the fault in our chat

ft. ethan

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    turo hendrickson
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    Cuffie: checked.
    Felpa oversize: checked.
    Playlist per caricarsi: checked.
    Voglia di uscire dal castello: triple checked.
    Con un sospiro, Arturo controllò per l'ennesima volta che avesse tutto l'occorrente necessario, costringendosi a fermarsi prima di arrivare al punto cruciale della lista: iniziare a correre per lasciarsi dietro i problemi. Era fin troppo cosciente del fatto che se avesse iniziato a correre per quel motivo, non si sarebbe più fermato. Doveva convincersi che quella corsetta mattutina fosse una come tante, come quelle che faceva di solito sul campo ovale, niente di diverso se non, appunto, il luogo.
    Allenarsi da solo era diventata quasi un'abitudine oramai per il Serpeverde, che cercava di limitare al minimo le interazioni con la sua squadra da quella terribile semifinale – un po' perché non era ancora certo di come affrontarli, un po' perché era sicuro, al contrario, che sarebbe scoppiato al primo confronto.
    Scoppiato a piangere.
    Scoppiato di rabbia.
    Scoppiato e basta, letteralmente.
    Difficile dire quale delle tre; forse tutte, e pur di non scoprirlo, Arturo, aveva rimandato e rimandato e rimandato quella discussione, nascondendosi dietro convenevoli vuoti e sorrisi tirati, trovando rifugio nella parte del ragazzo allegro e superficiale che per sette anni lo aveva tenuto a galla. Era tornato ad indossare quella maschera con una facilità che avrebbe dovuto impensierirlo, se solo non fosse stato preoccupato a districarsi tra mille altri problemi; aveva cercato di lasciarsela alle spalle con fatica, sapendo quanto fosse giusto, in cuor suo, mostrarsi per ciò che era veramente, piuttosto che fingere ogni singolo giorno della sua vita, ed era bastata una stupida partita per fargli rimettere tutto in discussione; una sconfitta che ancora bruciava – e non per il risultato riportato sul segnapunti; il fatto che Corvonero avesse vinto non lo aveva mai davvero rattristato così come pensare che la sua squadra avesse perso non lo aveva mai preoccupato: il Quidditch era un gioco, si vinceva e si perdeva, alcuni gioivano e altri rosicavano, ma doveva rimanere un momento felice e, soprattutto, un passatempo. Era stato assistere ai suoi compagni che lo trasformavano in una scusa per picchiare amici (e parenti) solo perché momentaneamente rivali, ad averlo deluso profondamente.
    Quel sentimento, unito alla sua orribile prestazione in qualità di capitano e giocatore che gli aveva lasciato amaro in bocca e preoccupazioni, poi, non aveva fatto altro che dargli il colpo di grazia; quell'Arturo lì non aiutava nessuno, né se stesso né la sua squadra, quindi perché mai aveva pensato potesse essere una buona idea comportarsi totalmente da se stesso? Aveva finto per anni di essere quello socievole e spensierato, disponibile ma mai troppo appiccicoso; affidabile ma non indispensabile. Presente, ma allo stesso tempo spettatore marginale di un'esistenza che trascorreva beata e tranquilla quando lui non cercava di forzarla. Ed era sempre andato tutto benissimo. Decidere di metterla da parte era stato un errore.
    In quel momento, tutti i progressi che aveva fatto e le barriere che aveva abbattuto in quei difficili mesi, erano solo un ricordo; era tornato a nascondersi dietro un «sto bene, grazie» e un «va tutto alla grande!» perché non aveva più la forza necessaria per affrontare la realtà. Per affrontare i problemi. Se fingeva che non c'erano evidenti difficoltà, poteva vivere più serenamente, no? Un pollice alzato, un sorriso forzato e denti in bella mostra: nessuno avrebbe mai dubitato che tutto andasse bene. D'altronde, era bravo in pochissime cose, ma fingere di essere qualcuno che non era rientrava decisamente tra quelle.
