(what about trust?) you know I never wanted to hurt you.

ft. mac | post partita

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    arturo maria hendrickson ›
    I can't keep my head from spinning out of control.
    being intimate with brokenness
    and I will try, try, try to breathe,
    until it turns to muscle memory;
    I'm only steady on my knees...
    one day I'll stand on my own two feet.
    hogwarts | sunday, april 18th
    slytherin | chaser & unworthy captain
    *on the verge of breaking down* im fine
    Inspira. Una fitta lancinante al fianco destro gli a mozzò il respiro a metà; non abbastanza aria incanalata nei polmoni, già messi a dura prova da ore sul campo a gridare, e gridare, e gridare, per farsi sentire ma senza alcun risultato.
    Espira. Altro dolore, altra fatica atroce per un'azione che avrebbe dovuto essere automatica, con tutte le volte che era stata ripetuta - sebbene spesso a fatica - per diciotto anni di vita.
    Inspira. Espira. Inspira. Espira.
    Inspira,
    - e non pensare ai compagni doloranti accanto a te; ma lo vedi, che persino il ghigno della canaglia è un po' meno provocatorio, ora.
    Espira,
    - e non pensare al fatto che Costas è destinato all'ennesima visita da Stiles nel giro di un mese; e non c'è verso che non ce lo trascini tu stesso, non dopo quel bolide e certamente non dopo due ore – o forse erano tre? non riesci più a tenere il conto del tempo che passa – nella stanza dei giochi della Queen.

    Come un mantra, Arturo cercava di regolarizzare il respiro non non-pensando ai suoi compagni. Come faceva a non pensare a loro, quando erano finiti lì anche per colpa sua? Sua la fascia, sua la responsabilità.
    Si azzardò ad aprire lentamente un occhio, per cercare le figure degli altri serpeverde, ma era troppo stanco per costringere la testa a muoversi o lo sguardo a vagare in quella terribile stanza che stava frequentando un po' troppo spesso, ultimamente, per i suoi gusti.
    All'Hendrickson, la vittoria non importava così tanto; non era un tipo goliardico o competitivo, non come il resto dei suoi comunque, e forse era proprio per quello che non avevano vinto. Se fosse stato un poco più cattivo, un poco più con la testa nella partita... se solo avesse pensato bene alle cose da dire, da fare; se solo avesse avuto davvero la stoffa del leader, se solo fosse riuscito a farsi ascoltare... se solo.
    Avrebbe voluto vincere esclusivamente per evitare quello; una sofferenza eccessiva che i suoi compagni non meritavano – una punizione per non aver vinto poteva anche accettarla, ancora di più avrebbe condonato una punizione per il loro comportamento sleale in campo... ma non quelle torture. Non ne capiva il senso, non ne vedeva il motivo. Ci avrebbe pensato lui stesso a punirli, lo avrebbe fatto davvero, perché si erano comportati in maniera riprovevole, facendo l'unica cosa che aveva chiesto loro di non fare. Avrebbe costretto Mort a chiedere scusa, se solo avesse creduto servisse a qualcosa; avrebbe tenuto in panchina Costas al prossimo turno, se non avesse avuto così bisogno di lui in campo per altri mille motivi. Qualsiasi cosa, qualsiasi la punizione, però, l'avrebbe fatto lui, perché erano sua responsabilità, no? Sua.
    E, proprio perché tali, il peso di quelle torture ingiuste gravava su di lui doppiamente: al dolore fisico, si aggiungeva quello psicologico di sapere che era colpa sua. Se solo li avesse tenuti a bada, se solo li avesse fatti rimanere concentrati sulla partita e sul difendersi piuttosto che sul commettere falli su falli; se solo avesse saputo come esercitare un briciolo di polso, se solo, se solo, se solo...

    Se solo non avesse mentito a se stesso, fin dall'inizio.
    Se solo fosse stato onesto come lo era stato con uno sconosciuto, mesi prima.

