wasn't it easier in your lunchbox days?

dominic x hunter

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    Dominic aveva paura di tante cose, per esempio (in ordine casuale) dei conigli, soprattutto quelli nani, che con i loro occhi rossi e vuoti e le loro zampette strane lo inquietavano da morire, del fallimento, nella vita come a scuola o sul posto di lavoro o come persona nel mondo, delle responsabilità, perché era diventato adulto senza che se ne rendesse neanche conto, delle persone con le mani screpolate, vere bestie di satana, di perdere l’udito e non poter ascoltare più la musica, di bruciarsi la barba (aveva, a tal proposito, da poco sostituito i suoi balsami con prodotti completamente naturali che non contenevano alcool vari per evitare incidenti del caso), di scoprire che tutta la sua vita era una menzogna e quello era solo un sogno di Gargamella, o di Nobita che era in coma (ahah ma chi poteva essere così crudele da pensare a una cosa del genere ahah); quello di cui non aveva paura, Dominic, era l’altezza. No, non la sua altezza, quella era nella norma, conforme a tutte le altre misure del suo corpo, ma di essere in alto in generale. Dopotutto, come ogni magoTM che si rispetti, prima ancora di imparare a camminare era stato messo su una scopa volante, aveva giocato per anni a Quidditch e probabilmente aveva preso pericolose cadute da altezze assolutamente non raccomandabili. Tuttavia, aveva un’inspiegabile paura per quelle enormi strutture in metallo, così sicure, così rigide, così instabili e soggette alla ruggine e all’usura. Alzò con lentezza gli occhi azzurri fino alla sommità della ruota panoramica, poi ne seguì la circonferenza nel giro completo che compiva in 20 minuti. Ma poi che cazzo c’era da vedere a Hogsmeade che ci volevano 20 minuti per quel giro? Dopo pochi secondi gli sarebbe partito l’«hey guarda i Tre manici di scopa, ci sono stato così tante volte nella mia vita che ora ne ho la nausea solo a riconoscerlo da lontano – e comunque hanno una scelta di birre così scarsa che è imbarazzante», dopo un (1) minuto avrebbe puntato il dito verso un punticino di luce neanche troppo lontano «uh, lo zoo. una volta una scimmia mi ha rubato il portafogli» una scimmia davvero bastarda e da quel momento anche abbastanza ricca probabilmente; dopo esattamente 15 secondi dall’ultimo avvistamento il dito si sarebbe spostato verso un altro edificio poco distante «all’amortentia invece consiglio il trattamento sauna all inclusive premium tim young wild and free, fanno dei massaggi che proprio *chefkiss*» e a proposito di kiss, alla fine, con un sorriso sornione, avrebbe concluso con lo sguardo fermo su quello che dall’alto sarebbe sembrato un piccolo spazio verde «e lì ho dato il mio primo bacio» e tac, facendo un po’ di matematica veloce, in un paio di minuti il giro panoramico sarebbe giustamente finito e, se fosse durato tipo cinque minuti – il tempo massimo da poter dedicare a un’attrazione simile, a parer suo – sarebbe rimasto anche tempo sufficiente per limonare. Tipo quasi tre minuti di limonata, che sono davvero tanti, soprattutto se l’altro non sa baciare. E invece venti minuti. Ma cos’aveva in testa la gente? Quanto duravano le limonate al giorno d’oggi? Dopo 20 minuti si finiva direttamente in seconda base, qualcuno più spavaldo addirittura in terza base, ma anche homerun volendo. Fortunatamente lui non doveva porsi il problema di chi baciare sulla ruota panoramica, quindi almeno quell’ansia poteva evitarsela, ma aveva ben altre questioni più urgenti che gli facevano seccare la gola. Strinse nel pugno la bustina di plastica che aveva nella tasca della felpa poi volse leggermente la testa per lanciare un’occhiata preoccupata oltre la sua spalla; a quanto pare c’era stata qualche soffiata sul (piccolo) giro di droga che si teneva tra un tendone e l’altro del luna park e ora le guardie si aggiravano per la zona con la cazzo di unità cinofila!!1! Quel governo aveva davvero bisogno di rivedere le sue priorità. La beffa più grande è che non era neanche solito comprare l’erba da quella gente poco raccomandabile, ma era da un po’ che ormai Wren non passava più così spesso al castello (wren dove sei mi manchi torna presto ho paura a prendere la droga da altre persone) e con le ultime lezioni che avevano riempito l’infermeria di Hogwarts, aveva presto finito la sua scorta personale. Sì perché dall’esterno poteva sembrare un lavoro molto tranquillo ma in realtà sentire ragazzini urlanti perché si erano rotti una gamba, o piagnucolare perché il loro compagno di squadra si era rivelato un temibile serial killer e aveva ucciso il loro migliore amico («ma succede sempre alle lezioni con la Queen, dai»), e soprattutto vedere i Coturo essere mezzi morti e a un passo dall’ufficializzazione ma non concludere niente, era molto stressante, e a mali estremi estremi rimedi, si era ritrovato a contrattare con due tipi poco raccomandabili: uno alto, ben piazzato, i capelli platinati, la giacca di pelle e gli occhiali da sole (di sera, sì, a quanto pare si portavano), l’altro bassino, scheletrico, quasi rachitico, una cresta quasi più alta di lui e l’iperattività di un bambino di quattro anni. Non aveva esattamente contrattato con loro, perché pare che fossero stranieri e aveva capito ben poco di quello che gli stessero dicendo tra un «ao» e un «che, nte fidi? Spadì, faje sentì quanto è bbona a robba nostra», ma alla fine aveva comunque concluso l’affare e fortuna voleva che fosse proprio la sera in cui ci fossero controlli serrati.
    Guardò con un sospirò i cani al guinzaglio che, in lontananza, si facevano strada tra la folla proprio verso quella parte del luna park, poi tornò con lo sguardo sulla ruota panoramica e ne studiò a fondo la struttura, i vari bracci, i perni, sembrò stesse valutando se i bulloni fossero stati ben stretti oppure c’era qualcuno che ballava, se le cabine fossero ben agganciate, e tra un calcolo e l’altro lanciava veloci sguardi alle sue spalle e contava i passi che lo separavano dal tizio della security e il suo cane. Per distrarsi, e per non sembrare troppo strano ansioso scortese, rivolse anche uno sguardo alla figura dell’Oakes – la metà uomo degli Oakes – che era al suo fianco, annuì fintamente interessato alle sue parole e poi sorrise, per fingere un completo coinvolgimento nella discussione. «no infatti ah ah ah trovo che tu abbia completamente ragione, guarda» commentò aggiungendo anche una pacca sulla spalla di Hunter, ma con lo sguardo e con il pensiero tornò direttamente sulla ruota panoramica, sudando freddo. Era un’enorme struttura fatta di pezzi ferro messi insieme, come poteva fidarsi di una cosa così instabile? Poi si era documentato a dovere, aveva letto un paio di statistiche su google qualche tempo fa: sapete quante volte le ruote panoramiche si erano sganciate dalla struttura e avevano iniziato a rotolare per le strade schiacciando la gente? Ok pochissime volte, praticamente mai, ma c’erano ancora altissime probabilità che potesse succedere, che si azzeravano quasi del tutto se si escludevano le percentuali che prevedevano un possibile attacco lampo da parte di Magneto ma ew dai quelli erano dettagli, il rischio rimaneva altissimo per lui, da codice rosso!
    «ULTIMA CHIAMATA PER LA RUOTA PANORAMICA!» le possibilità erano due: scampare alla security e forse morire sulla ruota panoramica oppure farsi arrestare e marcire (morire) in cella. Per un po’ di erba? Sì, è così che funziona la testa dei paranoici, no judgements. «senti Hunter, non voglio baciarti per 20 minuti» gli parve una precisazione necessaria da fare «e se vuoi dopo ti offro un gelato oppure non so un lecca lecca, o ti compro un peluche» watch your back Viktor, qualcuno vuole fregarti il fidanzato «ma vieni sulla ruota panoramica con me. Ti prego. Offro io» e detto questo prese Hunter per il braccio e lo trascinò con sé davanti alla biglietteria per comprare «due biglietti» e mentre salivano nella loro cabina avrebbe fatto l’equivalente magico del segno della croce con bacio al cielo perché «ti prego Merlino non far staccare la ruota» fu poco più che un sussurro, ma una preghiera costante nella testa del Cavendish. E non preoccuparti Hunter, non dovrai baciarlo, ma forse gli dovrai tenere la manina.
    (sicuramente gli dovrai tenere la manina)
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    Hunter era stato assente, assente a sé stesso, per troppo tempo, tanto che quando era stato convocato presso l’Istituto dei Custodi era rimasto interdetto per qualche istante, intento a fare uno sforzo di memoria troppo grande per ricordare come fosse la vita prima.
    Prima dei M.A.G.O. Prima di Hogwarts. Prima di tutto quello che era successo nell’arco di quel biennio maledetto, per usare un eufemismo, e che lo aveva costretto brutalmente a cambiare il modo in cui aveva visto, fino a quel momento, la sua missione.
    C’era stato un tempo in cui l’Oakes era entusiasta di avere uno scopo in quel mondo, in cui aveva fatto la scelta con cognizione di causa per il raggiungimento di un fine superiore, quale il benessere collettivo e salvare il mondo. Salvarlo davvero.
    Da bambino era cresciuto con la consapevolezza di ciò che era stato chiamato a fare, idealizzando quello che aveva sacrificato per essere il soldato perfetto che eseguiva gli ordini, un meccanismo ben oleato di quella macchina che stava sfidando il tempo e lo spazio per creare un finale alternativo a quello di morte e distruzione da cui proveniva. Fino a quando era rimasto in Istituto, tutto sommato, era stato felice e la bolla in cui viveva lo aveva protetto da verità troppo scomode e che, difficilmente, avrebbe poi potuto ignorare. Aveva passato l’infanzia a idealizzare la sua famiglia, a giocare con sua sorella immaginando quali fossero i tratti che avevano ereditato dai loro genitori, immaginando quali fossero i loro volti, quasi creando in quei momenti una vita parallela in cui rifugiarsi e sentirsi un po’ più amati, un po’ più protetti, un po’ meno soli. Non di rado erano stati ritrovati stesi a pancia in su, gli occhi rivolti verso il cielo e le manine intrecciate tra loro, sognando come sarebbe stata la loro vita se avessero avuto una famiglia, provando a ricostruire il come era stata la loro vita quando avevano una famiglia.
