella del mondo, ma restava il fatto che se gli piaceva, avrebbe dovuto continuare a giocare. «non me ne fotte una sega se non ti senti adatto come capitano, lo capisco» arricciò il labbro. Cristo, si ricordava quando, presa la spilla dal capitano prima di lui, i giocatori se n'erano andati. Si ricordava quando lui, Joseph fucking Moonarie, il ragazzo che viveva per la filosofia "fatti i cazzi tuoi e campi cent'anni", era dovuto andare di corvonero in corvonero per riformare una squadra, chiedendo fiducia che non poteva assicurare di meritare. «ma perchè cazzo hai smesso di giocare, se ti piace?» Infilò le mani in tasca, giusto per farne qualcosa «da come giocavi, dal tuo sguardo sul campo, pensavo ti piacesse più di abbastanza. Ora che hai mollato così facilmente, non ne sono più così sicuro.»
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    «Il Quidditch è per tutti» Fece spallucce: sì, beh, tante cose erano per tutti, non voleva dire che Arturo rientrasse in quella categoria; c'erano sempre le eccezioni.
    «non me ne fotte una sega se non ti senti adatto come capitano, lo capisco» Ah no? Non era lì per riprenderlo, come tutti gli altri, sottolineando quanto fosse stato cretino/inetto/stupido/codardo/e via dicendo, a rinunciare alla spilla? Quella era una novità. Arturo alzò entrambe le sopracciglia, non in un gesto di sfida (quando mai.) quanto più di incredulità: certo che era lì anche per quello, che volesse ammetterlo o no.
    «Te l'ho detto, mi piaceva abbastanza.» Aveva dimenticato quando era stata l'ultima volta che era salito su un manico di scopa felice e spensierato e si era goduto ogni momento del gioco. Si strinse nelle spalle, un sorriso poco convinto a curvare verso l'alto le labbra strette tra loro. Ma Joey non mollava la presa, e continuava ad insistere.
    Lo sapeva, l'Hendrickson, che il biondo sapeva essere una pressa quando si trattava di Quidditch e lo aveva sempre particolarmente ammirato per l'ardore con cui difendeva lo sport, la passione con cui ne parlava, e la grinta con cui lo praticava. Tutte cose che forse Arturo in vita sua non aveva mai provato, se non in relazione al disegno. Ma era un altro discorso, quello. Per Joey il Quidditch era... quasi sacro. Okay, senza il quasi. Era normale (e avrebbe dovuto aspettarselo) che prima o poi si sarebbero trovati ad affrontare quell'argomento ma Turo... non era pronto. E, sinceramente, non ne aveva voglia. Perché non potevano lasciarlo in pace e fargli vivere (male) le sue (pessime) decisioni? Perché tutti sentivano di avere il diritto di fargli domande, o chiedere spiegazioni, o fargli notare quanto avesse sbagliato? Perché non potevano... lasciarlo stare. Punto, stop.
    Non ce l'aveva con Joey nello specifico, lui era solo uno dei tanti... dei troppi. Socchiuse gli occhi e prese un respiro profondo: non avrebbe risposto male a Joey, non avrebbe lasciato che il malumore prendesse il sopravvento, che la vocina interiore che gli ripeteva di essere solo una delusione parlasse per lui. Voleva mantenere quella discussione il più pacifica possibile perché era consapevole che un qualsiasi passo falso avrebbe rovinato per sempre quell'amicizia e non avrebbe saputo da dove iniziare per poterla poi aggiustare.
    Osservò Joey mettere le mani in tasca e distrattamente pensò che almeno non ce le avrebbe prese.
    Non ancora, comunque.
    Era una piccolissima vittoria.
    «da come giocavi, dal tuo sguardo sul campo, pensavo ti piacesse più di abbastanza. Ora che hai mollato così facilmente, non ne sono più così sicuro.»
    Ma quale sguardo, avrebbe voluto chiedere, perché figurarsi se Arturo Maria Hendrickson potesse credere davvero che qualcuno (chiunque) prestasse attenzione a lui; che ne sapeva Joey, o Milkobitch, o chiunque altro del suo sguardo mentre giocava, no? Ma rimase in silenzio, perché non aveva voglia di affrontare la discussione. Non voleva che Joey male interpretasse le sue risposte, così rimase in silenzio, occupato a formulare nella sua testa una frase che non fosse fraintendibile né suscitasse ulteriore rabbia nel corvonero.
    Numerose risposte infantili e piccate vorticavano nella mente, e fremevano all'idea di esser lasciate a briglia sciolta -- e un River, forse, da quel poco che aveva voluto ascoltare a riguardo, non si sarebbe sottratto alla possibilità di rispondere a tono a delle accuse. Ma lui non era River. Era Arturo.