    Ai suoi compagni, qualche giorno dopo la famigerata partita, aveva fatto una ramanzina di circostanza riprendendoli per il loro comportamento sconsiderato sul campo e minacciandoli di metterli in panchina all'ultima partita dell'anno se non avessero dato retta ai suoi ordini – quanto meno sul campo – ben sapendo, lui tanto quanto loro, che erano tutte stronzate e che non aveva davvero scelta, l'Hendrickson, a riguardo; stavano già giocando con le riserve, non poteva permettersi di privarsi anche di loro... ma almeno si era dimostrato volitivo e fermo sulla sua posizione. O, quanto meno, c'aveva provato.
    Ci avevano creduto, gli altri Serpeverde? Forse no, aveva i suoi dubbi che potessero accettare senza sospetti un improvviso e repentino cambiamento da parte del loro incompetente capitano – ma il trucco era crederci e non mostrarsi titubanti. Non era facile, ma poteva farcela, sebbene dovesse fare un doppio sforzo con Costas, che aveva pian piano iniziato a conoscerlo davvero e che avrebbe potuto sentire odore di bullshit più di chiunque altro, ma in quei giorni per allontanare qualsiasi sospetto e tenere buono il Battitore bastava una spiritosaggine o una frase vagamente ambigua e la mente del Motherfucka dirottava automaticamente su altri pensieri.
    Infondo, Costas non era l'unico ad aver imparato qualcosa; anche Arturo ormai iniziava a conoscerlo e, per quanto lo facesse stare male ammetterlo, come raggirarlo, come manipolarlo, quali argomenti toccare per portare sempre il compagno su conversazioni più... facili. Qualcosa che non sfociasse, inevitabilmente, in un loro litigio.
    Dopo il loro confronto animato successivo alla partita (e alla rissa. e alle torture. not his finest hour, insomma) Arturo era stato così male che si era ripromesso di non lasciarsi mai più sopraffare da emozioni talmente negative che potessero spingerlo a riversare tutto il suo malessere su Costas – non importava quanto l'altro lo meritasse, Arturo non voleva mai più sentirsi come s'era sentito quel giorno: stanco, demoralizzato, avvilito. Incazzato. Lui era per il quieto vivere e la pace, principalmente perché le liti lo mettevano a disagio, ma anche perché era, dopotutto, un pacifista e una persona calma; perdere il controllo e lasciare che le emozioni avessero la meglio sul raziocinio era spaventoso per lui.
    Da qui il bisogno di evitare qualsiasi conflitto - con l'altro studente o con chiunque, anche minimo e banale come lo scegliere verso quale corridoio incamminarsi per arrivare prima a lezione; tentava di farsi andare bene tutto, o quasi, e quando non ci riusciva contava fino a cento e poi, alla rovescia, di nuovo fino a zero.
    Quando nemmeno quello bastava, e Arturo si sentiva a un passo dall'esplodere, fuggiva.
    Quasi letteralmente, nel caso specifico di quella mattina: aveva preso le cuffie e aveva lasciato un messaggio al suo vice informandolo che non si sarebbe allenato con loro quel giorno, senza soffermarsi troppo sulle motivazioni che lo avevano spinto a disertare gli allenamenti che, teoricamente, avrebbe dovuto soprintendere. Poteva trattarsi di una parola di troppo detta involontariamente da Costas, una battuta poco discreta di Sorta, un classico Momento Mort Rainey, o un commento non richiesto di Nice... c'erano giorni in cui bastava davvero un nonnulla per spingerlo oltre e innescare in lui il bisogno fisico di sparire. O di correre via fino a seminare i propri problemi.
    Non ci sarebbe mai riuscito, forse, ma poteva sempre provarci no?