    Hunter aveva preso nota di ogni parola della sorella, cercando nel suo piccolo di ricreare quelle fantasie: dal pic-nic nel parco, al peluche in regalo, a qualsiasi cosa potesse renderla felice, cercando il più possibile di sopperire quella mancanza e caricandosi anche il peso della sua solitudine, sommandolo al proprio. Hunter le era stato fratello, migliore amico, unico confidente, padre, madre e inascoltata voce della coscienza, fin da piccolo era stato l’adulto responsabile, assumendo quel ruolo in maniera quasi naturale, perché non c’era nessun altro di cui potesse fidarsi e su cui fare affidamento. La sua bussola morale erano i libri e l’ex Corvonero per tutta la sua breve vita non aveva fatto altro che leggere, informarsi, conoscere ogni dettaglio di qualunque cosa, anche la più inutile. Viveva di sensazioni pregresse e si era convinto che più cosa sapeva, più possibilità c’erano di sbloccare ricordi, di aggiungere tasselli a quel passato che faceva fatica a ricostruire. Lo stesso passato che, soltanto qualche anno più tardi avrebbe voluto demolire.
    Ricevere la lettera, scoprire parte della sua storia, riconoscere Uran in quelle parole scritte con una grafia sottile era stato più di quanto non avesse mai potuto immaginare. Solo quella verità aveva rimesso in discussione tutto, minando le fondamenta stesse dello scopo per cui fosse lì. La verità, infatti, era che il Jackson non aveva mai avuto la possibilità di scegliere: aveva rinunciato a tutto perché non aveva più niente da perdere e perché Rude aveva deciso per entrambi. Uran l’avrebbe seguita perché “era la cosa giusta da fare” e la via di fuga perfetta per quell’amore che, probabilmente, non era mai stato corrisposto. Era stata sua la scelta di fare un salto nel passato e resettare la propria memoria affinché potesse ripartire da zero, ma non era stata sua quella di essere un Custode, di restare senza una famiglia perché nessuno avrebbe potuto eguagliare gli Eubeech, perché Rude era convinta che avrebbero ricordato, che sarebbero stati accettati, che gli avrebbero reso onore, che nessuno avrebbe potuto mai amarli come loro erano stati amati dai loro genitori.
    Col senno di poi, sarebbe stato meglio cancellarli radicalmente dalla propria vita.
    No, non per quella fugace e breve cotta che Hunter aveva avuto per suo padre, neanche per aver scoperto fosse un ex Pavor e sostenitore del regime, benché meno per il suo atteggiamento leggermente svampito e sprezzante del pericolo (o di qualsivoglia buoncostume). Jaden Beech era lo scoglio insormontabile contro cui si erano scontrati e ogni illusione era andata in frantumi.
    Hunter aveva passato la sua intera vita a cercare il più possibile di essere il figlio perfetto, di prendere voti alti a scuola, di ottenere piccoli riconoscimenti nelle varie competizioni cui aveva preso parte, di eccellere nello skate per poter mostrare ai suoi genitori, qualora li avessero trovati, quanto fosse bravo. Hunter aveva bisogno di quell’approvazione, di sentirsi dire almeno una volta quella parola, di ricevere una pacca di incoraggiamento sulla schiena, di vedere qualcuno orgoglioso di lui. Se Halley aveva raccolto in un diario le loro intere esistenze per poter raccontare alla loro fantomatica famiglia il loro vissuto, Hunter si era preso cura di lei ogni giorno, alimentando quelle aspettative e nutrendosi di quell’ottimismo e di quella speranza che tutto sarebbe andato bene, che, alla fine non potevano non accettarli nella loro famiglia e non potevano non amarli. Si era convinto avesse bisogno di un modello da seguire, di qualcuno che lo liberasse di quel peso che aveva sulle spalle da ché aveva memoria, che lo privasse di tutti quei ruoli che si era assunto col passare del tempo e che gli permettesse di essere un po’ più libero, un po’ più completo, un po’ accettato. Aveva sempre creduto che, trovando la sua famiglia, finalmente si sarebbe sentito parte di qualcosa.

    Mai, mai avrebbe potuto pensare che proprio loro avrebbero preferito recidere ogni tipo di contatto con quel sogno e che avrebbero preferito restare soli, piuttosto che condividere qualcosa con quella che, solo sulla carta, avrebbe dovuto essere la loro madre.
    Se già per Hunter la situazione a Hogwarts era stata particolarmente difficile (scoperta del proprio orientamento sessuale; petto squarciato e marchiato a vita perché non aveva mandato rapidamente un sicarius ai professori avvertendoli della sedicente occupazione in sala torture; punizioni al Ministero in cui per settimane aveva torturato dei ribelli o presunti tali; odio profondo di tutti i suoi compagni di Casata sol perché aveva osato tifare per sua sorella a Quidditch; il rapimento da parte dei suoi amici del ragazzo con cui si frequentava; e diverse lezioni in cui lo addestravano ad essere un assassino), nulla avrebbe potuto presagire quello che avrebbe poi scoperto durante i M.A.G.O. e che lo avrebbe tormentato fino a prosciugarlo di ogni energia. Quel soggetto che in teoria era sua madre – e che probabilmente non avrebbe mai potuto più neanche pensare di associare a lei quella parola – era uno dei Dottori che avevano fondato i Lab e che avevano pensato di essere così importanti da sostituirsi a Dio, creando gli special tramite esperimenti oltre ogni limite dell’umana decenza.
    In quel laboratorio in cui si erano svolti i M.A.G.O. e che era stato da poco smantellato dal Governo, Hunter aveva toccato con mano l’orrore cui altri esseri umani erano stati sottoposti, privati della loro libertà e utilizzati come mere cavie, declassati al livello dei ratti. Era sceso nel cuore di quell’incubo e aveva cercato di memorizzare ogni immagine, ogni formula, ogni barattolo con resti umani, ogni nota presente in quella stanza e che era diventato il materiale dei suoi incubi. Ne era uscito distrutto, provato, privo di qualsiasi emozione che non fosse odio, questo prima che Halley gli mostrasse la foto di una giovane e sorridente Jaden.
    Da quel momento in poi, non si era più ripreso, sommerso dai detriti di quei sogni ad occhi aperti che lo avevano accompagnato dall’infanzia fino a quel momento, in cui era completamente disilluso, in cui era nuovamente cresciuto di colpo.
    Si era chiuso in sé stesso ancora di più, concentrandosi solo sul lavoro perché non c’era altro che potesse fare, nonostante gli tremassero le mani al pensiero di quanto marcio fosse quel 50% di geni che lo componevano. Gli si rivoltava lo stomaco al pensiero di quello che la Beech aveva fatto, del dolore che aveva inferto a degli innocenti per giocare ad essere il Creatore, che di riflesso aveva inferto a Viktor, nonostante vivesse il suo essere Special come una liberazione di un passato piuttosto tormentato. Eppure, Hunter non riusciva a guardarlo negli occhi senza che il sangue gli ribollisse nelle vene, non riusciva a non sentirsi sbagliato, non riusciva a non assumersi le responsabilità per quello che Jaden aveva creato. Stava male, fisicamente ed emotivamente male, al punto da interrompere ogni tipo di frequentazione con il Pirocineta, mettendo un punto ancora prima che quello che avevano potesse diventare un qualcosa, tranciando di netto ogni legame con il Dallaire per permettergli di avere accanto qualcuno che potesse essere onesto con lui, che non nascondesse segreti e che non combattesse l’impulso di strapparsi la pelle ogni volta che veniva sfiorato. Non si sentiva degno, benché meno meritevole di attenzioni. Sapeva che fosse sbagliato, che Viktor aveva bisogno di lui, ma l’Oakes non riusciva più a reggere anche il peso dei suoi problemi, del suo vissuto. Sebbene fosse nella natura di Hunter caricarsi delle preoccupazioni altrui perché aveva l’animo di una crocerossina, perché non sopportava vedere la gente soffrire, le sue spalle ormai erano state spezzate dal macigno di quella nuova scoperta.

    Si era allontanato da tutto e da tutti, provando a metabolizzare quanto successo, tentando la fuga e seguendo la sorella, altrettanto devastata, in giro per il mondo. Per un mese si era tenuto impegnato seguendo le sue cause, prima di tornare a Londra e ripristinare le sue priorità.
    Non c’era un posto che riuscisse a chiamare casa, non c’era un posto in cui tornare perché non c’era più sua sorella con lui, ma c’era ancora qualcuno ad attenderlo, qualcuno che, ancora, non era riuscito a deludere.
    I Losers erano l’unico contatto con la realtà, l’unica ancora di salvezza che gli aveva impedito di andare alla deriva. Non poteva permettersi di deludere anche loro e, sebbene non lo dicesse mai apertamente né avesse intenzione di farglielo capire, erano tutto ciò che di bello gli era rimasto. Nonostante il caos continuo e il farlo vivere nel terrore costante che potessero fare qualcosa di talmente stupido da far saltare in aria entrambi gli appartamenti. Non erano perfetti, erano male assortiti, eppure… eppure era quanto più vicino avesse a una famiglia e non voleva perderli. Non quando erano la sua unica certezza, insieme al lavoro.
    Era diventato Guaritore, perseguiva il suo sogno – sperando non si tramutasse in incubo come quello sulla sua famiglia ah ah ah – e per ogni buona azione che faceva, per ogni ferita che riusciva a guarire, per ogni malattia che curava si sentiva un po’ meglio, quasi dovesse compensare in qualche modo l’eredità della Beech, quasi dovesse redimersi. E lavorava giorno e notte senza sosta, senza darsi il tempo per pensare e fare una scelta, senza essersi ancora specializzato in qualcosa. Ma, a onor del vero, l’Oakes non avrebbe dovuto essere il protagonista di questa narrazione, quanto la persona cui avrebbe voluto chiedere consiglio.

    Mani infilate nelle tasche della giacca di jeans e risata mal celata da un colpo di tosse, guardava Dominic Cavendish dall’alto del suo metro e novanta. Gli aveva chiesto di incontrarsi con la scusa di illuminarlo sulla scelta da fare al San Mungo (aveva escluso virologia perché piuttosto avrebbe preferito creare il siero distruttore del mondo e somministrarlo per direttissima sulla Beech), proprio perché l’anno precedente era stato aiuto infermiere ad Hogwarts e perché poteva avere un’idea dei punti di forza dell’Oakes nel campo della Medimagia. Tuttavia, quello che l’ex Caposcuola Corvonero non si aspettava fu proprio la convocazione in Istituto e la consegna di quella Lettera, custode di verità che, probabilmente, sarebbe stato meglio non svelare.
    L’Oakes aveva fatto uno sforzo enorme per ricordarsi che Dominic non era Hunter, che aveva avuto la sua vita e che i suoi genitori, tutto sommato, erano brave persone. Il Cavendish aveva le spalle coperte da chi lo aveva accolto in casa e lo aveva amato fino a quel momento, e avrebbe continuato a farlo, indipendentemente da quello che gli avrebbe detto quel giorno. Dominic aveva il grande vantaggio di non essere solo.
    Certo, avrebbe potuto ascoltare il suo monologo o dar cenni più convincenti del suo interessamento, sembrava quasi essere tornato indietro a quando aveva provato a spiegare a Behan le nozioni basilari dell’astrofisica, ma aveva smesso di dire cose sensate quando aveva iniziato a notare i primi cenni d’ansia e le mani sudate dell’altro.
