They say time heals everything, but I'm still waiting

Dante ft. Fake

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    C’erano una miriade di motivi che causavano la perdita del fiato.
    Una sorpresa improvvisa, una situazione di stupore, un banalissimo colpo di tosse. Alle volte capitava per caso, come quelle fitte alle costole che arrivavano dopo un movimento particolarmente brusco, ma che si risolvevano nella manciata di pochi istanti. Per Dante, quella fitta, era una costante. Ogni tanto capitava che dovesse fermarsi dal fare qualsiasi altra cosa per riprendere fiato, un respiro alla volta. Dava la colpa alle sigarette o alla stanchezza. Nulla di cui preoccuparsi, niente per cui valesse la pena indagare.
    Al San Mungo era sempre così.
    Ogni giorno vedeva la morte e ogni giorno tentava di evitarla. Ogni tanto risultava più facile venire a patti con l’eventualità del fallimento, altre volte era più difficile rimanere distaccati.
    Era tutta una questione di autocontrollo e il Rinaldi era una testa calda mascherata da agnellino. Dietro l’apparenza più docile, si nascondeva una bomba pronta ad esplodere. Il punto era che non lo faceva mai di fronte agli altri; si rintanava nello sgabuzzino, dava un colpo al muro con le nocche che si coloravano di rosso o che si sbucciavano dolorosamente, soffocava un urlo nel camice e poi tornava a lavoro senza dare segni di cedimento.
    Non che, certe volte, non si pentisse di aver scelto una professione tanto deleteria: vedeva i suoi colleghi veterani reagire in modo simile, assicurargli che quella sensazione di perenne oppressione sarebbe passata lasciando il posto ad una discreta noncuranza, ma Dante era certo che fossero solo cazzate. Non sarebbe passato proprio un bel niente, alla fine diventava solo un’abitudine come un’altra o era necessario fingere che niente di ciò che accadeva lì dentro influisse nella sfera privata.
    Il grifondoro dubitava che sarebbe mai riuscito a tenere separate le due cose, a non portarsi un pezzo di quel posto dentro le mura del suo appartamento. Era difficile.

    In particolare, quel pomeriggio, le cose erano completamente andate a puttane.
    A puttane perché lui non avrebbe retto di nuovo il colpo. Non una seconda volta, non con la stessa maledetta modalità. Era ridicolo dover rivivere lo stesso trauma, le stesse identiche angosce, eppure si era ritrovato a trattenersi dal crollare sul pavimento e nascondersi in un angolo, dove nessuno avrebbe mai potuto notare la sua presenza.
    L’ospedale era pieno di feriti, un caos di bende insanguinate e urla cariche di dolore. Si era guardato intorno, spaesato, domandandosi che cosa diamine avesse scatenato un simile sovraffollamento, una tale mattanza «è esploso il museo Anoobi, è stato un attentato della resistenza!» e, a quel punto, lo stomaco gli era salito in gola. Perché non era stato informato? Che cos’era realmente accaduto in quel maledetto museo? Tra i presenti non c’era nessun ribelle, ma c’erano decine di mangiamorte, molti dei quali chiaramente riconoscibili per la loro posizione all’interno del ministero: una tra tutte Anjelika Queen, trasportata d’urgenza in terapia intensiva, con delle ferite profonde a solcarle il petto, le labbra aperte dallo sforzo che anche solo respirare le stava causando.
    Nelle barelle improvvisate c’erano altri pavor che ricordava di aver visto di sfuggita, quelle poche volte in cui si era recato nell’ufficio di Charles per lasciargli il pranzo o solo un saluto veloce. O quando, spinto dalla voglia di farsi riprendere da Godric per il suo scarso buonsenso, bussava alla porta di Fake e Ryu per passare con loro il pomeriggio.