    «devo confessarlo, non sono un gran fan del Quidditch nemmeno io. Preferisco il calcio babbano.» parole che aveva digitato di getto, assorbito da una conversazione molto più profonda di quel che aveva creduto. «l'ironia più grande è che sono nella squadra» con tanto di faccina preoccupata, una che appariva regolarmente nella chat con il ballerino, per gentil concessione di Arturo che non sapeva in che altro modo esprimere se stesso se non attraverso quell'emoji che tanto bene lo rappresentava. «Addirittura... sono il capitano.» E lo shock di Ethan, chiaro anche attraverso lo schermo: «il capitano. come.»
    Aveva sbuffato una risata nasale, Arturo, nel leggere quella risposta. Già, come? Se l'era chiesto anche lui, per tutto l'anno. Sulla carta, era una questione molto semplice: «il nostro capitano si è diplomato a giugno e ha appuntato me come suo successore.» E quella, era la parte tecnica della cosa.
    La parte emotiva... beh, era tutta un'altra storia.
    Era sicuro – no, ne era certo - che il suo ex Capitano avesse visto in lui qualcosa... qualcosa che c'era stata, inizialmente, e seppur debole, Arturo la sentiva ancora: la voglia di unire la squadra e renderla un gruppo vero, unito, leale. Un gruppo con cui affrontare le partite e con cui ridere e scherzare a prescindere dal risultato.
    Un team con cui fare squadra e con cui condividere tutto.
    L'ironia della sorte era che aveva preso a modello Joey e i suoi ragazzi; ironia, sì, perché era proprio contro di loro che Arturo aveva dimostrato di non avere niente a che fare con il Moonaire o con i Corvonero.
    I Serpeverde avevano fatto fronte unico, certo, ma contro di lui.
    «mi piacciono i miei compagni,» aveva detto ancora ad Ethan, via chat, «ma non credo di essere adatto» a quella squadra, a quel gioco, a quella posizione.
    Poi un'altra piccola verità: «non ho avuto il coraggio di dire di no» ed era quello, molto spesso, il problema di Arturo: non avere abbastanza coraggio. Non ce lo aveva avuto con Costas, per mesi, e non ce lo aveva avuto nemmeno con Ravi; avrebbe dovuto fermarlo ancora prima che formulasse quella proposta, e fargli capire chi era davvero Arturo: una persona immeritevole di quella fascia, indipendentemente da quanto cuore potesse metterci, da quanta anima. Non bastava.
    Non bastava mai.
    Ma c'aveva provato a farsela bastare. Era partito con lo spirito giusto, nonostante l'ansia e la paura a pesare come macigni su ogni scelta presa; era partito con fiducia perché, almeno quella, ne aveva sempre. Aveva avuto un'idea chiara, Arturo, a Giugno, che poi aveva preso sempre più forma fino ad arrivare a Settembre; in estate era stato facile credere e convincersi di potercela fare, ma solo mettendo concretamente il culo su una scopa aveva capito che era più tosta di quel che aveva immaginato – e, vittima del suo stesso pessimismo, Arturo aveva pian piano dato vita agli scenari più disparati nella testolina sempre impegnata ad auto-demolirsi.
    Da settembre in poi, il panico. Per lui era stata tutta in salita.
    O tutta in discesa verso l'inferno, dipende dai punti di vista.
    Aveva dubitato sempre di più, partita dopo partita, accusando il colpo di volta in volta e facendo i conti con una pressione che non voleva, per Salazar, non voleva. Sua madre sarebbe rimasta così delusa da lui, e dalla sua fragilità. Dal suo non riuscire a sopperire a certe carenze e non sapersi far carico di quelle responsabilità.

    Alla fine aveva avuto ragione il tarlo nella sua testa che gli ricordava, brutto voto dopo brutto voto, che era destinato a fallire; ed era stato proprio quello.
    Un fallimento, su tutta la linea.
    Non solo la partita, ma lo stesso Arturo Maria Hendrickson, che s'era rivelato per ciò che era: una delusione. Le persone che solo due giorni prima lo aveva accolto in sala comune, senza preavviso, augurandogli buon compleanno e riempendolo di attenzioni che persino nella timidezza era riuscito, alla fine, ad apprezzare; non avrebbe mai creduto che tutte quelle persone potessero rispondere all'invito di Costas e presentarsi lì per lui, ma l'avevano fatto e nonostante il panico, il cuore di Arturo si era come scaldato. Tutte quelle persone lì, a dimostrare di volergli bene... quelle persone che poi lo avrebbero giudicato dagli spalti, a distanza di quarantotto ore, per il gioco sporco della sua squadra.
    E avevano ragione. Li aveva delusi. Si sarebbero aspettati di meglio, da lui; si sarebbero aspettati quanto meno che si prendesse le sue colpe.
    «non sono i miei giocatori quelli che stanno giocando di merda»
    Affondò la testa oltre il livello dell'acqua, nella speranza di mettere a tacere quelle voci che per tutto il pomeriggio e per tutta la notte non gli avevano dato tregua. Ma era ancora lì, la voce di Joey, e il suo sguardo gelido. Aveva ragione. Erano stati i suoi giocatori quelli fallosi, quelli sporchi, quelli scorretti. Non importava quanto felice fosse la Weasley di vedere qualche fallo in campo; ad Arturo non piacevano e non gli sarebbero mai piaciuti, nemmeno le spallate fatte senza malizia.
    Avrebbe dovuto fare di più, imporsi, e non rimanere inerme a fissare Mort compierne uno dietro l'altro; avrebbe dovuto darsi una svegliata e invece non era riuscito ad entrare mai in partita. Quando credeva di averlo fatto, Costas si era beccato un bolide in piena faccia e Arturo aveva smesso di formulare pensieri coerenti - nemmeno un passaggio che fosse uno, gli era riuscito. Non c'erano state note positive nella sua performance, quel sabato.
    Riemerse dall'acqua solo quando i polmoni iniziarono a bruciare; accumulò quanta più aria possibile, poi si immerse nuovamente. Il silenzio del bagno dei prefetti era fin troppo assordante. I pensieri, e i rimproveri, rimbombavano in quello spazio enorme e desolato dove Arturo s'era rifugiato, ben sapendo che sarebbe stato vuoto a quell'ora della notte, e lui non voleva vedere nessuno - o peggio, esser visto. L'idea di essere beccato dal Caposcuola di ronda non era stata un deterrente sufficiente a farlo demordere; aveva bisogno di stare da solo e autocommiserarsi in santa pace. Non avrebbe mai mostrato al mondo quel lato di sé, così melodrammatico e pessimista, per non essere giudicato, ancora una volta; alcuni avrebbero potuto definirlo vittimismo - "facile piangersi addosso quando va tutto male e farsi bello quando si vince, eh" - altri gli avrebbero dato del debole - "lo vedi, non ha le palle! - altri, ancora, avrebbero riso di lui e delle sue eccessive preoccupazioni - "dai è solo una partita, non è la fine del mondo!". Ma nessuno l'avrebbe compreso. Non aveva dunque voglia di mostrarsi così né al mondo, né ai suoi concasati; voleva una via d'uscita che fosse facile. Il bagno dei perfetti in piena notte gli era sembrato un buon compromesso.
    Alla fine, aveva perso il conto delle ore che passate in quel posto, dapprima immobile contro la porta, indolenzito dal gioco e dalle torture, poi riuscendo pian piano a farsi forza e togliersi di dosso la divisa sudata e insanguinata; ma indipendentemente dalle ore trascorse, ne avrebbe passate volentieri altrettante lì.
    No, anzi: non avrebbe mai rimesso piede nei corridoi di Hogwarts.
    Peggio di essere il centro dell'attenzione di qualcuno c'era solo l'attenzione negativa della gente, dei tuoi stessi compagni di scuola.
    Arturo Maria Hendrickson non era certo di poterla reggere.
    Un fallimento su tutta la linea.