    “Prima volta, eh?” Domandò sornione, indicando con un cenno del capo la tasca in cui l’infermiere muoveva in modo spasmodico le dita. “Ecco perché con Halley abbiamo sempre preferito quella babbana, nella peggiore delle ipotesi, basta un confundus o saper correre abbastanza velocemente da seminare ogni possibile inseguitore, soprattutto se si ha uno skate.
    Seguì Dom sulla ruota, dopo aver fatto l’occhiolino al tipo della biglietteria, aver sollevato l’indice e il medio nella sua direzione ad indicare di concedergli due giri extra ed avergli allungato un galeone per poter allungare il loro giro panoramico. Per fortuna erano le cabine chiuse, non escludeva che, dato il tenore della vera conversazione che avrebbe dovuto introdurre, il più grande preferisse lanciarsi giù dalla giostra pur di non ascoltarlo o fare i conti con quella scomoda realtà.
    “Peccato,” iniziò una volta preso posto di fronte al biondo, cercando disperatamente una posizione che gli permettesse di far entrare comodamente le sue gambe all’interno della cabina. “Perché avresti potuto baciarmi per ben 60 minuti.” Fece spallucce, incrociando le braccia al petto e guardando fintamente offeso un punto qualunque al di fuori del finestrino.
    “Ti va di girarne una? Se ti sudano troppo le mani, posso fare io...” continuò, noncurante di essere stato poco carino, le iridi chiare ancora perse oltre il vetro alla ricerca del modo giusto di dire le cose, evitando di ferire la spiccata sensibilità del maggiore. Probabilmente sarebbe stato più facile dirglielo quando era fatto, limitando gli effetti postumi a quando ormai Hunter era fuori dal raggio d’azione di sentimenti ed emozioni e qualsiasi altra cosa potesse esulare la sfera della logica umana. A quanto pare, Hunter non era in grado di comprendere cosa provavano gli altri e aveva sollevato una barriera tra sé e il mondo circostante. Tuttavia, il Cavendish era una sua responsabilità e questo bastava a richiamarlo all’ordine e al dovere.
    “Credi nei viaggi del tempo?” Gli avrebbe volentieri detto dobbiamo parlare, ma gli avevano insegnato che non portava a niente di buono iniziare una frase con quelle due parole e, date le circostanze, oltre a voler evitare che Dominic fosse assalto da ansie inutili, sperava davvero che, almeno per lui, il 2043 potesse rappresentare qualcosa di positivo e non l’ennesimo mostro da cui fuggire.
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    I am a scientist.
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    prelevi? // i panic at a lot of places besides the disco
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    Il problema, se così si preferisce definirlo, è che Dominic era cresciuto in modo eccessivamente protetto: aveva sempre avuto chi gli guardasse le spalle, chi si preoccupasse che mangiasse carne a sufficienza, chi si accertasse che avesse abbastanza maglie pulite nel cassetto per il giorno dopo, lo stesso modo che l’aveva fatto crescere con la paura di non essere abbastanza per tutte quelle attenzioni. Perché gli rivolgevano tutte quelle cure e come si aspettavano che rispondesse? L’idea di tradire le aspettative dei suoi genitori – qualsiasi esse fossero – gli faceva mancare l’aria, quella di non sostenere il paragone con i fratelli maggiori gli faceva torcere lo stomaco su se stesso, la consapevolezza di non essere abbastanza per tutto quello l’aveva reso il protagonista di una gara contro se stesso che quindi, in un caso o nell’altro, avrebbe inevitabilmente perso. Non c’era un secondo lato della medaglia, c’era solo l’essere troppo imbranato, non abbastanza sveglio, fastidioso, petulante, silenzioso, pigro, buono a nulla, scansafatiche, nullafacente, viziato, mammone, ossessionato, tenero, patetico, e altri epiteti più o meno carini che, in un contesto o nell’altro, gli erano stati appiccicati addosso; e lui li aveva accolti sulla sua pelle e li aveva assorbiti con una risata nascosta, aveva chinato la testa e si era convinto di essere esattamente così come lo dipingevano gli altri. O troppo o troppo poco ma mai abbastanza.
    Ora, lo sapeva bene che farsi scoprire con una piccola quantità di droga leggera per uso personale sicuramente non gli avrebbe causato danni così permanenti e citazioni incontestabili sulla fedina penale, eppure la cosa lo aveva paralizzato lo stesso. La stessa idea di poter tradire la fiducia di qualcuno e le premure che gli erano sempre state dedicate per un vizio così stupido, per uno sfizio che non aveva saputo attendere a soddisfare gli facevano prudere la pelle sotto gli stessi adesivi che recitavano le parole viziato e buono a nulla. Non erano cose che poteva semplicemente staccarsi di dosso, reinventarsi sarebbe stato troppo impegnativo, difficile, e doloroso, ma aveva imparato a conviverci in modo da non andare troppo in crisi ogni volta. Strinse la bustina con l’erba nella mano dentro la tasca della felpa mentre entrava nella cabina della ruota panoramica e deglutì vistosamente a disagio guardandosi intorno. Non era claustrofobico ma gli sembrava comunque troppo stretta per permettere un sano ricambio d’aria per due persone. Sì, due persone perché aveva trascinato l’Oakes con lui in quella specie di rifugio, e se ne ricordò solo dopo aver sentito gli ingranaggi della ruota panoramica mettersi in moto e far partire il giro e aver deciso che sarebbe stato meglio fare conversazione se non avesse voluto vomitare tutta la sua cena. «scusa Hunter mi sono distratto» com’era stato più che è evidente ai più «comunque dicevo che secondo me tu sei molto portato per… cosa?» ci aveva provato a portare il discorso sui binari principali, visto che era stato proprio il guaritore a chiedere un suo consiglio per questioni che dovevano essere piuttosto importanti, e almeno in quello voleva cercare di dimostrarsi affidabile, ma era difficile continuare a proseguire sugli stessi binari se qualcuno ti diceva cose come «avresti potuto baciarmi per ben 60 minuti», mettiamoci pure che il Cavendish sembrava essere quasi sempre in uno stato confusionale, o comunque non del tutto consapevole delle minime coordinate spazio-temporali nelle quali sostava, e diciamo pure che la frittata era fatta: i consigli sul futuro di Hunter al San Mungo appartenevano ormai al passato. «non ho capito» fu la sincera richiesta di aiuto da parte del biondo, tanto lui non capiva mai niente. Per quanto poco ne sapesse l’infermiere, l’Oakes era impegnato-nonimpegnato in qualcosa; non aveva mai saputo esattamente come stessero le cose tra lui e Victor, ma le mura a Hogwarts, da spesse e solide che erano, potevano diventare estremamente sottili e permettere il passaggio di qualsivoglia pettegolezzo su chiunque, quindi voci di corridoio varie su rapimenti, incontri neanche troppo nascosti e carezze neanche troppo negate, non gli erano affatto sfuggite, ma sentiva di non essere comunque abbastanza pronto per introdurre quell’argomento di conversazione. Sbuffò in una risata divertita, infine, e decise di ignorare – cosa difficile da fare – le solite paure su cosa dire, cosa non dire, come comportarsi e cosa fare per non sembrare inopportuno. «60 minuti, Hunter? Sei sicuro?» ripeté con più sicurezza ora, per poi stringersi nelle spalle e sporgere il labbro inferiore su quello superiore «non so se riusciresti a starmi dietro, non ti conviene propormelo» declinò il gentile invito del più piccolo con un sorriso giocoso e un’alzata di spalle, prima di spostare – brevemente – lo sguardo verso l’esterno del finestrino e il panorama che offriva. Nuovamente, si trovò a pensare che quell’ammasso di ferraglia che saliva in modo così lento per permettere il giro completo, fosse qualcosa di assolutamente insensato e infernale, privo di qualsivoglia ragione di esistere. E il motivo per cui era salito, gli ricordò Hunter, era proprio nella sua tasca; sarebbe stato prudente accendere una canna sulla ruota panoramica? Probabilmente no, ma sarebbe stato divertente? Forse neanche, ma non se l’era sentita di declinare ancora la proposta del guaritore, quindi aveva aperto la bustina, annusato il contenuto per constatare, con una smorfia poco convinta, che quella di Wren fosse comunque migliore, e infine preso anche il resto dell’occorrente per girarne una. Non ci voleva tempo per chiudere una canna, ma la giusta cura sì, e questo Dominic lo sapeva bene, ecco perché aveva mosso prima le dita lentamente sulla cartina, per poi tamburellare delicatamente l’estremità con il filtro sul palmo della mano come gesto finale. «viaggi nel tempo?» ridacchiò con gli occhi chinati sulle sue mani «hai visto anche tu Dark, eh?» il masterpiece di Netflix su cui si era arrovellato per mesi interi prima di trovare una spiegazione per quello che aveva visto. «pretty mindblowing, non so se mi piace la rappresentazione che ne hanno fatto, troppo tetra, ma che figata comunque» passò la canna e l’accendino al minore, perché un gentiluomo si riconosceva nei piccoli gesti, tra cui quello di concedere i primi tiri agli amici «crederci… mah! Mi sembra molto complicato sai, tutta la questione che non bisogna interferire con gli eventi del passato per non cambiare il futuro, cioè il nostro presente» in uno slancio di scelleratezza guardò di nuovo il panorama al di là del vetro, e si sentì leggermente disgustato «però sarebbe figo poter vedere come si sono davvero conosciuti i miei genitori, o suonare Comfortably Numb per la primissima volta e vedere le prime reazioni di tutti i presenti» ancora una volta la sua conoscenza cinematografica si dimostra /on point/, Marty McFly suonava Chuck Berry ma queste sono le opportune differenze generazionali, a ognuno i suoi miti.
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    Quello che Hunter non sapeva, e che probabilmente avrebbe scoperto di lì a breve, era che Dominic avesse paura di scoprire che tutta la sua vita era una menzogna e che quello era solo un sogno di Gargamella.
    Ok, aveva un’idea di quanto fosse lunga la lista delle fobie del maggiore, ma non aveva mai approfondito troppo la questione, limitandosi a prendere nota di ogni urletto spaventato, di ogni sudorazione eccessiva e di ogni balbettio sconnesso ed improvviso presumibilmente riconducibile ad un attacco di panico, osservando l’ambiente circostante e rimuovendo la fonte di tale scompenso. Non poteva immaginare che ci fossero anche paure più profonde che interessavano gli aspetti più intimi e nascosti del Cavendish, e non perché l’altro dava come prima impressione l’idea di essere una persona piuttosto ingenua e di poco spessore.
    Era il classico esempio da manuale secondo cui l’apparenza, appunto, inganna. Negli anni in cui lo aveva affiancato come aiuto-infermiere a Hogwarts aveva imparato tantissimo di lui, trovando nel maggiore quel punto di contatto tra la teoria – aspetto in cui l’Oakes eccelleva – e la pratica, nel riuscire a gestire una situazione più o meno drammatica con la giusta fermezza e il giusto tatto, riuscendo così a conquistare la fiducia di chiunque si fosse ritrovato, suo malgrado, a dover soggiornare in Infermeria.