    Perché alla fine, che gli piacesse ammetterlo o no, era quello il motivo che lo aveva spinto ad allacciare le scarpe da ginnastica e scivolare via, silenzioso, attraverso i cancelli del castello e approfittare del weekend di libertà per perdersi (sperava sul serio.) in quel dell'Aetas. Il parco era un buon compresso per unire il bisogno di lasciarsi dietro i problemi anche solo per un'ora, al vero lavoro che si presupponeva compiesse, non solo perché doveva; per quanto avesse iniziato a dubitare fortemente sul suo futuro in squadra, e per quanto l'idea di salire su un manico e fallire ancora una volta lo mandasse in tilt, Arturo s'era gradualmente abituato alla vita regolare fatta di allenamenti e attività fisica che quello sport richiedeva. Poteva pur rimanere pigro e pantofolaio sotto certi aspetti, ma gli esercizi – e la corsa in particolare – avevano un effetto magico e lenitivo sul suo perenne turbamento, ed erano in grado di distrarlo il giusto, quel tanto che bastava per farlo rientrare nei propri cardini; per evitare che esplodesse e si pentisse di ogni cosa fatta nella vita fino a quel preciso momento.
    Inutile dirlo, nelle ultime settimane era diventato praticamente un cazzo di maratoneta, l'Hendrickson. A ciascuno il suo coping mechanism, immagino, no? Il suo prevedeva musica assordante nelle orecchie, scarpe da ginnastica e la pista del parco di Hogsmeade.
    La familiarità di quel luogo l'aveva accolto anche quel giorno, immutato e tranquillo, surreale in un modo diametralmente opposto da come si era presentato ai suoi occhi il giorno di san valentino; il parco era discretamente affollato per essere ancora molto presto, ma d'altronde non c'erano dpcm o zone gialle-arancioni-rosse a tenere chiusi in casa i maghi, ed era comprensibile che chiunque potesse ne approfittasse per godersi un eccezionale sole primaverile, caldo ma non asfissiante.
    Di tutte quelle persone, però, Arturo non ne aveva degnata d'attenzioni mezza; c'era solo la ghiaia sotto i suoi piedi che scricchiolava ad ogni passo, la musica nelle orecchie a dettare il ritmo sostenuto della corsa, la concentrazione per regolare il respiro e i muscoli sotto sforzo che iniziavano a dolere. Avrebbe dovuto rallentare e riprendere fiato, fermarsi un attimo e riposare le gambe inutilmente affaticate, ma non c'era tempo per fermarsi, non c'era la voglia di farlo. Correre ed evitare tutto - e tutti - era decisamente più semplice.
    Anche quando iniziava a diventare vagamente paonazzo e il respiro sempre più difficile da controllare e il cuore minacciava di scoppiargli e - «mierda»
    Forse non uscì una parola completa, quanto più un verso strozzato, mentre si arrestava di colpo, con il poco fiato rimasto incastrato in gola mentre annaspava in cerca di aria, le mani ben piazzate sulle cosce e la testa bassa. Purtroppo, realizzò dispiaciuto, non aveva ancora sviluppato una super forza o una super resistenza come i personaggi dei fumetti che tanto amava, ma pensa. Sempre col respiro corto, roteò su se stesso e si gettò di schiena, di peso, sull'erba al limitare della pista, distrutto.
    «estúpido» perché infondo se lo meritava, per aver strafatto come sempre; per aver chiesto al suo fisico più di quanto potesse dare; per aver creduto che bastasse correre per stare meglio; per aver scioccamente pensato che fingere anche con se stesso sarebbe bastato a renderlo più vero.