    Il punto era che sì, certo, Dante era un ribelle e piuttosto che prestare delle cure a quegli assassini avrebbe preferito di gran lunga andare al quartier generale e occuparsi dei suoi compagni, ma non funzionava così, essere un medimago era qualcosa che prescindeva dai ruoli e dalle fazioni. Non poteva semplicemente girarsi dall’altra parte, fare finta che quelle non fossero comunque delle persone e venire meno alla propria morale. In quel momento per lui erano tutti uguali, carne e ossa, con una famiglia alle spalle che necessitavano di tutta la sua concentrazione e professionalità per sopravvivere.

    Si era detto “posso farcela”, perché alla fine non era niente di diverso dal solito, senza ovviamente contare l’ammontare di cure da somministrare o che il personale sanitario non fosse realmente preparato per una simile incombenza. E avrebbe voluto davvero essere utile, infilarsi i guanti ed estrarre con la bacchetta le schegge di vetro conficcate nella spalla di uno dei pavor, ma per puro caso il suo sguardo si era posato su due figure vicine e, a quel punto, le orecchie avevano iniziato a fischiargli.
    Il Rinaldi era certo che gli stessero parlando. Che qualcuno si stesse sforzando di comunicare con lui, ma senza successo. Si era spinto con un movimento meccanico vicino ai lettini e, solo a quel punto un respiro tremante aveva lasciato le sue labbra. Non poteva essere, non di nuovo. Non così. Era chiaramente uno scherzo di cattivo gusto e non faceva ridere. Non era divertente e, anzi, faceva un male cane.
    Stesi sulle lenzuola sporche di terra e sangue c’erano Ryu e Fake.
    Una persona normale avrebbe sicuramente fatto qualcosa, si sarebbe adoperata per riservare ai suoi migliori amici una stanza e delle cure d’eccellenza, perché vederli morire non era una soluzione accettabile.
    Ma lui era rimasto lì, l’avevano dovuto spostare di peso, incapace di ragionare e dare un senso alle immagini che gli si erano stampate a fuoco nel cervello.
    Non di nuovo, continuava a pensare ossessivamente. Perché ricordava le macerie, il disperato tentativo di scavare per trovare Jack, per assicurarsi che fosse vivo, quando alla fine era morto e non era stato in grado di proteggerlo. Anche in quel caso, non aveva potuto fare nulla per impedire ai suoi amici di sfiorare la morte.

    Il Kageyama era quello messo peggio. Così, almeno, gli era stato detto dagli infermieri. Tutti si erano resi conto che Dante non fosse in grado di lavorare, di prestare alcun aiuto, per questo si erano premurati di farlo sedere con un bicchiere d’acqua in mano che non era riuscito nemmeno a sollevare.
    Le ferite del giapponese erano profonde, tanto da richiedere un intervento di guaritori esperti e di una buona dose di fortuna. Il Rinaldi aveva smesso di credere a quelle stronzate da tanto tempo, o a un dio che nella sua misericordia riuscisse ad esaudire le richieste più semplici, come quella di salvare la vita ad un amico, ma per qualche strana ragione si era ritrovato a invocarlo, silenziosamente, un’ultima speranza per non dover elaborare un altro lutto, un’altra perdita.
    Era rimasto con il Cheena, nella stanza che gli era stata assegnata. Non che avesse intenzione di muoversi da quella sedia scomoda o di smetterla di fissare Fake come se da un momento all’altro il ragazzo potesse morirgli davanti. Stava lì, con le mani incrociate di fronte alle labbra, la schiena curva e appesantita dalla preoccupazione e un groppo in gola che, a pensarci bene, era meglio tenere lì, almeno finché non fosse sparito.
    Dante non sembrava dare segni di cedimento. Non all’esterno, non agli occhi di un perfetto sconosciuto, ma le iridi lucide rivelavano quanto stesse tentando disperatamente di non cedere, di essere forte, di aspettare pazientemente che il Cheena riaprisse gli occhi con il suo solito modo stupido di vivere la vita.
    Cosa si aspettava gli dicesse? Che era inevitabile esplodere perché era una bomba sexy? Che era tutta una scusa per averlo come infermiere e molestarlo, alla faccia di Charles? Si era portato le mani congiunte sulla fronte, chiudendo gli occhi per un istante, il tempo di calmarsi, quel tanto che bastava per rendersi conto che nessuno fosse morto, che stessero comunque bene.