    Tutto quello che aveva Dom ad Hunter mancava e, probabilmente, non lo avrebbe mai avuto. Si sforzava, l’ex Corvonero, ad essere una persona un po’ più empatica, a cercare di comprendere le emozioni altrui, ma ogni volta che provava ad aprirsi, uscendo dalla sua zona di comfort, finiva in tragedia.
    Sapeva di non essere simpatico, che la maggior parte delle persone avrebbe preferito fare altro piuttosto che sentirlo parlare delle sue passioni, che non era spumeggiante come Halley, che non era la prima persona che sarebbe mai potuta venire in mente a qualcuno per farsi una birra… cercava soltanto di restare a galla, di arrivare all’indomani senza annaspare, senza dover dare spiegazioni per essere cosi diverso e, per certi versi, sbagliato. Nel modo di porsi, nel modo di parlare, nel modo di stare al mondo.
    Non aveva mai ricercato la popolarità Hunter, era ben conscio dei suoi limiti, e tutto quello che faceva era solo per ritagliarsi un posto in quel mondo che non gli apparteneva: dalla band al lavoro, dai Losers a quei tasselli del 2043 che pian piano stava riuscendo a reintegrare, con fatica, nella sua vita. Se Dominic fosse uno dei pezzi di quel puzzle complicato del suo passato? Non ne aveva assolutamente idea; sperava solo che, alla fine di quella serata, il biondo non lo odiasse al punto da eliminarlo dalle proprie amicizie.
    Probabilmente non lo avrebbe mai esternato, ma era piacevole passare del tempo con l’infermiere, scorgere dietro la purezza del suo sguardo gli ingranaggi di quel cervello perennemente confuso e al lavoro per stare al passo con in mondo.
    Ovviamente non lo aveva capito, ma non gli avrebbe detto – non ancora… forse mai – che aveva chiesto di prolungare il loro giro sulla giostra, confidava nel fatto che il tempo tende a volare quando ci si diverte ti sganciano una bomba che ti colpisce in pieno! Ah ah ah! Ci sarebbe stato da divertirsi. E avrebbe voluto rispondergli che era piuttosto certo del fatto che avrebbe retto anche oltre i 60 minuti in questione, ma non era lì per mettersi in mostra e per sfoggiare la sua resistenza. In primis, non era il tipo che si vantava per queste cose perché bisognava provare per credere mal sopportava i ragazzi che facevano a gara a chi ce lo aveva più lungo; in secundis, tutto quello che sapeva sul sesso – che esulasse dai libri – era grazie (si poteva ringraziare il proprio non-ex per una cosa simile?) a Viktor, e dubitava che in giro ci fossero molte persone come il Pirocineta e ancora meno in grado di soddisfarlo pienamente (spoiler: Hunter non era tra questi e la sua unica speranza era che ci fosse andato abbastanza vicino). E Hunter non era ancora pronto a menzionare il francese, non in privato, non in pubblico, non in generale.
    Per fortuna Dominic saltava da un argomento all’altro con una facilità impressionante, quindi non fu poi così strano lasciar cadere la questione e fargli credere che potesse avere ragione a vantarsi.
    “Solo la prima stagione. Niente Spoiler! Non è facile guardare qualcosa con i Losers al completo e riuscire a seguirne la trama, soprattutto se sono film o serie che necessitano una particolare attenzione.” Il problema, per uno come Hunter che amava guardare e leggere qualcosa nel silenzio più assoluto, era il chiacchiericcio degli altri, il fare battute, commenti live, il passarsi i pop corn sul divano, lo sbadiglio del primo che iniziava ad avere sonno, le suonerie dei loro dispositivi elettronici che spesso dimenticavano di impostare su silenzioso… Era veramente difficile entrare nel mood giusto per immergersi completamente nella storia e nella narrazione degli eventi, cercando di capire – almeno nel caso di Dark – dove tutti quegli intrecci volessero andare a parare, quale fosse l’intuizione migliore o la teoria dei fan più verosimile.
    Per questo lasciava spesso agli altri la gestione del telecomando, e un po’ perché si chiudeva talmente tanto nel suo studio e nel suo lavoro che c’erano giorni in cui sperava che qualcuno scegliesse una trasmissione trash o comica per alleggerire un po’ il carico di stress che si portava dietro.
    “Hai mai pensato che, in realtà, la propria linea temporale non può essere variata, ma quella di un universo parallelo sì? Riflettiamoci un attimo.” Si sporse in avanti, ringraziando con un sorriso Dominic per l’impeccabile lavoro appena svolto e per la sua gentilezza, e si portò il filtro alle labbra, aspirando non appena la fiamma andò a bruciare l’estremità opposta dello spinello, lasciando per un po’ che il tempo restasse sospeso in quella boccata, il sapore familiare e agrodolce dell’erba a diffondersi sul suo palato. Avrebbe voluto spiegare in maniera diversa, partendo con esempi pratici e concreti, come alcuni degli studenti ed alumni di Hogwarts (Aidan, Joey, Mac, Barry, Amalie ed altri) avessero fatto un salto nel passato e nel futuro di quella linea temporale e di come, quando i mondi stavano per collassare, le loro versioni alternative avevano fatto la loro comparsa nella realtà che erano abituati a conoscere, in quel presente che stavano vivendo. L’unico, irrilevante, problema è che il Cavendish fosse un Mangiamorte e l’Oakes un Ribelle che non aveva idea di quanto potesse dire o non dire su quelle vicende. Lui stesso, infatti, armato di un boomerang, aveva lottato con la Resistenza contro quel Governo che, in un modo o nell’altro, era destinato a trasformarsi in una dittatura più sottile e subdola della precedente, tenendo tutti sotto scacco solo con l’aver riportato in vita i caduti di Hogwarts. Solo uno stupido avrebbe potuto dubitare dell’entità di quel potere che era stato risvegliato poco meno di due anni prima.
    Quindi, Hunter non aveva idea di che avvincini pigliare e, odiava solo l’idea, non gli restava che improvvisare.
    “Per quanto possa essere complicato, non è impossibile. La Magia è sempre stata in continua evoluzione e neanche le leggi di Gamp sono dei pilastri inamovibili. Non possiamo ancora creare del cibo e i filtri d’amore, per quanto potentissimi, creano solo un’infatuazione o un’illusione, ma i morti si possono resuscitare.” Spostò le iridi azzurre su quelle altrettanto chiare del Cavendish, sperando di vedere una reazione che lo spingesse a credere che l’altro stesse capendo dove volesse andare a parare quel discorso. Probabilmente no, ma ci sperava comunque. “Lo hai visto anche tu, è successo. Così come sono state infrante, almeno una volta, le barriere dello spazio e del tempo.”
    Spostò lo sguardo oltre il vetro, lasciando si perdesse oltre la Hogsmeade che si preparava all’ora di cena, oltre quell’orizzonte che non era mai riuscito ad apprezzare veramente. Fece un lungo sospiro, prima di rivolgersi nuovamente a Dominic, sperando gli avesse lasciato sufficiente tempo per far sedimentare un pochino quello che gli aveva appena detto.
    “Non esiste un solo universo, non esiste un’unica misura temporale. Un giorno sulla terra possono equivalere a cinque minuti in un altro mondo, o cinque anni in un altro. Tutto è relativo e le pareti tra queste realtà sono estremamente fragili e sottili. Possono essere infrante. Con una magia estremamente antica e potente, certo, ma è stato fatto. Esisteva un mondo che stava per soccombere, spezzato da un virus che aveva sterminato la quasi totalità della popolazione mondiale.” Merlino, se qualcuno avesse rivolto a lui quelle parole, probabilmente avrebbe chiamato il primo centro di igiene mentale per sapere se avessero ancora posti liberi e se fosse possibile prescrivere un TSO al suo interlocutore. “Alcuni dei superstiti si sono riuniti per cercare di trovare una soluzione, per dare il via a una missione che prevedeva la rottura di quelle barriere. Ognuno con un messaggio, ognuno in un’era diversa, al fine di cambiare il passato per evitare che quel terribile futuro si abbattesse anche su questa Terra.” Le dita andarono a fare pressione sugli occhi, a premere così forte da ricordargli il motivo per cui fosse lì, per cui avesse scelto di essere un Custode, per stravolgere la vita di un’altra vittima inconsapevole.
    “Ho una lettera per te.” Portò la mano a sfilare dall’interno della sua giacca di pelle un involucro ben conservato, i cui unici segni erano quelli del tempo. “E quello che c’è scritto è solo la diretta conseguenza di quello che ti ho appena detto. Non ti chiederò di credere alle mie parole, non adesso, ma è l’unica verità che sono in grado di offrirti. Una volta aperta, non si potrà tornare indietro, ma potrai far finta di niente.” Ok, forse era un po’ melodrammatico e si era fatto prendere un po’ la mano, ma era anche la prima volta che lo faceva di persona, dato che molti lo avevano scoperto da soli o gli era stato riferito da altri, e comunque riteneva Dominic un amico che meritava un minimo di spiegazioni prima che gli sconvolgesse la vita.
    “Se, come me, non hai mai sentito di appartenere pienamente a questo mondo, se ti sei sentito anche solo una volta calato in una realtà che non ti appartiene… beh, forse qui troverai buona parte delle risposte che cerchi, per le altre, puoi sempre chiedere a me. Non sei solo, Heatcliff. Non lo sei mai stato.”
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    Sbuffò una risata divertita e si sistemò meglio contro lo schienale della seduta – scomoda – di quella cabina, rivolgendo uno sguardo veloce al panorama al di fuori del finestrino e calcolando che ci volessero almeno altri 10 minuti abbondanti per il termine di quello straziante giro panoramico, poi guardò di nuovo il minore. «oh mi raccomando non farlo vedere a Beh» Dark, si intendeva «ho paura che potrebbe rimanerne segnato» insomma non era stato facile da digerire neanche per lui e temeva che il Tryhard potesse subire tre volte le conseguenze di quella serie. A Dominic piaceva lavorare nell’infermeria di Hogwarts anche e soprattutto per i ragazzi; idealmente non gli sarebbe piaciuto avere marmocchi propri perché avrebbero comportato troppe responsabilità e ansie varie e lui era troppo imbranato e socialmente inadatto per poterseli permettere, ma i ragazzini in generale gli piacevano (e non perché lui non era mai veramente cresciuto mentalmente, che dite). Gli piaceva averli intorno e prenderli in giro, eventualmente offrirgli le sue massime su questioni assolutamente futili e non relative alla scuola, intrigarsi sui vari scoop e pettegolezzi della scuola, sconvolgere i più piccoli con i racconti dei “suoi tempi”, affezionarsi a loro e vederli crescere man mano; e vedere i Losers diplomarsi, c’era da ammetterlo, gli aveva fatto scendere una lacrimuccia. Aveva passato un bel po’ di tempo in infermeria con Hunter quindi sapeva bene dai suoi racconti quanto ci provassero fortissimo tutti quanti (alcuni letteralmente) nella vita in generale, e quanto spesso avessero anche fallito, e non negava che un po’ gli ricordavano sé stesso, quindi li aveva presi a cuore e se ne preoccupava, perciò sì ci teneva a ricordare al genitore1&2 Hunter di assicurarsi che Behan non vedesse mai Dark. E stava giusto per chiedere al guaritore come se la cavassero tutti gli altri, dischiuse anche le labbra per iniziare a parlare ed eventualmente intavolare un’altra conversazione che potesse tenere lontano il pensiero di essere letteralmente rinchiuso ermeticamente in un oblò su una lentissima ruota panoramica, ma l’Oakes lo precedette.