    Per quanto cercasse di non pensarci, di andare oltre, di lasciarselo alle spalle perché era solo un gioco, era solo una partita, era solo uno stupido sport, la sua mente tornava sempre lì; a Costas che volava giù dalla scopa, a Kiel che imbucava la pluffa negli anelli, alle sue mani che non riuscivano a tenere la palla per più di qualche minuto, a Gideon che prendeva il boccino. Ma ancora prima, proprio quando credeva che la situazione non potesse peggiorare, era stato proprio lui a farla precipitare.
    «Mac, dacci un taglio, ok?» E il cuore che perdeva un battito al ricordo dello sguardo ferito dell'Hale. Dolore nello sguardo grigio di Mckenzie Hale provocato da un Arturo esausto, svilito, stremato. Disperato. Un Arturo che, senza scusanti di alcun tipo, aveva terminato l'opera che i suoi compagni avevano tentato di completare per tutta la durata della partita; senza volerlo davvero, aveva ferito più lui il battitore con cinque stupide parole, che Mort e Costas con i loro continui attacchi.
    Aveva fallito, più di ogni altra cosa, come anima gemella perché aveva fatto una cosa indicibile, più di qualsiasi altro fallo - perché niente era stato doloroso quanto vedere Costas essere disarcionato, fino all'espressione di stupore di Mac alle sue parole.
    Ah, come avrebbe voluto tornare indietro e rimangiarsele!
    Era stato ingiusto, scorretto, più cattivo di tutti i falli perpetrati dai suoi compagni perché Mac non se lo meritava quel tono aspro con cui Arturo si era rivolto a lui; ancora di più, non si meritava quelle parole. Lui che stava solo facendo il suo lavoro (al contrario del capitano avversarsio) decisamente non si meritava quel dacci un taglio.
    Non c'erano scusanti, non c'erano cronocineti o oblivianti che tenessero: in un momento di debolezza, Arturo s'era lasciato sopraffare dall'emozione negativa di quella partita e ora doveva convivere con la cosa.
    Avrebbe potuto nascondersi dietro un la pressione su di me era così tanta, e in parte, qualcuno, avrebbe anche potuto comprenderlo: chi lo conosceva – anzi no, chi lo aveva conosciuto un tempo, non avrebbe fatto fatica a riconoscere segni di quel che in passato era stato River, così impegnato a immagazzinare rammarichi e fallimenti e stress e pressioni al punto da arrivare a scoppiare nei momenti meno opportuni. Ma per lui, non che Arturo lo sapesse infondo, era stato più facile: dall'altra parte c'era sempre un Hyde pronto ad ignorarlo, una Mabel pronta a sfidarlo, un Bangkok pronto a rispondergli a tono. Se – no, quando River scoppiava, non rischiava di travolgere nel disastro un Mckenzie Hale.
    Non c'era niente che legasse Arturo a River, non in quella vita, se non quello strano bisogno che lo spagnolo aveva di rimanere, sempre e comunque, lontano da situazioni in grado di provocargli stress esagerati. Non si piaceva sotto stress, non solo perché iniziava a sudare più del dovuto o perché non sapeva come comportarsi; non si piaceva perché diventava imprevedibile, impulsivo, irrazionale. Difettoso. Un Arturo sotto pressione finiva sempre col fare la scelta sbagliata ed in quel caso, aveva scelto di dare retta al tarlo che gli diceva fosse più facile incolpare qualcun altro dei suoi fallimenti, piuttosto che accettare il fatto di non aver mai avuto alcuna speranza di raddrizzare la sorte di una partita persa al primo fallo commesso.
    Perdendo il controllo, aveva riservato a Mac un atteggiamento che il corvo non meritava. Non lo meritava affatto. E la cosa peggiore era che non aveva nessuno da incolpare, se non se stesso.
    S'era trovato Hale davanti alla faccia e aveva parlato prima di rendersene conto, sputando fuori con rabbia quel commento che non avrebbe mai voluto pronunciare; che non avrebbe mai dovuto pronunciare.
    La voce dei compagni a ripetergli “noi stiamo subendo le loro bolidate e tu ti preoccupi di qualche fallo su Hale? Capitano svegliati, ci stanno facendo il culo!” al quale avrebbe dovuto rispondere con un “allora smettetela di fare fallo e difendetevi come si deve”; parole che non disse, rimanendo in silenzio, troppo sconvolto e troppo inetto per fare alcunché, se non fluttuare senza meta sulla sua scopa.
    Non aveva parlato, per non ostacolarli ulteriormente; erano già palesemente quattro contro uno, in quella storia, affrontare anche una diatriba intestina a venti metri da terra non gli sembrava una buona idea.
    Poi aveva visto Mac e, forse disperato, forse perché aveva sperato che l'Hale per lui provasse quanto meno a trattenersi dal fare fuori le bestie – sì, lo erano, ma erano anche suoi amici, alcuni più di altri e vi prego basta finitela, finiamola tutti, Jeremy fischia la fine ti prego ti prego e poi il vaso era traboccato.
    E lui era esploso.
    E Mac aveva accusato il colpo.
    Era ufficiale: odiava sempre di più il quidditch.
    No, anzi: odiava se stesso durante il quidditch.