    Così mandò giù quel “beh, chiaramente non vedi bene perché lo sguardo di cui parli non c'è mai stato” e il “scommetto che quest'idea di un me smidollato te l'eri già fatta lo scorso anno, dopo la disastrosa partita che abbiamo giocato contro” e si alzò in piedi. «Non è solo per la questione di non sentirmi all'altezza di essere Capitano.» Infondo era vero: quello era uno dei motivi, non l'unico. Ce n'erano altri e lui non aveva voglia di condividerli col maggiore. «Joey, mi dispiace ma... » allargò le braccia, arreso. «Giocare mi è piaciuto abbastanza da tenermi sulla scopa per due stagioni. Questo è l'ultimo anno di scuola, ho altre priorità, devo concentrarmi sullo studio» bugia, «e su quello che farò dopo i M.A.G.O.» mezza verità. «È giusto lasciare spazio a chi vuole giocare davvero, a chi -» se lo merita? Meh, «- può, e vuole, dedicare al Quidditch più tempo di quanto non possa garantire io.» Lo osservò un attimo, stringendo le labbra. La prossima frase avrebbe potuto farlo ragione oppure mandarlo completamente su tutte le furie, Arturo ne era consapevole ma doveva dirglielo. «Lo faccio per la squadra.» Anche se non l'avrebbe di certo accettata come scusa, il serpeverde sentiva che Joey avrebbe in qualche modo compreso quell'affermazione: se, però, per lui farlo per la squadra significava rimanere, stringere i denti e affrontare qualsiasi problema, anche il più ostico, per Arturo voleva dire farsi da parte e liberarli da tutti i fardelli e le costrizioni che si portava dietro. «Mi dispiace -» di averti deluso? Di non averci provato di più? Di essere così? Di non avere le risposte che vorresti sentire? Beh, che decidesse Joey per cosa Arturo fosse dispiaciuto, tanto qualsiasi cosa avesse aggiunto lo spagnolo per terminare quella frase, non sarebbe andata bene.
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    Porca di quella puttana.
    Ma che problemi aveva arturo maria hendrickson? Joey era abituato a essere considerato quello apatico, quello senza emozioni, ma in confronto al pacato serpeverde, che in quel momento sembrava assolutamente fregarsene del biondo fra una scrollata di spalle e l'altra, era davvero la persona più espressiva del mondo.
    Chissà se era arrivato il momento di dare a Turo una botta di vita. In faccia.
    Joey era andato lì per litigare, e si ritrovava a sentirsi in colpa, come un omaccione che inveisce contro un cucciolo di tartaruga indifesa.
    «Non è solo per la questione di non sentirmi all'altezza di essere Capitano.» Joey attese un seguito. Una spiegazione. Se non era per quello, per cosa? Again: avrebbe accettato il ritiro come capitano, era quello da giocare senza chiedere prima consiglio ai suoi amici (o almeno, non a lui( che lo faceva fumare. «Joey, mi dispiace ma... giocare mi è piaciuto abbastanza da tenermi sulla scopa per due stagioni. Questo è l'ultimo anno di scuola, ho altre priorità, devo concentrarmi sullo studio, e su quello che farò dopo i M.A.G.O.» Le narici del maggiore si allargarono con sdegno. Parlava a lui di studio? Di priorità? Di non riuscire a fare tutto, quando Joey cercava di prendere voti alti per un domani, di gestire una squadra con amici a cui, lo sapeva, del quidditch fuori da hogwarts si sarebbero scordati, e lavorava per mettere da parte soldi? Il tutto con un fottuto casino in testa dopo sballonzolamenti temporali e AU e guerre e morti e Sandy e tutta la banda?
    Pronto a rispondere piccato, non fu abbastanza veloce per inserirsi prima che l'hendrickson continuasse. Si vedeva che non era abituato a conversare. «È giusto lasciare spazio a chi vuole giocare davvero, a chi... può, e vuole, dedicare al Quidditch più tempo di quanto non possa garantire io.»
    Non poteva andare peggio. Non poteva dire cose più stupide alle orecchie del Moonarie.
    E poi
    E poi.
    «Lo faccio per la squadra.»
    Turo: joey capirà : )
    Joey: sta minchia.