    Il fruscio delle lenzuola era stato abbastanza per fargli sollevare la testa di scatto e tendere una mano per afferrare quella del ragazzo «ehi» andava tutto bene, non era successo niente «sei sveglio» era vivo, stava bene «mi hai fatto preoccupare» c’era una nota stonata nelle parole del grifondoro, l’impossibilità di mantenere ferma la voce «vuoi qualcosa, ti serve dell’acqua—io non--» non che si fosse reso conto che stesse piangendo o che il cuore gli si fosse fatto improvvisamente più leggero. Con un singhiozzo e una risata tirata aveva tentato di giustificare quel comportamento «Ah—deve essere l’allergia alla polvere--» ma si era ritrovato a dover nascondere il viso nella mano per non far capire all’altro il suo reale stato d’animo. Era rimasto in silenzio, dopo, mentre allungava il braccio libero e posava il palmo sul dorso della mano altrui, tremando «pensavo di avervi perso» era un sussurro angosciato il suo e da quell’angolazione Fake poteva vedere solo le labbra tremolanti e le lacrime scendere lungo la linea del mento «non posso perdevi, lo capisci?» aveva stretto la presa, ancora più forte, quasi che avesse paura di un rifiuto o che l’altro andasse via, che si sottraesse alla sua presa. Dante sentiva il bisogno di tenerlo vicino almeno per un po’, di sentire il calore della pelle di Fake per rendersi conto che stesse bene, che fosse vivo.

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    Ricordava il fuoco. Ricordava che una piccola, infima parte della sua psiche, era cosciente del fatto che non fosse reale, memore della maledizione lanciata dal ribelle – ma poco importava, quando tutto andava in fiamme. Era reale ciò che il suo cervello credeva lo fosse, ed il suo sistema nervoso era cenere. Sentiva la pelle bruciare, ed i tessuti bruciare, e pensava a Godric, ed a come non riuscisse a vedere nulla eccetto l’incendio a consumarlo ancora ed ancora ed ancora. Madein Cheena non aveva mai avuto paura della morte. L’aveva sempre data per scontata, perché sapeva sarebbe successo, e probabilmente più prima che poi, quindi mentre tutto intorno a lui perdeva consistenza e forma, non aveva avuto paura.
    Ma l’ebbe, quando aprì gli occhi in una stanzetta del San Mungo.
    Perchè il fischio nelle orecchie non era solo nella sua testa, ed i suoni giungevano ovattati e distorti.
    Perchè aveva la gola secca ed irritata, da fumo non reale e urla piuttosto reali.
    Perchè gli ospedali non gli erano mai piaciuti. Mai. Puzzavano di morte, e vecchio e malattia. Di strade a senso unico che quando ne uscivi non portavano mai all’imbocco dal quale eri entrato. Era diventato un autodidatta della propria precaria salute, proprio perché restio ad avvicinarsi agli ambienti sanitari. Lo diceva sempre a Dante, quando si arrotolava sul suo fianco come un gatto troppo cresciuto, che puzzasse di infermità e tristezza. Non era un sangue buono, quello che impregnava le pareti del San Mungo: era sporco, contaminato.
    E perché Dante Rinaldi stava piangendo.