    Portò nuovamente la faccia fuori dall'acqua, ansimando e annaspando in cerca d'aria. Doveva smetterla, doveva darsi una calmata, ma non sarebbe stato un Hendrickson se non avesse ingigantito la cosa oltre misura, portandola ad essere una questione più profonda del dovuto, no? Non sarebbe stato lui se avesse lasciato correre e non si fosse mangiato le mani per tutto quanto: per non esser stato un bravo cacciatore e un bravo capitano, per non esser stato un bravo amico, per non esser stato una brava anima gemella. Amalie gli avrebbe detto di smetterla di autocommiserarsi e iniziare ad affrontare le questioni di petto, iniziare a crescere perché ormai aveva diciotto anni e doveva tirare fuori la testa dal culo – no, okay, forse quello l'avrebbe detto Barry ma insomma, il punto era che Amalie aveva ragione. Ed era per questo che Arturo non parlava più così tanto con lei, da persona matura quale (non) era; preferiva ignorare i consigli della ex Corvonero e continuare a crogiolarsi nella sua misera, reputando giusto quella sofferenza auto inflitta per cose che, spesso, avrebbero trovato facile risoluzione con una semplice parola: scusa.
    Parola che avrebbe dovuto dire a Mac sin dal primo momento, e invece era stato il battitore blubronzo a farlo; avrebbe potuto dirglielo dopo la partita, prima della rissa. E invece aveva mangiato la foglia e aveva lasciato che gli eventi si succedessero uno dietro l'altro, una spinta, un insulto, un pugno -
    E poi era già il giorno dopo e Arturo non sapeva come avvicinare l'Hale senza sentirsi fisicamente male all'idea di poter vedere ancora quell'espressione delusa e sofferente sul volto dell'altro.

    In un momento imprecisato tra quei pensieri e i successivi, Arturo era riuscito persino a costringere il suo corpo stremato a tirarsi fuori dalla vasca, e rannicchiarsi in un angolo del bagno dove, alla fine, era crollato in un sonno agitato e costellato di incubi. Tutto quel disagio e quello stress avevano riportato a galla sogni terrificanti che Arturo credeva d'aver messo per sempre da parte; e invece erano ancora lì, solo che ora i mostri non minacciavano più solamente lui, ma aggredivano Costas sul suo manico di scopa, e sorridevano beffardi mentre, con la sua voce, ripetevano a Mac di darci un taglio, dacci un taglio, dacci un taglio, dacci un taglio.
    Si svegliò di soprassalto, il cuore in gola e la consapevolezza di aver rovinato una delle poche cose buone che gli erano capitate quell'anno. Si massaggiò le tempie, per niente riposato, forse più stanco di prima; i lividi sul suo corpo erano ancora evidenti, così come le ferite procurate dalla Queen, ma iniziavano a fare un po' meno male dopo ogni tortura subita.
    Il suo dolore, ora, era di altra natura.
    Aveva a che fare con una squadra che non sapeva come affrontare; con una responsabilità che non sapeva come gestire; con una fiducia che non sapeva come recuperare.
    Ai Serpeverde avrebbe pensato il giorno dopo – non se la meritavano, non dopo i falli e certamente non dopo la rissa, ma poteva lasciargli quella domenica per riprendersi dalla partita e dalla Queen... li avrebbe affrontati poi, nella speranza di racimolare il coraggio e le palle necessarie a farlo.
    Ma li avrebbe affrontati.
    Così come avrebbe affrontato con loro la questione del grado di capitano: lo volevano ancora, come guida? Se lo meritava? L'avrebbero voluto in squadra contro Grifondoro? Erano tutte domande a cui Arturo, in quel momento, non voleva pensare, ma per le quali la vocina dentro di sé aveva già la risposta: no.
    E Mac... non era certo di poterlo avvicinare – in quel momento, certo, ma anche fino al diploma. Willow era stata chiara: avrebbe staccato arti senza remore a chiunque si fosse avvicinato ancora una volta al loro battitore e per Salazar, per la prima volta da quando la conosceva, Arturo era d'accordo con lei. Quel senso di ardente protezione nei confronti di Mac era lecito, e comprensibile. Arturo lo capiva benissimo, l'aveva sentito lui stesso per tutta la durata dell'incontro, ma... come avrebbe fatto a scusarsi, senza neppure potersi avvicinare a lui?
    Aveva bisogno di farlo, di dirgli che non avrebbe voluto scattare in quel modo, che lui non lo meritava e che anzi, aveva fatto un gran bel lavoro - ad uccidere i tuoi compagni?
    Scacciò quel pensiero agitando la testa, ma nel farlo l'intera stanza ondeggiò violentemente. Forse era lui che aveva bisogno di vedere Stiles e farsi prescrivere qualcosa di forte per mettere a tacere il mal di testa, e le voci, e tutto quanto.
    Poteva comunque apprezzare il buon lavoro di Mac sul campo, senza passare per un traditore, giusto? Riconoscere le doti dell'avversario non lo rendeva automaticamente un traditore di serpeverde; faceva di lui una persona corretta, no?
    Voleva credere di sì, Arturo, mentre si trascinava verso l'infermeria che si augurava di trovare vuota; i superstiti della rissa, sperava, avevano già fatto rientro alle proprie sale comuni; nessuno si era fatto male gravemente... o così voleva convincersi.
    Dopo aver fallito miseramente - ancora? sempre. - nel tentativo di evitare iniziasse, Arturo aveva infatti lasciato che la folla accorsa lo spintonasse via e, impotente, aveva assistito alla scena. Non si era messo in mezzo, non aveva detto una parola se non un flebile «no» nella speranza che Mort non sferrasse il primo colpo e poi... era degenerata davanti ai suoi occhi.
    Non era rimasto per vedere altro.