    sorry i said sorry
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    Un peso morto si lasciò cadere poco distante da sè, il respiro affannato come se avesse deciso di correre in apnea. Anche se a fatica, respirava ancora, quindi non era un suo problema. Lo avrebbe ignorato come stava ignorando gli schiamazzi dei bambini con altrettante urla dei genitori e le coppie che avevano deciso di invadere il parco in una giornata finalmente soleggiata e quei due fan nascosti dietro all'albero che stavano aspettando il momento adatto per venire a disturbare il suo allenamento. Non lo aveva nemmeno degnato di uno sguardo, ci stava veramente riuscendo bene se non fosse che quel corpo stava intralciando la sua coreografia. «ci sono tanti posti dove andare a morire, perché scegliere quello dove mi sto allenando io?» No perchè quando c'era da parlare, parlava anche troppo. Non era di certo timido, nè aveva peli sulla lingua, se c'era qualcosa che gli dava fastidio lo diceva e in quel momento quel cadavere vivente gli stava dando fastidio solo per il fatto di esistere e trovarsi nel suo raggio di allenamento. «estúpido» La prima cosa che pensò è se lo stesse insultando. La seconda era che quella voce, quell'accento, gli era troppo familiare. Ora, Ethan sapeva che il mondo era popolato da persone che conoscevano lo spagnolo e sapeva anche che Turo era a Hogwarts quindi non avrebbe potuto essere miracolosamente morto al suo fianco, giusto? ma. MA. Se fosse stato lui? Ora che ci pensava anche lui quando era a Salem lasciava spesso il castello fra allenamenti vari e commissioni che doveva svolgere per racimolare qualche soldo. La coincidenza sarebbe stata davvero spaventosa, però nulla gli vietava di lanciare uno sguardo alla persona sdraiata per terra per accertarsi che fossero solo sue pare mentali e al massimo avrebbe potuto far rotolare il cadavere lontano dalla sua vista. «turo?» Se fosse successo qualche mese prima probabilmente lo avrebbe lasciato stramazzare al suolo senza troppi problemi e senza nemmeno immaginare che quel ragazzo poteva essere yabbadabbadoo, uno dei ragazzi conosciuto su Twitter. Aveva commentato un suo fleet e cercato di consolarlo quando lui era solo reduce da una sbronza colossale e sicuro non aveva bisogno di sfogarsi o di piangere sulla spalla di qualcuno. Quando pensava di esserselo smollato, era riapparso su un nuovo account e aveva avuto la possibilità di conoscerlo meglio. Ecco che aveva conosciuto un'altra vittima del giudizio altrui, con la paura di mostrare il vero se stesso e intrappolato nella stessa maschera che si era creato per proteggersi dagli altri. Probabilmente Arturo non aveva ormai nemmeno la più pallida idea di chi fosse realmente. I due non potevano essere più diversi eppure condividevano qualcosa che li accomunava: la vocina insistente nella mente di Turo che gli ripeteva di star facendo la cosa sbagliata. Anche Ethan aveva una vocina fissa nella mente, un volto sempre presente nella sua visuale, una serie di ricordi ad affollargli la mente e un senso di colpa pesante come un macigno.
    Ed Ethan, che si sentiva tanto speciale, aveva ben 3 coping mechanism in base al mood lìdel momento.
    Coping mechanism number uan: quando era incazzato e non finiva per sfogare la rabbia in una rissa (non accadeva spesso ma neanche così di rado) correva per far sbollire la rabbia. Al contrario di quando correva per allenarsi, non faceva il solito giro, non si prendeva qualche pausetta per coccolare i gatti randagi del quartiere che ormai erano suoi figli (letteralmente. alla fine li aveva presi dalla strada e portati a casa. ora era padre di 17 gatti randagi oltre ai suoi tre almeno finché non avrebbe trovato casa ad ognuno di quei gattini.), ma cosa più importante: correva senza meta, a lungo e finché era costretto a fermarsi. Risultato? A quel punto gli mancavano le forze o si perdeva da qualche parte e non voleva più tornare a casa.
    Questo solo quando era incazzato, il che capitava spesso. I veri coping mechanism per eccellenza però erano gli altri due.
    Coping mechanism number ciu: campione mondiale per quanto riguarda l'allontanare le persone a cui inizia ad affezionarsi e innalzamento di muraglie cinesi attorno a lui. Ethan parte prevenuto: se conosce nuove persone solitamente è far farci sesso, non per amicizia. Estroverso come sempre, ride, scherza ed effettivamente gli piace stare in compagnia di tante persone fin quando si tratta di semplici chiacchiere, flirt o sesso. Nella maggior parte dei casi quelle persone non le avrebbe più riviste o al massimo non ci avrebbe più avuto a che fare. I muri che innalza attorno a sè non vanno però toccati e se affezionandosi ad una persona, rischia di farli crollare, per evitare la catastrofe tronca qualsiasi rapporto.