    Cercò di mettere a fuoco solo l’ex Grifondoro, cancellando le pareti chiare e l’odore di medicine, rimbalzando gli occhi blu dal viso dell’italiano alla mano poggiata sulla propria. Uno sguardo interrogativo di una domanda a cui aveva terrore di dar voce, e che lasciò echeggiare in ogni battito vuoto dentro lo sterno, mentre tentava di umettare le labbra ed ordinare i tasselli – non la sua specialità, l’ordine. Era caotico, disorganizzato, impulsivo da far male, e non era abituato a dover - a voler - dare un senso alle cose. Era contro la sua natura, cercare di capire. Ma si obbligò lo stesso, palpebre assottigliate e sopracciglia corrugate mentre stringeva la mano del Rinaldi, ordinando al proprio respiro di farsi basso e cadenzato. «dante -» «ehi. sei sveglio. mi hai fatto preoccupare» Parole appena percettibili, perché difficili da pronunciare e impossibili da sentire sopra il fastidioso, maledetto, ronzio alle orecchie. Si schiarì la voce, stritolando le dita del ragazzo nelle proprie, tirandolo a sé per obbligarlo ad ascoltarlo, a sentire l’urgenza nel tono e nello sguardo – la stessa a cui si rifiutava di dare consistenza formulando la domanda. «dante -» «vuoi qualcosa, ti serve dell’acqua—io non--Ah—deve essere l’allergia alla polvere--» Si tirò a sedere di scatto, dolorante ma non quanto avrebbe potuto, spostando le lenzuola e togliendo la mano del Rinaldi dal suo viso per stringerla fra le proprie. Fra tutte le persone a cui avrebbe dovuto nascondere le sue lacrime, non c’era – né mai c’era stato – Fake. Non giudicava, era sempre il primo a piangere, e trovava quelle forme d’espressione genuine e reali, più del sole o la pioggia o l’ossigeno nei polmoni. Erano amici. Erano migliori amici, nonostante tutto – nonostante loro. Un legame che andava al di là dello schieramento politico e degli ideali, non poteva imporre di dover nascondere un pianto: avevano superato quella fase al primo anno di Hogwarts. Fosse stato Godric, avrebbe compreso la resistenza di Dante a mostrarsi vulnerabile, ma Fake. Il terrorizzato, annaspante Fake che cercava disperatamente lo sguardo di Dante sperando di non trovarci quello che temeva, perché di Ryan e Jack se n’era sempre sbattuto il cazzo, ma se fosse successo qualcosa - si rifiutava di pensare la parola adatta: non aveva paura della propria morte, ma non era pronto a continuare a vivere senza le persone che lo tenevano ancorato a quel mondo – a Ryu… «pensavo di avervi perso» Pensava di averci perso. Espirò tutta l’aria che aveva trattenuto fino a quel momento, ricadendo molle sui cuscini. Il sollievo qualcosa di così palpabile, che potè giurare di sentirlo sulla lingua – o forse era il sangue, laddove i denti avevano nervosamente bucato la tenera carne del labbro inferiore. Si riprese una mano portandola prima al petto, comprimendo il battito folle del proprio cuore, e poi posandola sugli occhi. «minchia dante, ho perso cent’anni di vita» tolse le dita dalle palpebre, un mezzo sorriso sulla bocca. «non posso perdevi, lo capisci?» Lo capiva? Talvolta, non sempre. Sentirselo dire gli fece battere il cuore un po’ più forte, lasciandolo un po’ più vivo. Era sempre bello sapere che al mondo ci fosse qualcuno a cui fottesse qualcosa, che lui vivesse o meno. Che non potesse perderlo. Magari era scontato, e forse tutte le amicizie funzionavano così, ma Fake ogni tanto aveva semplicemente bisogno che qualcuno glielo ricordasse. A parole, senza lasciare che lo leggesse fra le righe, o lo interpretasse dai gesti. «se piangi piango anche io» coerente con quanto detto, si chinò in avanti in modo da mettersi nella linea visiva dell’altro, occhi lucidi e labbra strette fra loro. Si tirò nuovamente a sedere, spingendosi oltre il bordo del letto per abbracciare Dante. Non era una grande novità, Fake era appiccicoso e trovava sempre ogni scusa per abbracciare i suoi amici. Non era speciale quanto se ad abbracciarlo fosse stato un Godric, ecco, ma lo strinse comunque come se significasse qualcosa di più, come se fosse il primo abbraccio, come se il cuore nel petto avrebbe potuto smettere di battere in qualunque momento e volesse lasciargli impresse le linee del proprio elettrocardiogramma.
