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Libera?

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    jeremy a. milkobitch
    Tamburellava le dita sul tavolino rotondo, Jeremy Albert Milkobitch, tenendo gli occhi azzurri fissi sulle due ragazze sedute con lui. «quindi…» chinò il capo sulla pergamena davanti a sé, osservando la lista che aveva stilato in quei giorni. Si lasciò sfuggire un sospiro dalle narici, stringendo poi le labbra tra i denti. «niente mazze chiodate appese alle pareti…» «o sotto le sedie.» sollevò lo sguardo per ricambiare quello della sua assistente, sempre cordiale e dolce: le voleva un mondo di bene, e non avrebbe smesso di farlo solo perché sapeva come spaccare simili gioie al ventunenne, ma ciò non lo lesinò dal concederle un broncio intristito. Quindi, rivolse la propria attenzione all’altra cameriera del Madama Piediburro; a lei, Bells ne aveva addirittura regalata una all’ultima moda, perciò confidava lo capisse e lo appoggiasse. «potrebbero sempre essere utili.» sostenne, le sopracciglia arcuate e le spalle tirate su.
    Sinceramente, non gli era sembrata una proposta tanto assurda, ed avrebbe continuato a considerarla accettabile nonostante fosse destinata ad essere cancellata dall’elenco da una semplice linea d’inchiostro: non tutti gli appuntamenti che avevano luogo in quel locale avevano il lieto fine che gli avventori speravano di ottenere, ed alcune delusioni d’amore sapevano essere tanto scottanti da lasciare un segno indelebile, una cicatrice nel petto che faticava a rimarginarsi. Immaginava, il coach di Hogwarts, che una mazzata sui denti rifilata al pezzo di merda di turno potesse essere alquanto terapeutica per chi veniva ferito sotto al suo tetto.
    Lui, fosse stato un cliente, l’avrebbe voluta – ma non era un cliente, e sentiva che difficilmente lo sarebbe stata gente che condivideva il suo modo di pensare.
    «non lo so, jeremy,» appunto, nemmeno Chouko gli dava ragione. «mi sembra un po’… estremo?» il Milkobitch schioccò la lingua contro il palato, abbandonando la schiena contro la sedia ed incrociando le braccia al petto. Se l’era aspettato dal principio quel voltafaccia da parte delle ragazze, ma «dovevo provarci» doveva provarci.
    Un po’ con tutto, e un po’ per tutto.
    Non era come sostituire un perennemente assente professore di Erbologia ad Hogwarts, o ricoprire il ruolo di allenatore di Quidditch nella medesima scuola. Quel locale, quella presa in gestione inaspettata – tanto per lui quanto per chiunque altro – era un mettersi in gioco, da parte dell’ex Tassorosso, completamente nuovo e per il quale non aveva davvero ricevuto una preparazione adatta.
    Non sapeva davvero come ristrutturare un posto del genere, coordinare entrate ed uscite, o attirare la clientela; non aveva la benché minima idea di come amministrare un qualcosa che fosse completamente suo, e per il quale non avrebbe poi dovuto rispondere a chicchessia. Si sentiva esattamente come un lanciatore di coltelli bendato con le mani sudate e tremanti, con la sola differenza che forse lui non avrebbe rischiato di uccidere un volontario legato addosso ad una parete di legno (un forse molto grande, dal momento che gli avevano concesso di mettere un tiro a segno su di una parete).
    Voleva solo fare tutto nel modo migliore, ed a quel punto l’unica cosa ben riuscita era la pittura – rossa e bianca, niente di troppo diverso da quel che era originariamente il Madama, ma abbastanza da renderlo un po’ più moderno; il prossimo passo sarebbe stato quello di dare fuoco a tutti quei merletti e trine pastello che da sempre aveva detestato, e che in quell’istante erano ammassati ad un angolo della stanza.
    Forse aveva esagerato firmando quel contratto, e magari era ancora in tempo per rincorrere il vecchio proprietario e lasciargli le chiavi della baracca, confessandogli quello fosse solo uno scherzo e dovesse trovare qualcun altro che mandasse avanti l’attività, perché lui non ne era in grado.
    Scosse la testa impercettibilmente, scacciando quel pensiero dalla propria mente: dopotutto, il massimo che potesse succedergli nel caso non fosse andata bene quell’esperienza, sarebbe stata la perdita totale dei propri averi che aveva investito in quel posto, e sarebbe stato costretto a vivere negli spogliatoi del Castello per anni. C’era di peggio. «ma ne terrò comunque una dietro il bancone,» alzò le mani, arcuando entrambe le sopracciglia. «potrebbe sempre servire.» a cosa, esattamente, ancora non poteva saperlo, ma nel dubbio preferiva sempre tenere una mazza da baseball sottomano.
    Sollevò lo sguardo verso il soffitto, portando entrambe le mani a sfregare la faccia. «cosa c’è sulla lista, poi?» domandò tra le dita appena dischiuse, facendo arrivare ad Erin e Chouko soltanto un suono soffocato.
    Inspirò, sentendo la pergamena scivolare sul tavolino. Avrebbe mentito, sostenendo di ricordare cosa avesse scritto lì sopra: l’aveva stilata dopo troppi biscotti di Erin, non poteva pretendere troppo.
    «dr- jeremy…»
    «cosa.»
    «hai davvero… scritto “draghi liberi”… tra le opzioni… ?» ecco, appunto. Così, di botto, senza senso.
    Chissà qual era il contesto.
    «… no? niente draghi?»
    Niente draghi.