    Gli lasciò la canna tra le dite a alzò un sopracciglio in sua direzione, palesemente confuso. «riflettiamo…?!» ripeté con poca se non pochissima convinzione. Okay, le prese in giro sul fatto che fosse poco abituato a riflettere in generale potrebbero sprecarsi e troverebbero una risata complice anche nello stesso Cavendish, ma in realtà sarebbe falso dire che Dominic non rifletteva sulle cose; lui lo faceva, anche tanto, purtroppo però spesso le sue riflessioni erano caotiche e confuse e lo portavano a conclusioni del tutto errate, e quindi a prendere decisioni finali di cui spesso si pentiva amaramente.
    Però rifletteva.
    E ci provò anche in quel caso, ci provò davvero fortissimo, ma temeva di essersi perso alla prima linea temporale analizzata da Hunter. Non capiva di cosa stesse parlando, non capiva come fosse arrivato a quel discorso, e aveva paura che non l’avrebbe mai capito davvero (spoiler: sì, non l’avrebbe mai capito).
    «la magia è in continua evoluzione»
    Ok, fin qui c’era ancora. Annuì lentamente, con le sopracciglia aggrottate nell’espressione di chi sta provando, sudando, a costruire una linea che collegasse tutti i puntini di quel discorso.
    «le leggi di Gamp»
    Sgranò gli occhi e scosse leggermente la testa; un visibilissimo punto interrogativo apparve sopra la sua chioma bionda.
    «non possiamo ancora creare del cibo»
    Piegò la testa verso la spalla destra e gonfiò le guance in un sospiro sconvolto, i punti interrogativi diventarono tre. Era abbastanza sicuro di aver mangiato un cheeseburger poco prima che fosse stato realizzato da mani umane? Forse Hunter stava cercando di dirgli che voleva creare una macchina per creare del cibo? Se quello era il punto della questione allora non c’era bisogno di fare tutti quei giri, bastava dirlo e basta, Dominic era un grande esperto in materia: aveva visto Piovono Polpette 1 e 2 almeno un centinaio di volte, aveva perfettamente capito il meccanismo. Si strinse nelle spalle e poi annuì lentamente. «beh immagino che il FLDSMNFR sia qualcosa che attrae tutti quanti anche se comunque non è di facile realizza-
    «ma i morti si possono resuscitare»
    - cosa?»
    Forse era un mago vecchia scuola lui, ma gli era sempre stato insegnato che in realtà ciò che era morto restava morto e continuava a vivere solo nel cuore dei vivi, lì si trattava di mettere in discussione le più basilari leggi della biologia e dell'anatomia e l’infermiere, anche per sue convinzioni professionali, non credeva di esserne ancora pronto. Frugò con le mani nella tasca della felpa e recuperò la bustina con l’erba, l’aprì e ne annusò nuovamente il contenuto, poi ne prese un po’ tra le dita per assicurarsi che non ci fossero allucinogeni vari nascosti tra le cime, perché chiedersi se quel vaneggiamento non fosse colpa della pessima qualità del suo nuovo acquisto, a quel punto, era più che lecito.
    «io non-» scosse la testa lentamente, poi storse il naso e arricciò le labbra. Aveva provato fino a quel momento a stare seriamente dietro al discorso di Hunter, ma faticava veramente a trovarci un nesso, un motivo per cui dovesse dirgli quelle cose. Con la mano sinistra raggiunse il collo e andò a grattarsi lentamente la pelle, per poi passare a torturare il lobo dell’orecchio, sempre guardando l’ex corvonero con fare perso.
    Tra le opzioni che varò c’era che Hunter potesse essere completamente fatto, ma gli sembrò un pochino presto per i viaggioni vista la scarsa qualità della droga in questione; che volesse prenderlo in giro, ma cavolo se fosse stato vero il ragazzo avrebbe dovuto veramente valutare l'idea di fare l’attore invece che il guaritore perché sembrava veramente serio; l’ultima ipotesi e secondo lui la più plausibile delle tre vedeva semplicemente l’Oakes impegnato in un discorso pieno di verve su una sua grande passione. I Losers erano tutti bravi ragazzi, molto simpatici, ma forse non erano le persone adatte per disquisire di cose /così/ serie, forse aveva scelto lui perché lo vedeva come una persona adulta e teoricamente più matura, decise quindi di rimanere in silenzio e non interromperlo ulteriormente.
    Ma cavolo se era difficile.
    «lo hai visto anche tu»
    «ma Dark?»
    «è successo»
    «è una storia vera?»
    Fece scivolare la mano tra i suoi capelli, lasciando passare le ciocche bionde tra le mani e andando a grattare lentamente la cute. Si è sempre detto che il cranio del Cavendish fosse in realtà abitato da un criceto nano abbastanza pigro che non sempre correva a dovere sulla ruota e quindi non sempre metteva in moto tutti i meccanismi giusti per aiutare l’infermiere a pensare, ed è vero, ma in quel momento in realtà era molto più simile a Monkey Puppet: c’era l’espressione da «tutto bene Hunter?», quella da «i morti si possono resuscitare?», e quella da «se sorrido e annuisco non si accorgerà di niente», e doveva ammettere che l’ultima gli riusciva piuttosto bene.
    Incrociò le braccia al petto e guardò il minore stavolta con le labbra piegate verso l’alto in un sorriso interessato e quasi divertito. Voleva vedere fin dove si sarebbe spinto con quel discorso prima di rendersi conto di aver straparlato; si sarebbe concluso tutto con una pacca sulla spalla e l’invito a godersi il resto di quella canna magari guardando video psichedelici su YouTube senza arrovellarsi troppo sul senso della vita e sulle solite domande tipo “what came first the chicken or the dickhead egg?”. Alla conclusione, Dominic si passò lentamente la lingua tra le labbra per bagnarne il contorno e poi mostrò i denti in una risata sinceramente benevola e divertita. «Halley ti ha regalato un altro libro di Einstein?» le letture impegnative sembravano veramente il pezzo forte del guaritore, l’aveva visto più di una volta maneggiare libri davvero troppo voluminosi per un ragazzino della sua età, temeva che prima o poi si sarebbe messo sotto anche con Proust «oppure stavolta era Stephen Hawking? Nel dubbio se vuoi posso prestarti qualcosa sul tema, ma di più leggero, tipo guida galattica per autostoppisti, conosci?» propose infine con una scrollata di spalle. Si rendeva conto, Dominic, che affrontare un discorso serio con lui era particolarmente complicato e che i suoi commenti non sempre risultassero pienamente inseriti nel contesto, ma Hunter non aveva fatto assolutamente nulla per diminuire la sua confusione, mai una volta aveva provato ad accertarsi che l’infermiere stesse seguendo i suoi complessi ragionamenti e anzi stava solo continuando a metterlo in crisi, quindi un po’ se la meritava quella tortura.
    Allungò lentamente e piuttosto passivamente la mano verso l’altro solo per prendere tra le dita quella lettera, ora il sorriso divertito era sparito e aveva lasciato spazio a un’espressione di totale smarrimento. Passò la mano sulla carta ruvida e ingiallita, ne studiò entrambi i lati, ma non si azzardò ad aprirla. «se, come me, non hai mai sentito di appartenere pienamente a questo mondo, se ti sei sentito anche solo una volta calato in una realtà che non ti appartiene» alzò il viso verso il moro con fare interrogativo e sentì improvvisamente la gola seccarsi a tal punto che neanche quel tentativo di deglutizione andò a buon fine, ma si concretizzò solo in un rigido serrare la mascella. Non sapeva se l’Oakes avesse detto quelle cose semplicemente per far scena, per concludere un bellissimo discorso pieno di nozioni che, il Cavendish non aveva mai avuto dubbi comunque, dimostrassero quanto intelligente fosse, però si sentì comunque pericolosamente esposto. No, Dominic non si era mai veramente sentito parte di quel mondo e non perché si sentisse un estraneo ma perché sembrava sempre essere un passo indietro, sopraffatto dagli eventi, mai veramente connesso coscientemente con ciò che lo circondava, per questo sin da piccolo aveva trovato piacere nel perdersi in fantasie varie ed eventuali che potevano essere i fumetti di Spider-Man, i film di Spielberg o i suoi scenari inventati su eventuali finalissime della Coppa del Mondo di Quidditch che lo vedevano protagonista, però non pensava che fosse tanto evidente agli altri.
    «non sei solo, Heathcliff»
    Per qualche motivo a lui ancora sconosciuto, quella frase gli provocò un brivido che gli percorse tutta la schiena e lo lasciò a bocca aperta. «che cosa… significa…?» domandò con poca voce ora, abbassando solo per un attimo nuovamente lo sguardo sulla lettera sulle sue ginocchia, prima di sentire il rumore metallico della loro cabina che raggiungeva la base della ruota panoramica e si bloccava per permetterne l’uscita. Spostò lo sguardo sul finestrino e sospirò sollevato per svariate motivazioni. «sarà meglio andare, prima che ci caccino con la forza» annunciò all’altro prima di allungare la mano verso la maniglia e tirarla convinto che la porta si sarebbe aperta.
    La porta non si aprì.
    Tirò di nuovo la maniglia, con maggior convinzione, ma la porta non si aprì comunque.
    Si schiarì la voce con un colpetto di tosse poi si alzò completamente dalla seduta e afferrò la maniglia con entrambe le mani, tirando con forza.
    La porta non si aprì, la ruota panoramica tornò in funzione, e la cabina riprese a salire.
    Si voltò verso Hunter con le guance rosse per il caldo, le labbra dischiuse a cercare un po’ d’aria e il petto che si alzava e abbassava velocemente a tradire un’agitazione per niente trascurabile.
    Poteva andare in panico ora, no?
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    Hunter aveva sbagliato tutto.