    «quindi per te può giocare a quidditch solo chi ci vuole dedicare la vita» sbuffò quella che non era esattamente una risata, ma poteva assomigliarci, se avesse avuto meno rabbia mal repressa dentro. «chi vuole giocare più di ogni altra cosa, non importa se gli piace abbastanza e vuole stare in campo perchè lo rende felice e basta» scosse la testa. «Quindi pensi che io sia così coglione da pensare che a Mac, a Gideon, fregherà una sega di continuare a giocare dopo hogwarts. Che li obblighi a fare un cazzo di sacrificio di sangue per dedicare alla squadra tutto il loro tempo sempre spoiler: sì lo faceva. Ma meme corvonero a parte fosse stato per lui avrebbe preteso ancora di più, dai, quindi era già clemente !!11 «Che io mi ci impegni tanto perchè sono certo che sarà il mio futuro» strinse i pugni nelle tasche. «o sei stupido, o mi stia dicendo cazzate per non dirmi il vero motivo» non perchè glielo leggesse negli occhi, non perchè conoscesse arturo così bene, ma semplicemente perchè «vaffanculo hendrickson, non sei speciale: abbiamo tutti altri cazzi per la testa» era inconcepibile che concentrarsi sullo studio fosse abbastanza per mollare il quidditch. Incredibile ma vero, il fatto che Joey avrebbe vissuto di quidditch, non voleva dire che si illudesse che sarebbe successo una volta uscito da scuola: alla sua età, c'era gente che già giocava nella nazionale, dove lui neanche era mai stato chiamato da un talent scout. Sognarlo non voleva sempre dire crederci. «e a volte questo basta per voler giocare e pensare ad altro che non sia la tua merda di vita per un'ora, e-» fece una smorfia, cercando di elaborare il discorso. senza successo. «e- ok. Fanculo. capacità di argomentare: diesci. Tolse le mani dalle tasce per alzarle al cielo, una penna magicamente apparsa fra le dita. L'avrebbe usata per accecare turo? «fai quel che minchia ti pare. non capisco perchè non sei rimasto neanche come riserva, ma non devi dirlo a me. Se ti manca volare-» Afferrò dall'altra tasca un foglietto, e iniziò a scribacchiarci sopra. «questi sono gli orari di allenamento dei corvi. E qua quelli di quando il campo è libero e io non ho lezioni; se non lo prenotano altri capitani nel frattempo, probabilmente mi troverai lì. Non sempre a giocare, perchè ho un fottuto diploma da prendere anche io. Ma sarò lì, se vuoi» Frecciatina intendend. Alzò lo sguardo truce su quello dell'altro, e gli lanciò il biglietto. «se non verrai sticazzi, ma mi farebbe piacere non mollassi qualcosa che ti fa felice solo perchè non sai come affrontare i tuoi problemi.»
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    Ma che problemi aveva arturo maria hendrickson?
    Narratore: tanti. Ma sorvoliamo o qui ci stiamo fino a Capodanno.

    Aveva fatto il suo monologo, aveva tentato di esprimere il suo punto di vista (e fallito nell'intento) e poi era tornato silenzioso perché arrivato a quel punto, non sapeva più cosa dire. Quando s'era svegliato, quella mattina, non aveva immaginato di dover affrontare quella conversazione con Joey e le cose inaspettate, se non si fosse ancora capito, tendevano a mandare lo spagnolo in tilt: non sapeva come affrontarle e non reagiva mai, mai, nella maniera corretta. Perciò, ritrovarsi incastrato in quella situazione l'aveva messo a dura prova ed era certo di aver fallito su tutti i fronti, non serviva prendere nota delle narici del compagno, pronte a sputare fumo da un momento all'altro, né l'espressione dura e ferita che sembrava avere – sempre che Turo l'avesse letta in maniera corretta.
    Stirò le labbra tra loro, in un'espressione mortificata, attendendo la reazione di Joey che, già se lo immaginava, sarebbe arrivata impetuosa e impossibile da schivare. Si ripetè, tra sé e sé, che poteva farcela a sopportarla senza scoppiare a piangere – anche se dentro voleva già un po' morire.
    «quindi per te può giocare a quidditch solo chi ci vuole dedicare la vita» non si era aspettato una risata da parte del corvonero, per quanto incazzata questa potesse suonare; perciò riportò lo sguardo azzurro, confuso, sul compagno e dischiuse appena le labbra, pronto a giustificarsi – ancora, e sempre. Ma Joey continuò prima che Arturo potesse inserirsi (di nuovo) nella conversazione, e il serpeverde lo lasciò fare: era raro che Joey parlasse così liberamente e con così tante parole, sarebbe stato davvero maleducato da parte sua interromperlo. E poi, una parte di sé riteneva di meritarsela quella lavata di capo, perciò lo lasciò fare.