    Tranne quelli che avrebbero visto i clienti con le tisane speciali ed i biscotti alle erbe.
    Forse era quello, ciò che intendeva con draghi liberi.

    ***


    Dietro al bancone, Jeremy chiuse gli occhi, massaggiando la radice del naso con pollice ed indice. «non serviamo shottini» svelò con tono calmo l’atroce realtà dei fatti ad un Sunday De Thirteenth particolarmente triste e confuso, e non per la prima volta in fin troppo poco tempo.
    «quindi nessun giro gratis?»
    «no, sandy»
    «ma è l’inaugurazione!»
    «l’inaugurazione di quello che non è un pub» strinse le labbra tra di loro, accennando un sorriso al Tassorosso. «ma ci sono dei dolci gratis per oggi,» si avvicinò maggiormente al ragazzo, sporgendosi appena sopra al bancone. «prova quelli, li ha fatti erin» a buon intenditore, poche parole.
    Quando si fu allontanato, il Milkobitch tornò ad osservare il nuovo Madama Piediburro – aveva anche pensato di cambiargli il nome, ma magari quel cambiamento poteva aspettare ancora un po’. Lasciò scivolare le iridi azzurre dalle pareti tinte senza un’apparente logicità di rosso e bianco (aveva pensato di farle a strisce, ma gli sapeva troppo di vecchio), ma in maniera abbastanza armoniosa da non essere di disturbo, ai tavolini rotondi sistemati in ordine sparso per tutta la sala, fino ai numerosi Romnium che zampettavano felici tra le sedie e le gambe dei clienti, o che piuttosto si facevano coccolare sulle loro gambe.
    Tutto sommato, non era venuto fuori così male. Decisamente molto sobrio rispetto a come lo aveva pensato inizialmente – ma gli era stato fatto notare che il suo modo di pensarlo inizialmente era più vicino alla location di un rave party piuttosto che non ad una sala da tè –, ma ci sarebbe stato un sacco di tempo per aggiungere cose. Per il momento, gli unici ornamenti degni di nota erano i vasi di piante disposti un po’ ovunque ci fosse lo spazio necessario affinché non fossero d’intralcio, ed altri più piccoli su ciascun tavolino, ognuno con una pianta differente a dare il nome al tavolo stesso: era più che altro utile a loro per sapere dove portare le comande, ma aveva comunque il suo perché.
    Non c’erano molte distrazioni, ma perché quella non era pensata per essere una sala giochi, o un bar, o chi per essi: quello sarebbe stato il posto dove la gente andava per dichiarare il proprio amore beccandosi un due di picche, e quale attrazione migliore del drama per gli altri ospiti?
    Per l’inaugurazione, oltre che a bevande e dolciumi in omaggio come di consueto, avevano però pensato di spostare i tavoli in modo da lasciare un po’ di spazio per un palchetto improvvisato – con tanto di microfoni, proiettore e… CantaTu.
    Sì, la versione povera del karaoke babbano.
    Proprio lei.
    «run…» fu proprio a quel pezzo di locale che il Milkobitch si avvicinò, schiarendosi la voce e gesticolando con la mano verso la sorella. Perché, naturalmente, chi più della Crane avrebbe mai potuto apprezzare un simile reperto storico, monopolizzandolo da… quanto tempo? Chi lo poteva dire. «ci pensi tu qui?» a fare cosa? Boh – chiamare il prossimo segnato, volente o nolente, per deliziare il pubblico con la propria soave voce, magari. O quello che le pareva, insomma: finché non gli avesse distrutto il locale, avrebbe avuto carta bianca. «ho… davvero troppo da fare.» aiutare Erin e Chouko che correvano da una parte all’altra del locale, per dirne una.
    s.y.l.d.d. @hufflepunk
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