    Coping mechanism number tri: il resto dei problemi lo risolveva gettandosi a capofitto sull'alcool. Tanto da aver sviluppato una piccola lieve forma di alcolismo che non ammetterà mai di avere perché lui beve solo per piacere, sì. Finley più di una volta era dovuto uscire per recuperarlo e recentemente la colpa era sempre stata di JD che lo avvisava. Come se lui, Ethan Lynx, potesse davvero restarci secco. Lui era piuttosto sicuro che se reggesse così poco da aver bisogno di un babysitter a controllarlo ogni volta che beveva, non sarebbe già vivo da un pezzo.
    Aveva conosciuto il ragazzo abbastanza da sapere che qualcosa in quel momento non andava, ma non abbastanza da leggergli nella mente. «se stai cercando di morire questo è lo spirito giusto» Era piuttosto sicuro che Turo sapesse cosa comportava portare allo stremo il proprio fisico e a dispetto di quanto sostenesse, era sicuro potesse anche essere un buon capitano. Doveva solo trovare se stesso e capire cosa volesse veramente. quindi se era arrivato a spingersi tanto sicuro un motivo c'era. «potrei cuocerci un uovo.» Lanciò un rapido sguardo alla borraccia che aveva in mano. Il secondo successivo stava versando il contenuto addosso al ragazzo. «guarda, evapora.» Un po' si stava divertendo, doveva ammetterlo. «hai cambiato il tuo stile di allenamento, capitano? mh perché non mi sembra molto efficace. dovresti provare con la danza e non lo dico perché sono di parte.» Avrebbe potuto chiedergli cosa non andasse ma aveva previsto che sarebbe andata più o meno così: avrebbe finto di star bene, avrebbero parlato un po' poi toccando le corde giuste probabilmente avrebbe parlato, poi si sarebbe scusato dello sfogo e avrebbe aggiunto che non era importante e di lasciar perdere infine sarebbe iniziata una catena di scusa se ho chiesto scusa per aver detto scusa e avrebbe sicuramente perso la pazienza a quel punto. Almeno aveva tempo per prepararsi mentalmente.

    The moon will guide you through the night with her brightness, but she will always dwell in the darkness, in order to be seen.

    Ethan
    LYNX
    when: may 2021
    where: aetas
    why: dancing
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    turo hendrickson
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    Vedete? Persino la morte non era clemente con lui; nemmeno lei lo voleva.
    Vabbe, lei poi: chiunque avesse parlato facendone le veci, ecco.
    E come dargli torto, infondo? Non si voleva nemmeno lui!! Quindi non si preoccupò di alzare il braccio che aveva fatto cadere, con fatica, sugli occhi per ripararsi dal sole, e rifilare un pollice all'insù in direzione della voce; non si preoccupò di nascondere il sorriso amaro che quelle parole - chiaramente un'allucinazione uditiva dovuta allo sforzo fisico - avevano procurato; non si preoccupò di fingersi sorpreso al pensiero che qualcuno lo volesse veder morire in qualsiasi altro posto fuorché nei propri paraggi.
    E, strano ma vero, non si preoccupò nemmeno di chiedere scusa per aver invaso gli spazi altrui cadendo a peso morto, sfiancato, e rovinando il momento. Quale? Beh, qualsiasi. Era convinto al mille percento che quella conversazione fosse a senso unico, che stesse accadendo solo nella sua testa, anche perché duh, fino ad un secondo prima Romeo Santos aveva duettato nelle sue orecchie insieme a Pitbull! Si maledisse da solo, quello stupido invocato ad alta voce, poiché pensarlo non era mai sufficiente, realizzando solo in quel momento che non sentiva più la musica familiare di quella canzone riascoltata fin troppe volte, e istintivamente portò una mano a sistemare le cuffie. Oh, le aveva perse nella caduta, e ora riposavano pigramente sul suo addome. Oh. Quindi... qualcuno non lo voleva davvero lì? (Beh, onesto, comprendeva pienamente.) Adesso sì che aveva ancora meno voglia di spostare il braccio e scoprire il viso, rosso non più per lo sforzo ma per l'imbarazzo. Stava giusto riflettendo come strusciare via senza farsi notare troppo (o più di quanto non avesse già fatto) quando la stessa voce lo chiamò per nome.