    Avrebbe potuto far leva sul senso di colpa del Rinaldi. Avrebbe potuto usare quell’occasione, quella debolezza, per dirgli che non sarebbe successo, se non fosse stata per la Resistenza; che fossero stati i suoi amici, le persone che gli coprivano le spalle, a lasciarli su un lettino d’ospedale. Ma Fake non era quel genere di persona: non aveva schemi machiavellici o secondi fini, e non voleva… non voleva li vedesse, di nuovo, come separati da una linea netta e imprescindibile. Potevano scavalcarla; potevano fingere non esistesse. «sto bene» annunciò con voce roca, un po’ per l’emozione ed un po’ perché era disidratato come frutta secca, distanziandosi per dare una pacca sul braccio di Dante, e sorridergli. «rischi del mestiere» bofonchiò, aggiungendo rapido un «ci vuole ben altro per liberarsi di me. E SE FOSSI MORTO TI AVREI PERSEGUITATO COME FANTASMA PER SEMPRE E AVREI SPIATO OGNI POMICIATA CON CHARLES FACENDO IL TIFO» tossì mostrando i denti in un ghigno. «mi fai un recap? Ero maledetto, quindi non ho capito. dov’è il mio biscottino giapponese» drizzò la schiena cercando di guardare oltre le spalle del Rinaldi. Oh, quando aveva perso cognizione dello spazio e del tempo, stava una bomba, quanto poteva essere peggiorata la situazione?
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    Non avrebbe dovuto stupirsi della facilità con cui Fake lo stava abbracciando, del calore del suo respiro sulla pelle, delle mani a stringere il camice nel tentativo di rassicurarlo. Eppure lo era, talmente tanto da non avere la prontezza di sollevare le braccia per ricambiare il gesto, avvolto dalla sensazione di essere a casa, al sicuro da tutto e da tutti, in quella stretta tanto familiare che gli era mancata. Tutto ciò che voleva era solo restare lì un altro po’ e dimenticare il resto. I mangiamorte, i ribelli, tutta quella situazione del cazzo che aveva portato soltanto dolore. Come se non ce ne fosse già abbastanza intono a loro «mi sei mancato» era stato poco più che un sussurro tremolante, niente di percettibile oltre quella bolla che si era formata intorno a loro «tanto». Non gli importava di bagnare la spalla dell’altro con le lacrime, né si era mai vergognato di mostrarsi fragile di fronte ai Golden. La debolezza faceva parte del loro essere umani, della capacità di provare ancora dei sentimenti; era solo che… si era sentito per un attimo morire ed aveva perso la percezione su tutto il resto che non fosse l’urgenza di saperli al sicuro, vivi e più lontani possibile dai pericoli. Si era dimenticato persino di respirare, ad un certo punto. Ed era difficile non pensare al corpo di Ryu disteso sulla barella, agli innumerevoli fili a sparire sotto la veste medica, al battito di quel cuore che, per un instante, aveva pensato di non poter più sentire.

    Dante era spaventato dall’intensità di quel bisogno, dalla realizzazione che perdere uno di loro fosse come perdere un pezzo di se stesso. E forse l’aveva sempre saputo, preferendo nascondersi dietro la certezza o l’assurda speranza che non sarebbe capitato nuovamente: Jack era stata l’eccezione, uno sfortunato incidente di percorso che ancora, dopo anni, lo tormentava nel sonno. Ma no, gli altri non erano così deboli, erano forti. Erano indistruttibili. Dovevano esserlo.

    Per poi non esserlo davvero, fatti di carne e ossa come tutti i comuni mortali.

    Era stato questo a fargli sollevare le braccia per ricambiare la stretta, deglutendo la bile e il pianto per sopprimere l’urgenza di scusarsi. Ancora e ancora, sempre «sto bene» ed era vero, lo sapeva, ma anche davanti all’evidenza il suo sguardo rimaneva umido, gli occhi fissi in quelli del pavor con rammarico. Il Rinaldi era incapace di lasciare andare le colpe e le reggeva sulle spalle come se tutto dipendesse da quello. Non si concedeva pietà, non si perdonava dei propri fallimenti e portava con sé ogni rimpianto e ogni decisione sbagliata. Si conosceva, Dante, perché mentre osservava il viso dell’altro, i tagli a sporcare la pelle pallida e i lividi a renderla violacea, tutto ciò a cui riusciva a pensare era soltanto “è colpa mia” e di nessun altro.
