I can do this all day

elwyn x sherry

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    Sherry ed Elwyn si presentano ad uno speed date dove l'unico obiettivo è lamentarsi.


    Con il passare degli anni, Elwyn Huxley aveva imparato a conoscere le donne quel tanto che bastava per convincersi che un equivaleva a un no, un no a un e un fai pure, figurati a un se ti azzardi anche solo a provarci, ti ammazzo. Non sempre, certo, e spesso il discorso non poteva essere circoscritto in modo così banale. Talvolta un no rimaneva tale. In altre circostanze, conosco il tuo segreto non era una semplice battuta, un’esca lanciata in mare nel tentativo di farlo abboccare, ma un sul serio, conosco il tuo segreto – e lo aveva sperimentato in così tante occasioni da rendere palese quanto fosse incapace di mantenere la sua vita privata come tale. Infine, capitava anche che un voglio dipingerti come una delle mie ragazze francesi fosse utilizzato quasi del tutto letteralmente, fino a spingerlo ad accettare l’insolita proposta di farsi ritrarre, nudo, mentre era intento ad esprimere il suo estro creativo – ma quella era una storia per un altro momento. Cosa aveva capito, dunque, nel corso della sua esistenza? Assolutamente nulla.
    L’ultima volta in cui aveva controllato, ad esempio, il termine urgente stava ad indicare un qualcosa che richiedeva un intervento immediato. Ed era stato piuttosto tempestivo, il mercenario, nonostante il sospetto che sua sorella avesse usato quell’aggettivo totalmente a sproposito. Ciononostante, le aveva concesso il beneficio del dubbio e, da più di mezz’ora, occupava lo studio della minore degli Huxley – il capo inclinato oltre il poggiatesta della sedia (e i muscoli del collo ormai compromessi), le iridi rivolte verso indicazioni mediche incomprensibili già prima che l’ex-corvonero tentasse di leggerle da quella prospettiva e le dita impegnate a tamburellare quello che da un semplice motivetto aveva assunto la durata di un concerto sinfonico.
    «Elwyn?» non la voce che avrebbe voluto sentire, ma si sarebbe fatto andar bene anche il solo fatto che qualcuno avesse notato la sua presenza. «Era ora. Ha idea di quale cataclisma» perché, agli occhi del mercenario, neppure un intervento in corso avrebbe giustificato il trattamento riservatogli della sorella «abbia impedito alla dottoressa Huxley di essere qui?» ovviamente no, non ne aveva idea. Tutto ciò che riuscì a strappare fu un misterioso «Di qua, prego» che scelse di assecondare soltanto perché, ormai, sentiva l’impellente necessità di litigare con Lisbeth. Seguì la donna verso la più vicina rampa di scale, attraversarono una serie di corridoi più o meno affollati e si fermarono davanti a una porta anonima tanto quanto tutte quelle che avevano appena superato. Varcata la soglia, la sua accompagnatrice lo annunciò ad un uomo con una manciata di documenti stretti tra le braccia. «Sei in ritardo» era forse ammattito? Come faceva, il mercenario, ad essere in ritardo per qualcosa cui non sapeva di dover partecipare? «Affatto. Ci deve essere un errore» rispose, tentando di essere il più educato possibile nel fargli capire che non aveva idea di dove si trovasse né del perché lo avessero accompagnato lì. Spostò rapidamente lo sguardo all’interno della stanza, registrando la presenza di una decina di tavolini ordinatamente disposti e di un numero di partecipanti che superava di gran lunga la cifra che sarebbe stato disposto a tollerare – zero, per la precisione; trovava difficile sopportare persino se stesso. «Oh, no, nessun errore. C’è il suo nome qui, guardi» fece scorrere le iridi su quella che aveva tutta l’aria di essere una lista di partecipanti, fino a scorgere una grafia differente dalla propria, ma altrettanto familiare. «È uno speed date» proseguì l’uomo, come a voler colmare quelle lacune palesate dalle espressioni del viso dell’ex-corvonero.
    Un appuntamento.
    In ospedale.
    Era forse una sorta di esperimento volto ad accoppiare i pazzi e studiarne le interazioni? E soprattutto: sua sorella era davvero convinta che avesse toccato il fondo fino a quel punto? Sì. «in cui l’unico obiettivo è lamentarsi» wait a sec. Doveva fare cosa? «Lamentarmi.» ripeté, come a volersi assicurare di aver compreso ciò che l’uomo stava tentando di dirgli. «Di qualsiasi cosa?» doveva essere uno scherzo, non c’era altra spiegazione. «Di qualsiasi cosa.» o forse un sogno. Il preludio al miglior appuntamento della storia. Il regalo che non sapeva di aver sempre desiderato. Perché era una dote innata, la sua, una capacità che aveva coltivato nel corso degli anni con enorme dedizione: si lamentava al mattino, di fronte alla prospettiva di una giornata disastrosa come le precedenti; lo faceva per ogni situazione che si discostava dagli schemi costruiti dalla sua mente; lo faceva la sera, al posto della preghiera, a conferma dei presentimenti che aveva avuto appena sveglio; lo faceva ad ogni calamità attirata non appena metteva piedi fuori dalla sua abitazione; lo faceva persino quando non aveva nulla di cui lamentarsi, per abitudine. «Oh, sì, giusto, devo averlo rimosso. Sa, la vita,» quale? «gli impegni» leccare, dipingere col pene, cose del genere. Sorrise all’uomo, gli strappò di mano l’adesivo numerato a lui destinato e lo fece aderire al petto, prima di seguirlo verso un tavolo dove, ad attenderlo, c’era una ragazza.
    «Elwyn, piacere» non che ritenesse fondamentale presentarsi – aveva un sacco di cose da dire, non gli sembrava il caso di perdere tempo. Allungò la mano nella sua direzione, le sorrise e prese posto davanti a lei. «Quanto è scomoda questa sedia? Metterci a nostro agio era chiedere troppo, immagino. Basta guardare questo posto» perfetto per un appuntamento che non considerava tale, ma era segretamente troppo euforico per l’opportunità che gli era stata concessa per puntualizzarlo. «Comunque meglio delle trappole degli ultimi anni» le prospettive, almeno, erano decisamente migliori; dipendeva tutto dalla sua compagna e da quanto tempo sarebbe stata disposta ad ascoltare i suoi sproloqui senza giudicarlo, ammorbarlo con problemi personali o pretendere che si sforzasse nel fornirle consigli che chiaramente non era in grado di dare. «O di Capodanno. O di qualsiasi evento pubblico. Al minimo errore» tipo farsi frustare da uno sconosciuto, per citarne uno «sbem, sei sui giornali» se avesse già iniziato a lamentarsi? Certo che no, non aveva neppure cominciato. «Ma prego, inizia tu.»
    elwyn huxley
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    «Quando non mette in imbarazzo se stesso, mette in imbarazzo te» (cit Sara)
     