    Uran aveva sbagliato tutto. All’inizio, quando aveva letto fosse un assistente di Divinazione, aveva creduto avesse visto un futuro migliore, che fosse pienamente cosciente delle conseguenze che quel salto nel vuoto avrebbe necessariamente portato con sé. Ci aveva rimuginato innumerevoli volte, deviando dalle parole presenti nella sua lettera, scritte con quella grafia ordinata e sottile che tanto ricordava la sua. Uran lo aveva fatto per Rude, per non lasciare la sorella, per rendere orgogliosi i suoi genitori. Hunter aveva letto tra le righe, era andato oltre, alla ricerca del vero significato di quel fiume di frasi che sembravano mostrare solo un lato della medaglia: il Jackson aveva scelto di dimenticare, ma non tutto, non troppo, non abbastanza. Aveva scelto di ricominciare tutto da capo, ma senza privarsi di alcuni legami, di alcuni punti fermi. Lo special aveva paura, lo si leggeva chiaramente in ogni rigo e di questo non poteva fargliene una colpa, ma avrebbe dovuto prendere in seria considerazione quello che sarebbe stato il dopo, quello cui avrebbe esposto se stesso, seppur nelle vesti di Hunter, quello cui lo avrebbe condannato.
    Perché quella era una vera condanna, quel vivere a metà, quel sapere e non sapere che ti protegge, sì, ma che al contempo ti rende estremamente vulnerabile. L’Oakes voleva venire a conoscenza dell’ipotesi in cui avesse scorto un futuro per loro, o se si fosse semplicemente lasciato abbindolare dall’idea di salvare il mondo, sacrificando la propria vita… per poi comunque mettersi nelle condizioni di distruggerla. Ogni giorno. Sempre e incessantemente.
    Perché era quello che aveva fatto, che stava facendo e che avrebbe continuato a fare Hunter. Si chiedeva solo fino a quando i Losers avessero potuto sopportarlo, per quanto ancora lo avrebbero voluto ancora con loro.
    Troppo inadatto, troppo insicuro, troppo sbagliato. Nella vita, così come nelle cose da dire, nel modo di porsi, nel modo di essere. E lo vedeva lì, davanti ai propri occhi, il risultato di tutti quegli errori commessi, di tutte quelle valutazioni errate, di quel ritenersi all’altezza di un compito che non era per lui, come un vestito troppo grande che aveva scelto di indossare.
    Aveva le spalle larghe, l’ex Corvonero, ma il suo corpo restava pur sempre esile, il volto sempre smunto, il colorito spento di chi si era rassegnato al dolore da fin troppo tempo. Era pronto a rompersi, Hunter, e forse lo era sempre stato, trascinandosi giorno dopo giorno in attesa che qualcosa, o qualcuno, ponesse fine a quel suo essere così miserabile.
    Lo sguardo era poggiato sulla figura dell’infermiere che stava per avere un attacco di panico, sui suoi gesti disperati per raggiungere quella via di fuga che lo stesso guaritore gli aveva precluso.
    Faceva schifo con i discorsi e quella ne era l’ennesima riprova.
    Faceva schifo con le persone e ancora di più i propri amici.
    Faceva schifo come Custode e malediceva Uran per non avergli concesso di vivere una vita all’oscuro di quel mondo, lontano da quelle responsabilità, lontano da quel filo che lo univa a un’intera esistenza che più non gli apparteneva e di cui, alla fine, anche il telecineta avrebbe volentieri fatto a meno, lontano dall’essere a conoscenza di una missione che avrebbe inesorabilmente visto fallire.
    Non voleva essere Custode, Hunter, non lo voleva più. Era cresciuto con l’idea che fosse una cosa giusta, l’unica alternativa possibile, per poi rendersi conto che sarebbe stato meglio fare altro e, in alcuni momenti, non partire proprio, lasciare che fossero altri a combattere le battaglie che contano. Uran avrebbe comunque perso Noah, ammesso lo avesse mai avuto, sia che avesse scelto di restare, sia di diventare un Messaggero. Rude avrebbe potuto comunque ritrovarla, come aveva fatto lo stesso Scott con Erin. Non valeva la pena rischiare così tanto, fare sempre il fratello maggiore, spendersi sempre per proteggere gli altri, anche se con motivazioni – almeno quelle del Jackson - ampiamente discutibili.
    Hunter non aveva una facciata brillante che mostrava al mondo, a stento aveva un viso con cui spiare il mondo, sempre da dietro le quinte, sempre per paura di sbagliare e fare del male, sempre per paura di esporsi troppo, di far vedere al mondo quanto fosse debole, vulnerabile, così poco adatto a tutte quelle responsabilità.
    Ma Hunter era pur sempre un Hunter e non avrebbe mai potuto far a meno di correre in soccorso di qualcuno, di addossarsi problemi non suoi, di rendere meno pesante il fardello che altri si portavano dietro.
    Per quanto incerto sui suoi passi, per quanto instabile, era l’unica cosa in cui sapeva di essere bravo. O almeno così sperava.
    Quando Viktor aveva un attacco di panico, quando i suoi incubi facevano capolino e lo facevano svegliare di soprassalto al fianco dell’ex Corvonero, Hunter provava a riportarlo a sé con un bacio, con parole dolci, strappandolo con delicatezza e determinazione da quei demoni che continuavano ad accompagnarlo in quella nuova vita.
    Ma Dominic non era Viktor e dubitava bastassero le sue labbra a farlo tranquillizzare. Eppure, quasi a rallentatore, sentì le proprie braccia muoversi in avanti, seguite dal busto e dalle proprie gambe. Era troppo alto per quella cabina, ma questo non gli impedì di imprigionare il Cavendish in un abbraccio, premendolo forte contro il proprio petto.
    Non sapeva se fosse sufficiente, non sapeva se fosse abbastanza, ma sperava di calmarlo senza dover ricorrere alla magia, senza dover necessariamente fargli perdere conoscenza e aspettare che il loro tempo su quella ruota finisse. Per quanto amasse farsi le canne da solo, avrebbe preferito farlo comunque in compagnia.
    “Mi dispiace.” Fu un soffio sulla chioma bionda e non sapeva neanche lui per quale motivo stesse chiedendo scusa. “Mi dispiace.” Ripeté con un po’ più di convinzione, prima di iniziare a respirare piano e di allontanarsi quel tanto che bastava per permettere all’infermiere di guardarlo e di sincronizzarsi sul suo ritmo, cercandogli di trasmettere una tranquillità che non provava dietro quel muro di mortificazione e dispiacere.
    Forse sarebbe stato meglio strappare il cerotto senza esitazioni, vomitare tutta la verità sul 2043 senza troppi giri di parole, ma, a quel punto, non avrebbe mai potuto saperlo.
    “Significa che veniamo dal futuro di un altro universo.” Andò a tentativi, questa volta, quando vide che si era più o meno ripreso e che fosse relativamente tornato in sé. Non era facile, si disse, ma neanche impossibile. Forse. “Dal 2043, per l’esattezza. Abbiamo scelto di salvare un pianeta dalla distruzione e da una malattia incurabile deviandone il corso del tempo.” E non ce la faceva proprio a restare sul vago, a non scendere nei dettagli, ad argomentare con dati che probabilmente erano chiari solo nella sua testa, come tutto il resto.
    “Io e Halley, la stessa Chelsey, tu ed altri… siamo tutti sopravvissuti, addirittura eroi per qualcuno.” Ma non per lui, non quando le uniche due alternative erano scappare o morire. “Puoi non credermi, te l’ho già detto, ma questo non cambierà chi sei veramente.
    Un po’ rude? Forse, ma almeno sperava di non essere più frainteso. E comunque, se avesse voluto regalargli un libro di Einstein, non si sarebbe mica offeso!
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    Broccolo.
    Avrebbe tanto voluto un broccolo in quella fase della (sua vita) serata. Un broccolo per domarli, un broccolo per trovarli, un broccolo per ghermirli, e dalla cabina di merda finalmente uscirlie. Lo avrebbe volentieri usato come corpo contundente contro il vetro – che probabilmente era antiproiettile quindi non si sarebbe rotto così facilmente – oppure, in casi disperatissimi, avrebbe potuto prenderlo a morsi per sbollire la rabbia o la depressione, o avrebbe potuto tritarlo e girarsi una canna di broccoli: Kronk sarebbe stato molto fiero di lui. Eppure, l’infermiere non aveva un broccolo, non aveva proprio nulla a portata di mano per uscire da quella terribile situazione; aveva solo sé stesso, la sua mente svuotata dalle parole di Hunter, la terribile reattività di un bradipo.
    C’è da dire che però ci aveva provato a fare qualcosa, continuava a provarci: le dita della mano destra erano ancora strette attorno alla fredda maniglia della cabina, le nocche erano ormai diventate bianche nello sforzo di tirarla a ripetizione «Hunter siamo… siamo bloccati, credo» strinse le labbra tra di loro e strizzò gli occhi per l’ultimo tentativo – fallimentare anche questo «dovremmo…» girò completamente il viso verso l’ex corvonero e si stupì nel vederlo placido al suo posto, neanche rassegnato ma solo apparentemente tranquillo «chiamare aiuto» – ma le parole gli si bloccarono in gola. Sapeva qualcosa di cui l’infermiere non era a conoscenza? Avevano forse aumentato il numero minimo di giri sulla ruota panoramica con un biglietto? Avrebbe voluto chiederlo – più nello specifico, avrebbe voluto saperlo prima di mettere piede in quella cabina, decisione già di per sé presa non senza molte titubanze –, ma nonostante la sua manifesta confusione, in fondo anche Dominic sapeva che il motivo per cui Hunter non condivideva il suo stesso panico e non si era scomposto era ben lontano dalla semplice, seppure terribile, prospettiva di rimanere chiuso in quel posto con lui; quando la cabina si staccò dalla piattaforma ancorata al suolo per prendere lentamente quota e iniziare il suo secondo giro, il Cavendish lasciò la presa dalla maniglia e con un pesante sospiro abbassò le spalle, abbandonandosi contro lo schienale del sediolino, gli occhi fissi sul finestrino e la terraferma che si faceva man mano sempre più piccola sotto di lui.
    Il fiato corto, il cuore che sembrava volergli uscire dal petto e il formicolio agli arti, la sensazione di vuoto nella testa e quella ingiustificata paura di… tutto: sapeva riconoscere i sintomi di un attacco di panico, ma non sapeva se sarebbe stato capace di gestirli in quel momento. Abbassò lo sguardo sui suoi piedi e strizzò più volte gli occhi, aggrappandosi con entrambe le mani alle ciocche bionde dei suoi capelli.
    Le sue reazioni erano state più che chiare: la ruota panoramica non gli piaceva, e non amava restare chiuso per troppo tempo in uno spazio angusto; ma in realtà per quanto desse la colpa della sua improvvisa nausea e la sua voglia di scappare di lì alla cabina di ferro che lo stava trasportando – di nuovo – in cima alla ruota, in fondo sapeva benissimo che la percentuale più alta di quella colpa andava attribuita alle parole dell’Oakes, parole che erano rimaste pendenti tra di loro, sospese nel poco spazio che li divideva e pronte a piombare sulla testa del biondo come una terribile sentenza, lasciandolo a soccombere sotto il peso di queste. L’unico motivo per cui sembrava essere ancora tutto d’un pezzo, almeno dall’esterno, era quel suo continuo denegare con la testa, evitando lo sguardo di Hunter e ripetendo a bassa voce a sé stesso che nulla di quello fosse vero; rise nervosamente e alzò lo sguardo solo per chiedere finale conferma al minore «stai scherzando, sì? non è vero, giusto?» quelle parole suonavano più come una supplica che come una domanda vera e propria.