    Obbiettivamente, non aveva fatto nulla per ridurre Fake in quello stato. Non era stata la sua bacchetta a scagliarsi contro di lui, né era stato responsabile per il crollo della struttura; ma era difficile mantenere la neutralità, far finta di nulla quando sapeva con certezza che quell’attacco fosse stato opera dei ribelli. Di coloro ai quali aveva deciso di affidarsi, che considerava amici.
    Eppure, nella piega del sorriso di Madein, vedeva il proprio fallimento.
    Non riuscendo a sostenere quello sguardo, aveva preferito abbassare il viso a fissarsi le scarpe, mentre tentava disperatamente di riprendere il controllo delle proprie emozioni. Non era mai stato un codardo e sebbene sapesse che Fake non l’avrebbe mai fatto, non voleva vedere la delusione nei suoi occhi «rischi del mestiere» egoisticamente avrebbe preferito non sapere a quali rischi si stesse riferendo e che questi fossero ridotti al minimo, senza mettere in pericolo la sua vita. Ma non era così ipocrita da avanzare una tale pretesa: era il primo a gettarsi in battaglia all’occorrenza, tutto per degli ideali. A quel punto, però, non sapeva più se ne valesse realmente la pena. Era disposto a fare del male ai suoi amici per i suoi propositi? Era sinceramente convinto di no. Era certo che, se si fosse trovato uno dei Golden davanti, probabilmente si sarebbe lasciato uccidere.

    Aveva congiunto le dita, poggiando le mani sulle ginocchia e fissando attentamente il pavimento, accennando solo un breve sorriso alla battuta dell’altro. Era ovvio che stesse provando a stemperare la situazione, rendendola meno pesante. Ma in realtà era il suo cuore ad esserlo, gravava sul petto e lo comprimeva dolorosamente «lo faresti anche da vivo, non ne dubito» perché insomma, non era necessario che diventasse un fantasma per essere imbarazzante e per spiarlo come una zitella di paese appostata sul balcone.
    Alla fine era stato costretto a sollevare il viso, guardandolo di sottecchi con una certa apprensione. Non che sapesse esattamente cosa dire per non allarmarlo, ma perlomeno poteva confermare che il Kageyama fosse vivo. Aveva stretto le labbra, lasciandosi andare ad un sospiro pesante, alzandosi da quella posizione solo per avvicinarsi al tavolo con le garze e gli strumenti medici, valutando cosa fare per migliorare la situazione del Cheena. Non sopportava di dover far finta che quegli ematomi non gli dessero sui nervi «è fuori pericolo, adesso. Andremo a trovarlo domani» imbevendo il cotone del medicinale si era seduto nuovamente, questa volta sul letto accanto al ragazzo «dovrebbe aiutarti a guarire più velocemente, stai fermo» con delicatezza, si era premurato di scostare qualche ciuffo dalla fronte del pavor, iniziando a medicarlo in silenzio. Nei suoi gesti era celato tutto l’affetto che non era mai stato in grado di esprimere a parole.
    Quella, comunque, era un’ottima distrazione, sebbene fosse difficile disumanizzare Fake com’era costretto a fare con tutti gli altri pazienti. Non era certo di volersi impelagare in una discussione pesante, né di arrivare a credere che quella situazione fosse stata un errore da parte della ribellione. Non era certo di aver compreso chi delle due parti fosse responsabile di quell’incidente, questo non rendeva la situazione più facile «non sapevo niente dell’attacco» non era stato presente alle riunioni, ma questo non lo rendeva meno colpevole «ma avresti tutte le ragioni per odiarmi» e forse avrebbe fatto meno male, alleggerendo la colpa, la consapevolezza di averli lasciati soli in balia del pericolo «lo farei anche io» lo aveva detto a voce bassa, nell’assurda speranza che l’altro non lo sentisse, ma da quella distanza era impossibile. Con gentilezza, aveva continuato a prendersi cura delle ferite, attento a non fargli male «il biscottino giapponese non potrà muoversi per qualche settimana, ma posso chiedere al supervisore di spostarvi nella stessa stanza, quando starà meglio» un piccolo accenno di sorriso era apparso sulle sue labbra, nel tentativo di rincuorare Madein. O per ammorbidire il suo rimorso?