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    Ad Arabells Dallaire era sempre piaciuto essere al centro dell’attenzione. Perchè non avrebbe dovuto? Era bella, promettente, ambiziosa, intelligente, ed un modello da seguire per chiunque. Sapeva di essere vanesia, ma era anche conscia non fosse necessariamente un difetto: non aveva mai dato nulla per scontato, impegnandosi negli studi quanto nel quidditch e nel mantenere un certo tipo di immagine; se li era guadagnati, gli sguardi adoranti e slash o pregni d’odio e di invidia, sentimenti che apprezzava quanto quelli canonicamente positivi. Anche prima di diventare la stella delle Arpie e pupilla di Morley Peetzah, prima di aprire un locale con Elwyn – in arte picazzo - e dello scandalo sportivo dei Cannoni e dei Gunners, Bells aveva amato i bagni di folla. Prima di diventare la Cercatrice dei Corvonero.
    Prima di essere vista, quando ancora non poteva ricambiare il favore.
    Negli ultimi mesi, le critiche erano state più numerose delle lusinghe, e tutto perché non aveva seguito il suo ormai ex Allenatore nella nuova avventura ai Cannoni. La cronaca narrava avesse preferito un patto con il diavolo la sua nemesi: l’avevano additata come traditrice, qualcuno che mordesse la mano che l’aveva sfamata e resa chi era. A lei! Come se Arabells Dallaire, nei suoi ventidue anni di vita, avesse mai avuto bisogno di qualcuno per farsi strada in quel mondo solo fintamente dedito alle pari opportunità. In parte, era difficile da accettare che i suoi successi fossero i successi dei suoi allenatori, ed i suoi fallimenti fossero solo personali; che la sua fama fosse riflessa sugli uomini a coordinare i pezzi sulla scacchiera, piuttosto che essere solo sua. Solo in parte: l’altra era consapevole che senza di lei, ed i pochi come lei, non avrebbero avuto molta gloria da vantare, e che le dinamiche di potere fossero invero molto meno bilanciate di quanto facessero apparire i media. Presuntuosa? Sempre, ma qualcuno doveva pur farlo. Quel che gli altri pensavano di lei, non era un suo problema: era nel giusto, e tanto le bastava.
    Comunque, dicevamo: le piaceva essere al centro dell’attenzione, essere riconosciuta per le strade delle cittadine magiche e fermata per selfie ed autografi, di conseguenza tendeva a limitare alquanto le sue uscite in incognito.
    Aveva le sue eccezioni.
    Quella stanza, ad esempio. Aveva scoperto dell’esistenza di quel genere di incontri quando ancora lavorava al San Mungo, un inside joke dei colleghi al reparto durante le pause caffè. Era stata un’idea del Rogers, il boss degli psicomaghi, ed una peculiarmente buona idea. L’uomo era conosciuto per la sua eccentricità ed i suoi metodi poco ortodossi; inutile dire fosse sempre stato uno dei preferiti della Dallaire, che per i casi umani aveva sempre avuto un debole. Speed date con il solo scopo di lamentarsi? C’erano diversi studi in merito, e non tutti guardavano alla lagna in maniera positiva: c’era chi diceva facesse male, perché richiedesse un grosso dispendio di energie; chi la additasse come positiva, perché permetteva di condividere il fardello con qualcun altro. Come la pensasse Rogers? Malgrado sembrasse pendere per la seconda opzione, la cercatrice credeva fosse solo stanco dei reclami di colleghi e sottoposti – e pazienti, perchè no. - e per quello avesse indetto quelle sessioni speciali. Se trovavano qualcuno con cui sgranare il proprio rosario, non sarebbero andati da lui ad enunciare tutte le Ave Marie di circostanza. Cosa credeva Bells? Oh. Non aveva un’opinione oggettiva in merito, ma presenziava ad ogni incontro. Perchè?
    Beh.