    A un certo punto doveva aver letto anche lui nello sguardo del guaritore la risposta giusta, quella che non avrebbe mai voluto sentire veramente, ma continuò a scuotere il capo con il respiro affannato, ma allo stesso tempo rideva e si guardava attorno con fare quasi divertito.
    Il primo step, quello della negazione, era forse quello più difficile dal quale uscire: una persona poteva autoconvincersi innumerevoli volte dell’inesistenza di una situazione, e poteva negare fino allo sfinimento una palese verità; se non fosse stata veramente pronta non sarebbe mai riuscita ad abbracciare la realtà. Per Dominic era tutto surreale, non si trattava della solita confusione che sentiva pervaderlo appena le cose si facevano troppo difficili per lui, questa volta trovava tutto troppo assurdo: accettare le parole di Hunter sarebbe significato accettare di non essere il più piccolo tra i suoi fratelli, il più viziato dai suoi genitori, di non avere nel sangue tutte quelle qualità che (certamente non aveva mai dimostrato, ma) aveva sempre sperato di mostrare prima o poi come fierezza, passione, fermezza d’animo, autorevolezza, di non essere Dominic: una spersonalizzazione che l’infermiere non era pronto ad affrontare. Se avesse detto che si era sempre sentito un Cavendish fatto e finito avrebbe mentito spudoratamente, e non era possibile negare neanche che non si fosse sentito di troppo almeno una volta nelle foto di famiglia, o fuori luogo in situazioni e contesti che avrebbero dovuto vederlo a suo agio. A conti fatti la cosa che spaventava di più l’ex corvonero è che si sentiva davvero chiamato in causa, e aveva davvero paura che quella che aveva detto Hunter fosse la pura e semplice – crudele – verità.
    Abbandonò il capo contro la spalla del guaritore e per un momento, cullato da quella sensazione di protezione, con il viso compresso contro la maglia dell’altro, si lasciò andare. Non voleva farlo, non era abituato a farlo, e in generale non gli piaceva piangere, men che meno davanti ad altre persone, ma appena il Custode l’aveva stretto tra le sue braccia aveva avuto la certezza che non si stesse prendendo gioco di lui, che nulla di ciò che aveva detto era una menzogna, e sentì l’autocontrollo abbandonare il suo corpo e sopraggiungere il desiderio di sfogarsi.
    Quando l’altro si allontanò appena, si asciugò gli occhi umidi con la manica della felpa e soffocò un singhiozzo nella gola stretta in un nodo, poi alzò le spalle e scosse di nuovo la testa. «un altro universe, 2043, la malattia» (oblivion: a summary) aveva mal di testa «che significa, Hunter? Com’è possibile… che cosa-… Chelsey?» si fece attento e inarcò un sopracciglio nello sforzo di compiere qualche calcolo che, alla fine, non gli tornava affatto. «non capisco» che era tipico del Cavendish, ma quella volta sembrava quasi minimizzante rispetto alla confusione che albergava nella sua testa bionda. Abbassò lo sguardo sulle sue ginocchia e si limitò a sfiorare con i polpastrelli delle dita la lettera che gli aveva dato poco prima l’Oakes, titubante, quasi spaventato che quell’involucro potesse scottarlo o mangiargli la mano.
    «ma questo non cambierà chi sei veramente»
    chi sei veramente
    chi sei
    veramente
    Alzò gli occhi per guardare accigliato Hunter e dischiuse le labbra per dire qualcosa. Ma lui chi era veramente? Se non era Dominic Spencer Cavendish, il bambino biondo un po’ sbadato, il ragazzino tonto, e il giovane un po’ fessacchiatto che sapeva di essere e di essere stato, allora non sapeva più chi fosse, non sapeva chi doveva essere, e non sapeva più chi e cosa avrebbe dovuto essere.
    In quel momento gli avrebbe fatto piacere essere Heathcliff, avere la personalità e il carisma di un sé che non era mai veramente stato, avere la forza di reagire di petto alle situazioni scomode, la stessa forza e lo stesso coraggio che aveva abbracciato quando aveva deciso di salutare la sua realtà e tornare indietro nel tempo per trovare, in qualche modo, i fratelli, per stargli vicino, per proteggerli anche nel passato così com’era nel 2043, per poter avere la possibilità di conoscere davvero suo padre, di non lasciare che Jason si abbandonasse a sé stesso.
    Ma Dominic non era Heathcliff, probabilmente non era più neanche Dominic; in quel momento era solo vuoto.
    Cambiò idea e cambiò domanda, puntò con l’indice la lettera sulle sue gambe, ma non la toccò. «cosa c’è scritto qui dentro?» chiese con voce incerta e un sospiro tremante perché non voleva davvero aprire la lettera, aveva timore di quello che sarebbe successo dopo e i due scenari che si era creato nella sua mente lo spaventavano a tal punto che avrebbe preferito bruciarla senza leggere; per quanto ne sapeva quella lettera avrebbe potuto confermare le parole di Hunter, o far saltare fuori un “sei su scherzi a parte” grosso come una casa, e in entrambi i casi sarebbe stata una tragedia.
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    Hunter non stava scherzando e Dominic, in fondo, lo sapeva. Non era nelle corde dell’ex Corvonero tirare brutti scherzi, creando balle colossali pur di prendere in giro qualcuno. Di solito, l’Oakes era la vittima designata per qualsiasi tipo di scherzo, troppo rigido per rendersene conto, troppo curioso di approfondire qualsiasi aspetto della vita per non cadere in ogni sorta di trappola. Avrebbe voluto che quelle parole non fossero vere, avrebbe voluto che quel passato che li accomunava non esistesse, che non ci fosse un 2043 da cui scappare, che non ci fossero malattie incurabili in grado di mettere in ginocchio un intero mondo, che non ci fossero degli incantesimi in grado di creare un ponte tra diversi mondi.
    In quell’ultimo periodo si era chiesto cosa si provasse ad essere normali, a vivere una vita senza dover portarsi dietro fardelli troppo grandi per la propria età; cosa significasse vivere un’infanzia e un’adolescenza davvero felici, facendo tutte quelle cose che facevano gli adolescenti che non dovevano preoccuparsi di dover salvare il mondo o giù di lì. Perché se quello era il loro compito, stavano davvero facendo un lavoro di merda (cit.).
    Se prima immaginava come sarebbe stata la sua famiglia, spesso fantasticando su come sarebbero stati i suoi veri genitori, si era ritrovato bruscamente a pensare a come sarebbe stato averne una a caso. Aveva sempre sognato in grande, aveva sempre voluto sapere, conoscere di più della persona che era stato, dimenticando così la cosa più importante: Hunter. E per quanto il Jackson e l’Oakes erano sulla carta la stessa persona, la verità giaceva nella consapevolezza di vivere due vite diverse, distinte, uniche.
    L’ex Corvonero ancora non era arrivato a quel punto, troppo ferito dalle recenti scoperte per poter fare quel salto di qualità che lo avrebbe liberato degli errori commessi da Uran e che, forse, lo avrebbe finalmente reso libero di andare avanti nella sua vita senza dover essere necessariamente essere condizionato dal 2043.
    Doveva ancora crescere, l’Oakes, c’erano ancora tante tappe da raggiungere e ostacoli da superare,e non si sentiva ancora pronto per alzare la testa e fissare un obiettivo che non fosse quello di trascinarsi nel giorno successivo, di fare ciò che gli altri si aspettavano da lui con quel poco di entusiasmo che ancora gli restava.
    Lasciò che Dominic si prendesse tutto il tempo necessario, anche se non sarebbe mai stato abbastanza in quel momento, le braccia solide a cingerlo in quell’unico gesto che poteva concedere e concedersi per riprendere fiato, per riordinare le idee, per essere meno terribile di quanto dava a vedere. Avrebbe voluto dirgli che avrebbe capito ma sapeva che non era quello il nocciolo della questione: apprendere di quel passato non equivaleva ad accettarlo, a scendere a patti con esso. Poteva sembrare tutto strano, nebuloso e a tratti confuso, perché era esattamente così. Al di là di quell’unica certezza che li vedeva in un mondo che non apparteneva a nessuno di loro.
    “Non so come spiegarlo diversamente.” Ammise tornando a sedersi al suo posto, liberando così l’Infermiere della sua presenza spigolosa e mai così ingombrante. “So solo che abbiamo scelto di essere qui per cambiare un mondo destinato ad una fine ormai certa. Sembra la frase di un film, ma è così che mi hanno cresciuto, con quest’unico scopo.”
    Perché Hunter era solo la pedina di un gioco molto più grande di lui, nodo di un intreccio di cui non avrebbe mai avuto la visuale d’insieme. Gli avevano chiesto di fare il suo lavoro e lui era troppo obbediente per dissentire, per fare domande, per dar voce ai suoi dubbi e a quelle perplessità che avevano iniziato ad annidarsi in lui.
    “Non so cosa c’è scritto in quella lettera.” Portò lo sguardo oltre il finestrino, mentre stavano per raggiungere il punto più alto di quel secondo giro nella ruota panoramica, senza soffermarsi su un dettaglio in particolare, perso nei suoi pensieri e in quelli di Dominic. Odiava non avere una risposta a una qualsiasi domanda, anche se questa non lo riguardava personalmente, e per quanto la curiosità fosse sempre troppa, non aveva mai aperto nessuna delle lettere che erano custodite in Istituto. I registri sì, perché voleva sapere quanti fossero e chi fossero i Viaggiatori, ma le lettere no. Erano troppo personali, troppo intime, troppo private per poter ficcanasare in giro senza restarne comunque segnati.
    Erano le loro storie, le loro vite, tutto ciò che erano stati in quel passato che prima era andato in frantumi e che poi aveva tentato di incastrare nuovamente i pezzi di un puzzle che ormai non aveva più un senso, una forma.