    «tu puedes hacer esto» ma la convinzione nelle sue parole era flebile come il respiro che a fatica si liberava dalle sue labbra. La mano posata sulla porta dell'infermeria e la domanda a tenerlo ancorato al pavimento, ad impedirgli di entrare: voglio davvero rischiare di farmi vedere in giro? La risposta era no, ma che altra scelta aveva? Emigrare in Groenlandia? (Beh, se si poteva fare.......)
    Poi un rumore di passi alle sue spalle lo fece sussultare; un rumore arrivato a lui solo grazie al silenzio spettrale dei corridoi di Hogwarts la domenica mattina. E lui, pur non volendo, si ritrovò a voltarsi e posare lo sguardo su Mac.
    Era stato così preoccupato a pensare a come avvicinarlo che non aveva immaginato il fato potesse portarlo direttamente da lui.
    Aprì la bocca una volta, poi un'altra. Poi una terza. Ma solo al quarto tentativo riuscì a forzare la fuoriuscita di pocghi versi strozzati che avrebbero dovuto essere parole. «Mac-» beh si, era Mac. Tornò nuovamente in silenzio, domandandosi quanto diritto avere di trovarsi lì, a scusarsi. Poco, probabilmente, ciononostante aveva bisogno che Mac sapesse quanto fosse dispiaciuto; non voleva buttarla sull'autocompatimento, era sincero nel suo dispiacere, ma abbassò comunque lo sguardo perché incapace di sostenere quello chiaro dell'Hale. «lo siento» Nei pochi mesi che erano intercorsi tra San Valentino e la partita, le cose tra i due erano andate bene, seppur nei loro standard di imbarazzo. Erano pur sempre Mckenzie e Arturo, cos'altro ci si aspettava? Ma i silenzi con Mac non erano mai difficili e l'incertezza non era mai un difetto, qualcosa da nascondere. Da quando si erano trovati, Arturo aveva capito che se c'era una persona all'interno di Hogwarts in grado di capirlo davvero, nel profondo, quello era l'Hale.
    E il pensiero di averlo deluso era inconcepibile. «no debería haber dicho eso»
    Per uno che si scusava costantemente, faceva alquanto schifo a trovare le parole adatte alla situazione. «Io-» un respiro un po' più lungo e faticoso degli altri, una fitta di dolore che tentò di mascherare socchiudendo gli occhi. «Tu-» egli, noi, voi essi. Okay, andando avanti...? «congratulazioni» per la vittoria, per la partita, per esser rimasti onesti fino alla fine, «siete stati molto -» puliti, al contrario di serpeverde? «bravi» si accontentò di quella parola, sempre a testa bassa e sempre mortificato. «E mi dispiace, davvero, non avrei dovuto.» No, peggio. «Non avrei voluto Non aveva alcun diritto di tenerlo lì ad ascoltare le sue penose scuse, ma ora che aveva iniziato non sapeva più come fermarsi. «Mi dispiace per i falli, e per Mort, e per non aver portato il gioco pulito che vi sareste meritati e per aver rovinato la partita, e per la rissa -» peggio: «per non aver fatto niente affinché si evitasse.» Si bloccò, ma solo per riprendere fiato. Passò una mano sugli occhi, e sospirò, sfiancato: «scusa» avrebbe potuto racchiudere tutto in quella semplice parola, gli occhi azzurri carichi di rammarico e desolazione; ma dov'era il divertimento (e il melodramma) se non si torturava almeno un po' da solo?
    Mac lo avrebbe perdonato (lo avrebbe perdonato, vero?) perché, anche se poco, aveva imparato a conoscerlo; ciò non toglieva il fatto che, per un solo secondo o per ventiquattro ore o per tutta la vita, si era aggiunto alla lista di persone che lo avevano ferito e quello, per Arturo, rimaneva inconcepibile. Imperdonabile.
    Let the scaffolding inside me be strong enough to hold this tired body up once more