    No, peggio: chiamò «turo?»
    Ora, vedete, se fosse stato arturomaria avrebbe saputo che c'era Willow nei paraggi ed era giunto il momento di darsela a gambe; un arturito significava Costas in cerca di attenzioni – che lui non era ancora pronto a dargli; un Hendricks sarebbe stato al pari di un miraggio, non vedeva la bionda ex serpeverde da quasi un anno. E invece turo era una novità: tutti ce lo chiamavano, certo, ma mai nessuno lo utilizzava davvero. Era sempre turito, o capitano, o hendrickson. E, soprattutto, mai nessuno lo pronunciava con quella punta di incredulità che aveva colto nella voce sconosciuta – tono che, a conti fatti, terminò l'opera, incuriosendolo e spingendolo a muovere appena il braccio per osservare la figura a cui aveva quasi certamente rovinato (la giornata? eh) il momento.
    Rimase un attimo interdetto nel ritrovarsi di fronte due profondi occhi a mandorla, un cipiglio severo e l'aria di chi era 100% done: così confuso da tutto quello che dovette strabuzzare un paio di volte gli occhi per mettere a fuoco tutto, domandandosi se valesse la pena ignorarlo e fare finta di nulla (magari era uno che voleva picchiarlo? Non servivano nemmeno motivi validi, in quel periodo, era certo che il mondo intero ce l'avesse con lui) ma sua madre l'aveva cresciuto (pieno di traumi ma) meglio di così, perciò si ritrovò a rispondere con un timido «sì...?» senza dare cenni di volersi alzare da lì. Oh, uno non poteva manco morire in pace, ma tu guarda. E poi quel «se stai cercando di morire questo è lo spirito giusto» come se lo sconosciuto gli avesse letto nella mente (no, era solo palese come il sole quali fossero le intenzioni dello spagnolo) e si ritrovò a mettere il broncio. Lo stava forse prendendo in giro? (Spoiler: sì) «Hey -» piegò i gomiti e inarcò appena la schiena, senza mettersi davvero seduto, pronto a (scusarsi? Sì, probabilmente) dire al tipo quanto fosse poco carino trattare in quel modo degli sconosciuti quando «HEY!» Gli aveva appena rovesciato il contenuto della sua borraccia addosso? SUL SERIO??? Scosse le ciocche scure, ora gocciolanti non più solo di sudore, e rivolse l'ennesimo sguardo esasperato al... oh. Oh. «OH.» Sophie Kinsella diceva: “there should be a rule which says that people you've met in the gym should never meet you in real life” ma nel caso di Arturo occorreva sostituire palestra con chat dei social media babbani. Non poteva crederci.
    No, non voleva crederci. Eppure... «oh» uwannafeelme «...» possibile che quello fosse proprio Ethan? Che di tanta gente presente al parco, Arturo fosse crashato proprio dove il ballerino si stava allenando? Ma che razza di sfiga aveva? Cioè... capiamoci. Ethan l'aveva aiutato in molte più occasioni di quante il latino fosse disposto ad ammettere; c'era stato nei momenti in cui aveva sentito di non potersi confidare con nessuno e l'aveva ascoltato quando lui aveva parlato (o meglio, scritto) senza freni e senza farsi inutili problemi. Lo aveva messo di fronte alla (scomoda) verità e lo aveva trattato come in pochi avevano mai fatto prima di allora: con sincerità, senza mezzi termini e senza addolcire il colpo. Lo aveva spronato ad essere ciò che avrebbe voluto, ma che non aveva il coraggio di ammettere; con i suoi “e allora perché lo fai” e “allora perché non lo fai” gli aveva dato modo di riflettere – eh, sì, più di quanto non facesse già. Avevano parlato così tanto, di tutto, Arturo confidando segreti e mezze verità che nessuno a scuola sapeva, Ethan raccontandogli (poco) della sua vita da ballerino, delle competizioni e dei sacrifici fatti per raggiungere l'obiettivo di tutta una vita.