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    Fake era una di quelle persone che parlava molto senza dire niente, spontaneo e privo del filtro di cui parevano essere dotati gli altri esseri umani. C’erano situazioni nelle quali non sapeva come intervenire, cosa fosse o meno corretto pronunciare ad alta voce, quali fossero le parole giuste che avrebbero rimesso magicamente tutto a posto. Al mi sei mancato di Dante, non aveva la minima idea di cosa avrebbe dovuto replicare per smorzare il tremore delle spalle: sentiva la voce di Godric suggerire che fosse stato il Rinaldi ad andarsene, che avrebbe potuto non sentire affatto la loro mancanza se solo fosse rimasto, e poi sentiva la propria, sempre più sottile rispetto a quella dell’Amico Intelligente TM, a suggerire che l’importante era che fosse tornato. Che significasse più dell’andarsene, il ritornare. Implicava una scelta pensata, il sacrificio, l’umiltà di ammettere che ci fossero state dapprincipio altre alternative. Compromessi. Un pensiero che avrebbe potuto facilmente esprimere, se solo fosse stato meno Madein Cheena, e la risposta più semplice non fosse stata «ma sono sempre rimasto qui», lasciando che Dante gli inumidisse i vestiti mentre ancora lo stringeva fra le proprie braccia. Cioè, era una mente molto lineare quella del cinese, incentrata sul presente piuttosto che sul passato o il futuro – carpe diem, dicevano gli antichi (Godric. Godric era l’antico) – ed aveva già rimosso che fosse esistito un breve periodo di vita in cui Dante non avesse fatto più parte del loro gruppo.
    Anche perché come amico, era sempre rimasto. Non potevi cancellare qualcuno dalla tua vita con un po’ di squishi squishi come fosse stato una macchia di sangue dai jeans; Fake, poi, non chiedeva neanche che loro accettassero di essere suoi amici, per dare per scontato lo fossero. Dante poteva anche non averlo rimproverato giornalmente per la quantità di schifezze ingerite fuori dai pasti («ti rovinano l’appetito!!!») ma non significava che il Cheena non l’avesse sentito comunque.
    Aiutava il fatto che non ci fosse tanto con la testa e sentisse voci di base, ma quello era un altro discorso.
    «lo faresti anche da vivo, non ne dubito» Visto?!? Lo conosceva così bene! Era assolutamente, cento per cento, vero, quindi non ritenne utile negare l’evidenza, limitandosi a scrollare le spalle con un languido sorriso sulle labbra. Chi non guardava i propri amici mentre pomiciavano?
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    Malgrado la sua natura tendesse ad impedirlo, si obbligò a rimanere fermo e buono mentre Dante lo palpava con del cotone imbevuto di disinfettante, conscio di quanto quelle piccole azioni – prendersi cura degli altri, prendersi cura di lui - servissero al Rinaldi per rimanere ancorato a terra. Tutti avevano i propri meccanismi di difesa e ricostruzione della propria psiche: c’era chi tagliuzzava qualcosa (Fake) chi usava la tattica opossum (Ryu) chi silenziava i suoi amici (Godric) chi si fumava piantine (Delith) e chi, come Dante, doveva fare l’infermiera sexy. Non sarebbe stato Fake a negarglielo. E si permise di respirare più facilmente, quasi rilassato contro i cuscini, con la promessa che il giorno dopo gli avrebbero permesso di visitare il Kageyama. Non era una persona paziente, ma sapeva come diventarlo, in casi eccezionali. Il suo bromeo sarebbe sempre stato una di quelle eccezioni. Anche se era UNA MERDA per essersi fatto più male di lui – CHE MANCANZA DI RISPETTO, CHE AUDACIA, NON SI ANDAVA Giù TUTTI INSIEME? INCOMMENTABILE. Mordicchiò distratto il labbro superiore, senza battere ciglio al bruciore del liquido sulla pelle aperta – cos’era quel fuocherello, dopo essere sopravvissuto ad un inferno mentale ed un’esplosione di un edificio? Stava già pensando a quali fiori portare al suo amiketto, ed era pronto a chiedere consiglio a Dante – bocca già socchiusa, palpebre assottigliate in segno di quanto intensamente stesse pensando – quando l’altro ex Grifondoro ruppe il silenzio. «non sapevo niente dell’attacco» Oh. Era quel genere di Conversazione TM.