    pity party for one, yeeeah.
    scusa il *ikon's voice* mellodeurama
     
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    mckenzie hale
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    C'erano notti in cui riusciva a dormire. Magari per poco, magari male, magari svegliandosi da incubi agitati in cui cercava rifugio lasciando il proprio dormitorio in favore di quello di Harper, ma riusciva a dormire. Tirava le coperte fino alle spalle, infilava la testa sotto al cuscino, e lasciava che il caldo insopportabile soffocasse tutto il resto, stancandolo da una vita in cui stanco sembrava destinato ad essere senza potervi porre rimedio. E ci aveva provato, anche quella sera: si era raggomitolato sotto le lenzuola senza lasciare neanche un centimetro di pelle scoperto, ed aveva chiuso gli occhi; si era supplicato di non pensare, perché sapeva fosse sempre quello a fotterlo; si era chiesto per favore. Alla fine si era alzato, febbricitante e con la sensazione che l'aria nella stanza fosse stata risucchiata dalle pareti stesse del dormitorio.
    Della sala comune.
    Del corridoio nel quale si era tuffato annaspando.
    Dell'alcova dove si era fermato, mani premute sulla bocca, per non farsi sentire dal Caposcuola di ronda.
    Sgusciò fuori dal castello con labbra cianotiche e denti strizzati fra loro, il tessuto leggero - troppo leggero per il tempo folle di una falsa primavera - del pigiama incollato alla pelle, e sudore freddo sui palmi delle mani. Un intenso brivido di rabbia lo fece inciampare, mentre cercando il favore delle tenebre, si avviava verso l'unico posto in cui si concedesse di esistere e non esistere. Aveva bisogno di spazio, dagli altri quanto da se stesso. Aveva bisogno di essere solo senza la morsa soffocante della solitudine. Aveva bisogno di abbassare le difese del proprio castello, ed offrire il ponte levatoio per il puro sollievo di poterlo fare; di essere libero di sentirsi vulnerabile.
    McKenzie Leighton Hale, datti una cazzo di svegliata.
    Si fermò sui primi gradini. Chiuse gli occhi ed inspirò dal naso, sputando l'aria fra i denti in lenti sbuffi che poco sollievo diedero ai tagli che minacciavano di riaprirsi, o alla pelle ancora livida ma in via di guarigione, ma un poco fecero per una mente che ci stava provando davvero tanto, a non perdere la propria lucidità. Se fosse stato più coraggioso, si sarebbe fermato e si sarebbe chiesto perché, dandosi risposte che non voleva ma meritava, ma... McKenzie Leighton Hale era un codardo, e preferiva fingere di non sentire né interrogativo né punto, che accettare di essere andato troppo oltre i propri limiti.
    Prima della partita, con le unghie conficcate nei palmi e promesse che non poteva mantenere. Durante la partita, lasciando che il gioco diventasse reale nel momento in cui i bolidi avevano spaccato pelle ed ossa. Dopo la partita.
    Dopo la partita.
    Contrariamente a quanto si potesse pensare, Mac non aveva paura del dolore. Per anni non aveva conosciuto altro, ed il proprio riflesso non faceva che ricordarglielo, qualche giorno con più orgoglio di altri. Si sentiva un sopravvissuto; si sentiva un giocattolo rotto. Un eroe; il cattivo.
    Dopo la prima cicatrice, smettevi di prestarci attenzione. La sofferenza diventava rumore di sottofondo, più guidata dai suoni che dalle sensazioni. Un'abitudine dal perverso conforto, come tornare in quella che un tempo era stata casa propria, la stessa che per ogni minuto di veglia si era odiata, e scoprire che non fosse cambiato nulla. Da ragazzino, aveva pianto; a diciott'anni, di lacrime per questioni misere come quelle non ne aveva più - né di occhi con cui farlo. Non erano state le torture, a lasciarlo asciutto e svuotato.
    I suoi amici. I suoi nemici.
    Tutto quel sangue.
    L'Hale era un gas volatile: bastava una scintilla per farlo esplodere. Ma era un maledetto kamikaze senza istruzioni, carnefice di un'unica vittima - se stesso.
    Il primo ricordo che aveva di quel secolo, era impregnato dall'odore ramato e dolciastro del sangue. Ci galleggiava, ci annegava, e vibrava delle urla di dolore che per giorni, mesi, ed anni, e sarà sempre così? avevano tinto i suoi incubi di cremisi.
    A paralizzarlo, era il terrore che potesse succedere di nuovo.
    Si sentiva vuoto. Si sentiva friabile. Non c'era l'orgoglio della vittoria, fisica e morale, di quel pomeriggio, nel Mac che si trascinò ostinato fino alla cima della Torre di Astronomia. C'era rabbia - verso se stesso - c'era tristezza - per se stesso - e c'era il costante, fottuto, terrore, che la storia fosse destinata a ripetersi in un loop senza via di fuga.
    L'odio.
    Le torture.
    Tutto quel sangue.
    Se fosse stato un po' meno stanco, un po' meno Mac, ne avrebbe riso fino a sporcarsi i denti di sorrisi permanenti, ma era stanco, ed era Mac, e nell'irrazionalità del proprio panico, non riusciva a mettere parentesi a contenere con un senso quanto successo nelle ultime ore.
    Si lasciò cadere sull'ultimo gradino.
    Chiuse gli occhi.