    E Arturo aveva lasciato che le dita decidessero per lui, muovendosi veloci sullo schermo touch del cellulare, che dessero vita a pensieri che altrimenti avrebbe portato con se nella tomba. E lo aveva permesso perché sapeva che Ethan sarebbe rimasto quello: un nickname che lampeggiava insieme alla notifica di un nuovo messaggio, un volto visto solo nei video delle prove che ogni tanto si faceva mandare dal ragazzo, una voce (immaginaria) severa ma onesta che gli diceva senza troppi fronzoli che stava facendo un errore. Non si sarebbe mai aspettato di vederlo lì, in carne ed ossa. Vero. CIOÈ CAPITE: V E R O. «Ethan...» se c'era un Dio, lassù, come sosteneva sua madre e tutta la famiglia, doveva proprio avercela tanto con lui.
    «hai cambiato il tuo stile di allenamento, capitano?» Non c'erano dubbi, adesso, che quello fosse proprio il suo guru di chat; e nel realizzare la cosa, Arturo si sentì anche sopraffare da un profondo senso di colpa (no, era vergogna) per come era sparito di punto in bianco: un giorno parlavano della competizione a cui Ethan avrebbe partecipato di lì a poco, e quello dopo ogni altro aspetto della vita di Turo era passato in secondo piano per quella maledetta partita. Inutile dire che, con tutti i pensieri ad affollargli la testa, l'idea di aprire la chat non gli era nemmeno balenata: cercava di evitare qualsiasi mezzo con cui poter essere contattato, gufo o telefono che fosse. Evitava le persone, fingeva di non esistere, un discorso che valeva sui social tanto quanto irl.
    Ma, come già detto, arrivati a quel punto Eth poteva ritenersi un vero esperto in Arturologia, perciò non sarebbe di certo rimasto sorpreso nel sentire una certa parolina lasciare le labbra del moro. «Scusa.» Per esser piombato a peso morto sul suo allenamento, per averlo ghostato senza preavviso, per... beh, per avergli rovesciato addosso più parole di quante non avesse mai dette ad altri. E, soprattutto: «ugh, scusa per aver detto scusa Già poteva immaginarlo lo sguardo truce che si sarebbe beccato per quelle scuse – solo che, in quel caso, non serviva immaginarlo perché poteva finalmente vederlo, semplicemente alzando la testa.
    Motivo per il quale tenne lo sguardo basso sui fili d'erba sotto i piedi del ballerino. «Ho provato con il flamenco, ma la danza non fa per me.» Un'altra verità, sì, tanto che male poteva fare a quel punto: Ethan sapeva già troppo di lui. Infondo era così, non aveva ancora trovato lo sport che facesse per lui; gli mancava da provare solo il nuoto. Oppure «dovrei dedicarmi al cricket» meno ansia, e soprattutto non si andava ai rigori (cosa?cosa.) Serrò le labbra in quel che nemmeno un miope senza occhiali avrebbe mai scambiato per un sorriso, perché a conti fatti non lo era: era l'espressione di chi avrebbe voluto sparire, di chi desiderava solo che una mega faglia si aprisse nel terreno sotto il suo culo per inghiottirlo e adios bitchachos.
    Non sapeva se a spaventarlo di più fosse l'idea di avere Ethan lì davanti, o il pensiero delle cose dette e che non avrebbe potuto più rimangiarsi o smentire, o l'idea di deluderlo dimostrandosi esattamente per ciò che il mago s'era immaginato.
    Nel dubbio: *insert sticker /tre opzioni/ here*
    sorry i said sorry
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