    «Quindi pensi che io sia così coglione da pensare che a Mac, a Gideon, fregherà una sega di continuare a giocare dopo hogwarts. Che li obblighi a fare un cazzo di sacrificio di sangue per dedicare alla squadra tutto il loro tempo sempre. Che io mi ci impegni tanto perchè sono certo che sarà il mio futuro» Parole dure, quelle del capitano blubronzo, ma dirette e oneste; qualcosa che costrinse Arturo ad abbassare ancora di più la testa, incapace di trovare le parole per dirgli che no, non era affatto quello che pensava – non del tutto, almeno. Ammirava il modo con cui Joey, JOEY! Fra tutti, aveva riunito nello stesso team persone come Gideon e Mac e Willow e li aveva resi non solo compagni di squadra, non solo colleghi, ma anche amici. Okay, a Mac e Gid forse non interessava continuare a giocare post-diploma – ma nel quidditch al castello avevano trovato di più del semplice gioco. Ed era anche merito di Joey. Arturo... quei meriti non li aveva. Non aveva costruito nulla di buono. E sì, sì cazzo, gli stava anche omettendo delle verità che non spettava a Joey conoscere – non voleva (e non doveva) renderlo partecipe di quello che gli passava davvero nella testa, ma non stava mentendo, non del tutto.
    Non aveva alcuna intenzione di insistere sulla questione, o spiegargli che affrontare Costas, affrontare Mort, affrontare la squadra in generale, gli creava più ansia che altro; che il piacere di giocare era stato soppiantato e distrutto totalmente da ben altri problemi; che non trovava in quello sport la valvola di sfogo necessaria per affrontare i propri problemi – perché alcuni di essi nascevano proprio lì. Alzò le spalle, ancora una volta senza fornire una vera risposta; non avrebbe biasimato Joey se gli avesse spaccato la testa sulle scale solo per cavare qualche parola in più di quelle misere rispostucce che gli aveva fornito fino a quel momento.
    Ma, con suo grande stupore, non arrivò alcun linciaggio pubblico: wow. Per un attimo ci aveva davvero creduto sentendo quel «e- ok. Fanculo.» ma era arrivato solo un foglietto lanciato con stizza ed evidente rabbia. Un foglietto che Turo aveva afferrato (ed accettato) subito, un riflesso dettato dall'educazione più che da altro; un riflesso di cui non si pentì, perché lasciare quell'invito in sospeso avrebbe significato rifiutare a prescindere il gesto e... Turo non era ancora sicuro di ciò che avrebbe fatto. Accettare? Non accettare? Boh, lo avrebbe scoperto con il tempo, immaginava.
    Lo sguardo azzurrò riposò qualche secondo più a lungo del dovuto sugli orari, mentre Joey lo informava senza troppi complimenti che poteva fare quel che voleva, sticazzi, ma avrebbe avuto piacere nel vederlo non mollare qualcosa che lo rendeva felice.
    Era una bella domanda, perché arrivato a quel punto Arturo stesso non sapeva più cosa lo rendesse davvero... sereno, ecco. Felice era davvero un'aspirazione troppo alta. Gli bastava sentirsi meno.......... meno. Stop.
    Fece comunque un respiro profondo e lo ringraziò. «Grazie.» Ah però, you're doing amazing sweetie. Alzò gli occhi su Joey e tentò di riservare lui una smorfia – che non era proprio un sorriso, ma quasi. «Non... non ti prometto nulla ma grazie.» Come esprimere dei concetti a parole? Ah boh, Arturo Maria Hendrickson non lo sapeva. Parlava due lingue e non era capace di spiegarsi in nessuna delle due, ottimo. «Cioè non sto dicendo che non lo prenderò in considerazione, eh, davvero a-apprezzo il gesto. Ma non so cosa.. di cosa ho... cioè... non lo so.» Soffiò via le ultime parole con rassegnazione. Come si affrontava la vita? Chiedo per un amico. «Gracias Ancora una volta, perché dopotutto era sincero – anche se disagiato. «E in bocca al lupo per il campionato...» perché, a dirla tutta, se c'era una squadra su cui Arturo avrebbe sempre scommesso, quella era Corvonero. , pure quando in campo gli facevano il culo; specialmente quando in campo gli facevano il culo. Non era un segreto che tutto quello che l'Hendrickson aveva voluto, per Serpeverde, era diventare un gruppo unito come i blubronzo; li aveva sempre presi come modello.
    Cercò di tirare ancora un poco più su l'angolo destro della bocca, in un mezzo sorriso flebile, poi si alzò per... accompagnare Joey all'uscita? Indicargli la strada? Stringergli la mano....? Era in imbarazzo, e incerto su cosa fare.

    (Ma forse Joey se ne stava già andando, chissà, immagino lo guarderà andare via? IDK ARI SEND HElp) (forse su questo disastro di post si chiuderà la flash wHo kNoWS)
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