    Smise di respirare. Trattenne il fiato fino a che i polmoni non lo implorarono di provarci, ma appigliandosi alla stessa cocciuta tenacia che per anni gli aveva impedito di mangiare, resistette ancora, fino a che divenne insopportabile ed un po' di più. Lui non voleva essere così, sapete? Voleva essere in grado di salire su una scopa senza il terrore di sbagliare; voleva colpire bolidi, ed essere fiero quando andavano a segno; voleva scendere a terra, abbracciare i propri compagni, e ingaggiare una rissa solo perché era giovane ed invulnerabile e le conseguenze erano roba di un futuro sempre lontano; voleva sanguinare, ed andare in infermeria con un sorriso stanco ma felice, e scherzare con compagni ed avversari rendendo un gioco anche quello; voleva lasciare l'infermeria ed essere in grado di festeggiare, perché ce l'avevano fatta, cazzo. Voleva credere di meritarselo. Voleva poterselo permettere.
    Non voleva quei cazzo di attacchi di panico. Non voleva non essere in grado di spegnere il proprio maledetto cervello.
    Non voleva essere così, aggrappato alla vita ed incapace di viverla: almeno un tempo, pur avendo accettato di morire, aveva anche messo in conto di vivere.
    Non voleva ascoltarsi, e sentire sulla lingua la voce di Daniel Hale: "non biasimo i tuoi genitori per non averti tenuto; sei stato abbandonato due volte, leighton. sei bravo in matematica, no? fatti due calcoli".
    Non sei come loro, Mac.
    Ma l'aveva voluto; lo voleva ancora.
    Con mano tremante, tastò le tasche cercando qualcosa che potesse fingere di aiutarlo, un cerotto su tagli storici mai rimarginati. Avrebbe dovuto prendere medicine, lo sapeva - ma si convinceva di no, perché (sei sbagliato) non c'era niente che non andasse in lui, (sei diverso) era come gli altri, (sei malato) era normale.
    Era normale?
    Quasi rise, ed era uno di quei quasi che lasciava sempre l'amaro in bocca.
    Mckenzie non aveva molti segreti, ma quello era deciso a portarlo nella tomba con sè. Quel sentirsi vulnerabile, sottile, colpevole, vittima e martire. Non lo era, ed era conscio di non esserlo, ma non poteva impedirsi di sentirsele tutte addosso, quelle etichette lì. Parlarne aiuta, dicevano; quel che non dicevano era che per parlarne bisognasse ammetterlo, e per ammetterlo bisognasse essere pronti alle espressioni neutre e le repliche piatte, anche se involontarie, che liquidavano la questione con un come sei esagerato. Lo era. Lo sapeva. Ingrandiva i difetti e le colpe, i problemi e le situazioni, ma non lo faceva di proposito. Non era intenzionale, non riuscire a respirare. Non era voluto, sentire e sentire e sentire ancora ogni insulto e minaccia, relegando invece a sussurri incoraggiamenti e lusinghe. Non era che non volesse essere felice, Mac: non ci riusciva.
    Inspirò. Trattenne il fumo nei polmoni, rotolandolo sulla lingua come una zolletta di zucchero, e solo quando lo fece scivolare lentamente dalla bocca dischiusa, si convinse ad aprire gli occhi. Cercò le stelle nel cielo scozzese, e pensò alla ragazza che aveva conosciuto su Twitter – prima che avesse un nome, prima che avesse un volto, prima che portasse con sé le complicazioni di esistere su di un piano fisico. Le aveva detto di preferire il cielo azzurro e le nuvole; non le aveva detto di avere paura del buio. Il terrore che un giorno il sole non sorgesse. Allungò le dita per cercare di afferrarne una, e strinse il pugno fingendo - fingendo? - di averlo fatto, pretendendo di sentirla fremere nel palmo chiuso, fantasticando sull’idea di regalarla a qualcuno. Di esprimere un desiderio.
    Chiuse gli occhi, e forse li riaprì. O forse si addormentò per un minuto, o un’ora. Perse il senso del tempo, dell’essere ed il non essere, lasciando fluire il panico delle ore precedenti fra le pietre della torre. E come una pagina bianca che non assorbisse l’inchiostro, con i primi raggi di sole Mckenzie si alzò dimentico di essere non stato. Non era in grado di chiudere dei capitoli e riaprirne di nuovi, ed era quello ad impedirgli di andare avanti, ma era bravo nel cancellare tutto e ricominciare da zero.
    L’aveva fatto per tutta una vita.
    Lungi dall’Hale guardarsi allo specchio dopo essere rimasto sotto il getto d’acqua bollente più del necessario: sapeva che i graffi si fossero riaperti, e che i lividi si fossero fatti più viola che purpurei; sapeva che il calore avesse reso la pelle rossa e sensibile, e che i capelli ancora umidi accentuassero il pallore del viso e le mezzelune blu sotto gli occhi. Averne conferma gli avrebbe solo impedito di muoversi, e muoversi era l’unica cosa che lo trattenesse dal raggomitolarsi sotto le coperte e rimanerci per i successivi due anni. Doveva - doveva? - passare in infermeria, perché - perchè? - aveva bisogno del suo quotidiano rifornimento di cerotti, e - e? - di chiedere agli infermieri come fosse la situazione con i verde argento, possibilmente senza incontrarne nessuno (da lì a per sempre, s’intendeva). Il motivo era scontato, ma ve lo dirò comunque: senso di colpa. Le torture erano state eccessive? Costas aveva subito danni cerebrali oltre a quelli già certificati ? Mort poteva tornare a crescere camminare e correre? Sperava di no no ske Immaginava di sì, ma aveva bisogno di saperlo con certezza, semplicemente perché era fatto così. Non avrebbe mai avuto il coraggio di chiedere direttamente a loro come stessero, non conscio di essere parte del problema, ma occhio non vedeva cuore non doleva, giusto?