    Fatta con il Golden sbagliato.
    Non doveva… scusarsi? Giustificarsi? Con il Pavor. Anzi, era felice non ne avesse saputo nulla, perché in caso contrario avrebbe significato averlo sotto lo stesso tetto ma come avversario, e Fake era tante cose ma non un traditore. I suoi amici venivano prima del… resto. Ok, Dante voleva pitturare i muri del mondo magico con unicorni e arcobaleni, e quindi? Scelte, che Fake non comprendeva, ma scelte. C’era un motivo se faceva il Torturatore e non, boh, il Segugio - oltre al fatto che Aaron fosse molto più kool del signor Crawford, certo. Avrebbe dovuto importargli di più, ma… non era così che vedeva il mondo, Madein Cheena. Non esistevano bianco e nero, solo grigio grigio e grigio, e l’unico conflitto d’interesse che avrebbe avuto, sarebbe stato se il suo Boss l’avesse costretto a scegliere, o se l’avesse messo nella posizione di dover apertamente mentire ad una domanda diretta riguardo il Rinaldi. Altrimenti? Per Fake, Dante poteva fare quello che voleva. «ma avresti tutte le ragioni per odiarmi. lo farei anche io» Bisbigliato appena l’altro, tanto che se non fosse stata una frase così assurda, avrebbe pensato di essersela immaginata. Quando mai però avrebbe partorito un pensiero simile da solo? Impossibile, bloccato. «dante renzo rinaldi» esordì solenne, senza sorridere, bloccando la mano con cui lo stava medicando. Lo guardò negli occhi, così chiari e limpidi e familiari, e corrugò lievemente le sopracciglia. «non ho capito»
    Un Godric Osborne da qualche parte: strano.
    «perchè dovrei odiarti?» Era una domanda sincera, quella dell’ex Grifondoro – ingenua, forse, ma del tutto onesta. Non … lo capiva. Come poteva odiarlo per qualcosa - qualcuno - che era? Per… cosa avrebbe dovuto odiarlo. Perchè i suoi amici avevano fatto esplodere un edificio con lui dentro? Bruh. Anche lui aveva rischiato di far esplodere, più volte!, l’appartamento dell’Osborne, ma Dante mica lo odiava. «non ti ho mai odiato, e non comincerò né oggi né domani né fra dieci anni» c’era certezza assoluta nel tono di Fake, perché lui quelle cose se le sentiva - ed era sempre tutto al cento, mai una percentuale inferiore, quando si trattava del Cheena. Se ti amava? Lo faceva per la vita, come i pinguini o i delfini. «non ti capisco. È diverso» Lo guardò di sottecchi, sinceramente confuso e dubbioso: da quando doveva essere lui a spiegare le Cose TM? Non si era mai sentito. «perchè, tu mi odi?» Ridacchiò, liquidando la questione con un cenno della mano.
    Pausa.
    Si fermò, improvvisamente serio. «tu mi odi?»
    The scary part
    is that I know
    I'm not alone
    Cause all of my friends,
    they all got
    stories of their own
    gif
    i panic! at (a lot of places besides) the disco
    i see it, i like it, i want it, i got it
     
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