    Sentire le lamentele di sconosciuti la faceva sentire meglio, e solo Dio sapeva quanto in quel periodo avesse bisogno delle miserie nelle esistenze d’altri per tollerare le proprie. Trovava i problemi altrui capricciosi e ridicoli. Nella maggior parte delle occasioni, trovava quelle persone patetiche, ed usciva da lì più leggera, nuovamente fasciata della propria presunzione a ringraziare il Signore di non essere come loro. Capitava anche che qualcuno avesse disgrazie sincere, e Bells – egoista, Arabells – riusciva comunque a sentirsi meglio, perché meglio loro che lei.
    Non era una brava persona. A ognuno i propri metodi per sopravviversi.
    «jeremy leroy?» Alzò una mano per enunciare la propria presenza, scivolando oltre la porta per prendere posto sulla sedia più vicina. Ovviamente usava nomi in incognito, non voleva creare un altro inutile scandal- «Elwyn, piacere» Oh, baby. Oh, baby. Bells indossava un cappellino di lana con annessa parrucca bionda, le lenti a contatto brune – il suo sguardo era un marchio di fabbrica, nessuna parrucca l’avrebbe salvata dall’essere riconosciuta – e la mascherina a coprire metà del volto, era facile non riconoscerla. Davvero, non biasimava l’Huxley, anzi, ma … lui usava il suo vero nome? E la sua vera faccia? Voleva proprio la copertina del giorno dopo, uh. Meglio per loro, tutta pubblicità. Nessuno si stupiva più di quel che Elwyn Huxley facesse, men che meno chi – e perché proprio Bells – ci contava per farsi conoscere.
    Però.
    Lo sguardo di Bells, che in rapida successione aveva mostratosorpresa e frustrazione, si ammorbidì appena, la mano allungata per battere il pugno contro quella dell’Huxley. Mai come in quel momento aveva notato la somiglianza con il fratello: era così felice di essere lì a lamentarsi! Così entusiasta! Un golden retriever. Non sapeva esattamente quando avesse iniziato a nutrire del sincero affetto per il collega, ma in qualche punto della loro linea temporale, era successo. Piz era come un fratello per lei; Elwyn, come il cugino che arrivava sempre tardi ai pranzi di famiglia e di cui tutti sembravano sapere qualcosa tranne lui. «Quanto è scomoda questa sedia? Metterci a nostro agio era chiedere troppo, immagino. Basta guardare questo posto» In effetti, chissà perché era andata lì, quando per sentirsi meglio avrebbe potuto chiamare Elwyn e chiedergli come fosse andata la sua giornata. Prima o poi, ne era certa, l’entusiasmo di quegli speed date sarebbe scemato e gli avrebbe permesso di rendersi realmente conto dell’ambiente circostante; se non avesse iniziato al secondo 0.5 a lamentarsi, l’avrebbe già riconosciuta. «Comunque meglio delle trappole degli ultimi anni. O di Capodanno. O di qualsiasi evento pubblico. Al minimo errore, sbem, sei sui giornali» Lo guardava, e riusciva unicamente a pensare che la proprietaria del Lilum avesse una cotta per quell’uomo.
    Come.
    Come.
    «scioccante. Manco fossi un celebre pittore anonimo che dipinge intingendo il membro nelle vernici» schioccò la lingua sul palato, «quello sì che sarebbe assurdo» abbassò la mascherina quel tanto che bastava a soffiargli un bacio ed un mezzo sorriso compiaciuto. Si sistemò più comodamente sulla sedia, rubando il tasto (dai. C’è il tasto degli speed date, no?) dal tavolo in modo che il suo caro compagno di giochi non potesse switcharla con qualcun altro. Poggiò un piede sulla seduta, ed il mento sul ginocchio. «nah, inizia pure tu. spara» dal ghigno a curvare le labbra della Dallaire, qualcuno avrebbe potuto dire che non fosse un invito metaforico, ma una sfida.
    Forse avrebbe anche avuto ragione.
    listenlookread
    arabells dallaire
    So casually cruel
    in the name of being honest
     
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1 replies since 26/9/2021, 23:40   125 views
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