    «mac-»
    O forse no.
    Alzò lo sguardo come un cerbiatto accecato dai fari di un automobile, e con lo stesso stupore misto a terrore, ricambiò l’occhiata del Capitano della squadra di Serpeverde. A quanto pareva, la sua tattica fantasma aveva bisogno di alcuni aggiustamenti; prese mentalmente nota di farlo. Sapeva che quel momento sarebbe arrivato, ma onestamente sperava poi piuttosto che prima: non voleva vedere gli effetti di quella partita di Quidditch sul volto di Turo – né quelli fisici, né quelli morali. Aveva… aveva appena tolto l’inchiostro, aveva appena ricominciato. Potendo scegliere, ma quando mai aveva potuto?, avrebbe preferito incrociare Sorta, o perfino il Rainey sarebbe stata un’alternativa più accettabile rispetto all’Hendrickson: al contrario degli altri due, il cui interesse era meramente speculativo e morale, di Turo gli importava a livello personale, indipendentemente dalle circostanze. Aprì la bocca e la richiuse, perfetta imitazione del Serpeverde qualche istante prima, preso in contropiede dal prevedibile inaspettato: dio che babbo che sei, Hale, davvero pensavi di non incontrare nessun serpeverde in infermiera? Gah, potevi andare direttamente nei sotterranei già che c’eri, o mandare una cartolina firmata con annessa la tua posizione così che potessero essere loro a trovarti. Deglutì interrompendo il contatto visivo, portando gli occhi sul terreno più comune del pavimento e della porta dell’infermeria. Non sapeva cosa Turo avrebbe potuto trovarci - senso di colpa? Vergogna? - ed ingarbugliato in quell’incertezza, preferì evitare punto. «ehi -» «lo siento» Cosa.
    Cosa. Non era esattamente quello che si era aspettato, ed essendo, pur non ricordando, il figlio di Stiles, si sentì in dovere di aprire bocca e replicare un «cosa senti?» paura sciocco, e mirato a cambiare argomento. Sorrise, mani in tasca per impedirsi di scavare la fossa più a fondo con un finger gun. Vedete perché non parlava con le persone? L’ansia prendeva il sopravvento, ed il sangue andava ovunque eccetto che nella zona giusta. Era un fatto (come Mac!) scientifico, non un invenzione dell’Hale. «non so perché l’ho detto, scusa – «no debería haber dicho eso» - uh?- «io...» - io - «tu...»- io ? - FERMATI MCKENZIE RESPIRA.
    Respirò. Chiuse gli occhi, sopracciglia corrugate mentre rispolverava lo spanglish di Floyd per tradurre Turo, e li tenne chiusi mentre respirava, e respirava, e respirava, e no Arturo ma perchè. Non gli avrebbe detto di non scusarsi, sarebbe stato ipocrita, ma «non è – non è colpa tua» gli sembrava… necessario, e fu istintivo schiudere la bocca per lasciare che quelle parole riempissero il vuoto creato dalle scuse dell’Hendrickson. Un vuoto durato secondi interi, o forse qualche minuto, nei quali l’Hale aveva cercato di fermare la propria tachicardia, e di funzionare come un essere umano normale. «non tutta, perlomeno» offrì sincero, insieme ad un sorriso pallido e malato. «non sei responsabile per le scelte che fanno i tuoi compagni in campo» a meno che non avesse sviluppato la coscienza a hive che sapeva Joey sognava ogni notte per coordinarli in volo, ma se non era arrivato alla soluzione il Moonarie, dubitava potesse averlo fatto Turo. «non – nel senso – cioè, grazie – non – uh – riprovo» si schiarì la voce, inspirò, ed espirò piano. «mi dispiace.» Mh. Così funzionava. «non volevo – non immaginavo che – eh» Non ce la poteva fare. «ok» non sarebbe mai stato ok. Portò i palmi sugli occhi, e soffiò l’aria dal naso. «i falli sono prevedibili in una partita. sono» no, rifacciamo «siamo» più o meno. «giovani, e – uh – le cose sfuggono di mano» come il boccino a Mort X D too soon? «io non… è ok» I falli, il Rainey, la rissa. Era ok, per Mac. Ci era voluta una notte di fattanza, ma andava tutto bene. «siamo ok?» tentò, con voce un po’ più sottile, mordendo l’interno della guancia ed abbassando lo sguardo. Fra tutte le cose che avrebbe voluto, e potuto, dire, era quella che temeva di più. «cioè andrebbe bene non lo fosse» non era vero. «se avessi bisogno di...tempo?» @wikihow aiuto dove sei come interagivano le persone. «lo capirei» Non voleva che Turo diventasse un paria per colpa sua - non così. «grazie, comunque» l’hai già detto. «e – siete stati molto bravi anche voi, costas è una testa » forse. Ce l’aveva ancora, una testa? «calda, ma è davvero in gamba» non in piede, perché quello era Mortino.
    Forse era ancora un po’ fatto. «no, quella sei te Sara»
    Hai ragione, scusa.
    Inspirò. Espirò. «sei un ottimo capitano, non credere il contrario.»

    ravenclaw
    crying my best
    i’m broken
    But I'm slowly
    warming up


    . scusa
    ho iniziato a scrivere un giorno che ero particolarmente depre (e si nota XD) ed ho finito oggi che invece non ci sbarello molto (e si nota pt due XD) quindi questo è quello che è uscito . E TE LO PRENDI COSì
     
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1 replies since 21/4/2021, 23:28   181 views
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