    “Però posso dirti cosa c’era nella mia.” Un sorriso amaro si dipinse sul volto del Guaritore, mentre prendeva nuovamente l’accendino per bruciare l’estremità di quella canna ormai spenta. ”Delle foto con Halley e con la mia famiglia. Con quelli che dovevano essere gli amici di un tempo. C’è il racconto di uno Special che amava lo skate e Star Wars, che amava i suoi genitori e che avrebbe sacrificato tutto per loro.” Ironico, dal momento che Hunter - se non fosse stato per Uran - avrebbe tranciato di netto ogni rapporto con gli Eubeech. “Un ragazzo che aveva amato la persona sbagliata e che ne ha pagato le conseguenze, inseguendo l’illusione di poter essere ricambiato, quando non faceva altro che soffrire. Era un insegnante di Divinazione che amava la musica, che suonava e che aveva conosciuto Heathcliff in una jam session. Si erano trovati, avevano scambiato qualche accordo ed erano diventati amici, condividendo insieme quella passione tra scrittura, palchi, distruzione e sagre di paese.” C’era ben poco da fare in un mondo piegato dalla pandemia, eppure avevano trovato la loro strada, cercando di portare in giro qualcosa che non fosse solo tristezza, morte e desolazione. Fece un lungo tiro prima di bloccare il fumo nella sua bocca, gli occhi chiusi e la testa poggiata al finestrino, i flashback nebulosi del passato che si rincorrevano nella sua mente, piegandolo ogni volta come se fosse la prima. Aspirò piano, prima di cercare con lo sguardo quello dell’amico, le labbra incurvate in quello che doveva essere un sorriso rassicurante e che invece era semplicemente lottava contro la forza di gravità e il peso di quelle dichiarazioni. Tese in avanti il braccio, porgendo la canna a Dom, prima di riprendere a parlare.
    “Non so cosa Heathcliff ha scritto nella sua lettera, né la storia che ha scelto di raccontarti, le sue verità o i suoi segreti più reconditi. Non so se ti ha parlato dei suoi genitori, dei tuoi genitori, o se ha preferito raccontarti dei suoi sogni e delle sue ambizioni; così come non so il passato, ma posso immaginarlo di alcuni, di tutti coloro che hanno scelto di viaggiare nel tempo e di unirsi alla missione. Sta a te decidere di scoprirlo aprendo quella lettera e di comprendere le tue motivazioni, o di ignorare quanto io ti abbia appena detto. Sei tu, Dominic, a dover scegliere per entrambi.”

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    I am a scientist.
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    «non è possible» continuava a ripetersi sottovoce mentre scuoteva la testa, le dita della mano sinistra premute sugli occhi nel tentativo di estraniarsi da quell’ambiente nella speranza vana e infantile che se non avesse visto tutto quello che lo circondava non avrebbe dovuto neanche viverlo; aveva fatto lo stesso poco prima, quando aveva approfittato delle braccia invitanti dell’ex corvonero per affondare il viso nel suo petto e cercare di dimenticare, e l’aveva fatto ancora prima quando aveva riso e aveva accusato il guaritore di averlo reso vittima di un brutto scherzo: negare era la cosa più facile, la cosa più comoda, ma anche quella meno utile in quel momento.
    Scuotere la testa aiutava. Gli dava la sensazione di allontanare dalle sue orecchie le spiegazioni che l’Oakes – con molta pazienza – continuava a fornirgli e che nello stesso momento l’infermiere tentava sistematicamente di rimuovere dalla sua mente.
    Era più forte di lui.
    Se Hunter era stato cresciuto con lo scopo di arrivare a quel momento, per dare una spiegazione logica a un fatto eccezionale (almeno in quella linea temporale), Dominic era stato cresciuto nella più completa normalità, dove le cose non erano eccezionali, non avevano bisogno di spiegazioni perché avevano già un meccanismo funzionante, uno immediatamente comprensibile, che non richiedeva troppe domande. Sarebbe stato addirittura scortese, anzi, fare troppe domande: così era stato abituato Dominic, un bambino curioso, che spesso aveva soffocato i suoi dubbi per timore di essere scortese, o troppo invasivo, o di scadere nella cattiva educazione. «e… perché tu sei stato cresciuto così?»
    Anche allora, a 24 anni suonati, il Cavendish si sentiva sempre un po’ in colpa quando faceva qualche domanda che indagava un po’ troppo la vita degli altri, come se avesse puntato una lampada sul viso del suo interlocutore e avesse aperto le danze di un interrogatorio sudato che avrebbe portato a un’ammissione di colpevolezza e un pianto disperato da parte del colpevole. Era più o meno così che la scena appariva ai suoi occhi, ma in realtà Dominic sapeva di avere la stessa capacità di intimorire le persone del cucciolo di labrador della Scottecs, e che quindi non sarebbe mai riuscito a cavare una confessione neanche al più fesso dei ladri della banda di Mamma ho perso l’aereo, neanche se al suo fianco ci fosse stato il fantomatico poliziotto cattivo, eppure si sentiva sempre in dover di aggiungere che non c’era obbligo di rispondere alla domanda posta se l’altro non si sentiva a suo agio nel parlarne.
    Ça va sans dire, era un’aggiunta che non faceva mai: solitamente restava un attimo in attesa della reazione dell’altro, e subito dopo tornava nel suo silenzio, facendosi prendere dal solito imbarazzo «e perché io…» senza scopo, senza un indizio su chi fosse in realtà, senza un accenno di verità «…così?»
    Doveva ammettere che molto nel profondo, sotto il grande strato di confusione e la sottilissima patina di rancore, provava anche un po’ di invidia nei confronti dell’Oakes per aver avuto un obbiettivo da perseguire sin da bambino, mentre lui un obbiettivo aveva dovuto cercarlo a lungo, crearselo, e non era ancora sicuro di averlo trovato.
    Ancora più in fondo, Dominic si domanda se il vecchio se stesso (quello che arrivava dal futuro, Heathcliff) non si pentisse di aver fatto quella scelta, di essere diventato quello che era, lui.
    Non si odiava il Cavendish, non più, col tempo aveva imparato ad accettarsi, a smussare le parti di lui che riteneva più detestabili, a mettere in evidenza gli aspetti che gli altri potevano trovare meno noiosi, ma faticava ugualmente a pensare che a qualcuno avrebbe potuto fare piacere essere lui. Non di vivere quella vita, perché tutto sommato non poteva davvero lamentarsi della sua vita, ma di essere lui, con il suo carattere, la sua monotonia, le sue manie, i suoi interessi, e la sua piena mediocrità.
    Nel passare lentamente le dita sull’involucro che conteneva la lettera, si chiese che cosa potesse esserci scritto, che cosa avrebbe potuto voler scrivere Heathcliff, se avesse voluto lasciargli qualche consiglio o un avviso importante; non lo sapeva e non poteva saperlo, non aveva mai conosciuto Heathcliff, non l’avrebbe mai conosciuto, e non aveva la più pallida idea di come fosse quella versione di sé.
    Sicuramente una versione migliore, nei suoi pensieri non si annidava alcun dubbio.
    Alzò gli occhi verso Hunter – che intanto, mica scemo, si stava fumando tutta la sua erba – e lo guardò pensieroso; voleva chiedergli di Heathcliff, che persona fosse, ma si rese conto di avere paura di scoprirlo.
    Posò la lettera sul posto vuoto del sediolino nell’angolo più lontano da lui, e si costrinse a non guardarla più.
    L’ultima volta che aveva ricevuto una lettera era stato molto tempo fa.
    Checché se ne dica, la società magica non era così indietro rispetto a quella babbana. C’era stato un periodo in cui i maghi avevano evitato qualsiasi contaminazione con il mondo babbano, avevano rifiutato la tecnologia, e avevano incredibilmente preferito continuare a vestire come se fossero a una fiera medievale piuttosto che usufruire della comodità dei jeans e delle camicie in flanella, ma quei tempi erano passati già da un po’, e lo stesso Dominic era cresciuto consapevole di cosa fosse un computer e di cosa fosse msn. L’ultima lettera che aveva ricevuto, quindi, risaliva a quando aveva 11 anni ed era stato invitato a frequentare Hogwarts, come suo padre, sua madre, e i suoi fratelli prima di lui. L’entusiasmo che assaliva solitamente i bambini della sua età nel ricevere quella lettera e alla prospettiva di frequentare “la migliore scuola di Magia e Stregoneria e bla bla bla” era stato piuttosto breve; nel rivivere quel momento, Dominic ricordava soprattutto l’ansia che lo aveva assalito all’idea di non essere abbastanza per tutto quello, di deludere tutte le aspettative che gli altri avevano su di lui.
    La lettera che Hunter gli aveva consegnato lo rendeva nervoso allo stesso modo: gli chiudeva lo stomaco, gli seccava la gola, gli accelerava il battito, e gli faceva girare la testa; questa volta, però, aveva paura di deludere se stesso, aveva paura di essere la peggiore versione di sé che potesse mai diventare.
    «parlami di te» parlò infine lentamente, abbandonandosi contro lo schienale della seduta e chiudendo gli occhi per non farsi sopraffare dalla nausea. La ruota panoramica poi, con la sua lenta salita e la sua altrettanto lenta discesa, non aiutava affatto, ma decise di non pensarci, e si costrinse piuttosto a lasciarsi cullare da quel movimento. «com’eri tu? Ti piaceva Star Wars, quindi. ti facevo più tipo da fantasy medievale: draghi, gnomi, cavalieri, cose così» con un’alzata di spalle si permise un leggero sorriso divertito e un accenno di risata, e ignorò invece tutto il resto.
    Hunter era stato più che bravo; se il suo compito era quello di iniziarlo al 2043, accennargli la verità, l’aveva svolto alla perfezione, ma Dominic non sapeva scegliere, non voleva scegliere, non in quel momento. Prima o poi sarebbe stato pronto ad aprire quella lettera e a scoprirne il contenuto, magari tra un mese o magari quella stessa sera (spoiler: sì), ma non era quello il momento.
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    Se ci fosse stata anche la più piccola possibilità che tutto quello non fosse vero, l’Oakes l’avrebbe già esplorata, analizzata, dissezionata al punto da poter mettere in discussione tutto quello per cui lo avevano cresciuto. Se si fosse trattato di una gigantesca menzogna, e se avesse avuto prove certe e tangibili, avrebbe speso ogni sua energia per demolire quella farsa e far condannare chiunque abbia voluto, fino a quel momento, giocare indisturbato con le loro vite. La realtà, per quanto assurda, era ben diversa.
    Eliminato l’impossibile, ciò che resta, per improbabile che sia, deve essere la verità.” Era consapevole non fosse la più colta delle citazioni, ma aveva fatto di quella frase di Sherlock Holmes il fulcro stesso della sua visione del mondo. “Non sono qui per importi alcun credo, l’unica cosa che posso consigliarti è di pensarci su.” Magari in maniera più sana di quanto non avesse fatto il Custode in quegli anni, senza continuare a rimuginarci sopra, senza costruirci attorno un mondo fatato ben distante da quella che poi sarebbe stata la realtà dei fatti. “Tutto quello che verrà, sarà una tua scelta.” Non amava ripetersi, l’ex Corvonero, ma quella specifica circostanza era un’eccezione. Pretendere che il Cavendish accettasse ogni cosa passivamente, che non si sarebbe fatto domande o che non avesse avuto delle rimostranze sarebbe stato crudele, quasi un insulto alla sua intelligenza e, soprattutto, al suo libero arbitrio: come Heathcliff aveva scelto di tornare indietro nel tempo e nello spazio per darsi un’altra chance, per dare all’intero universo un’altra opportunità, la stessa alternativa doveva essere data a Dominic. L’ex Corvonero poteva credere o meno alle sue parole, Hunter non avrebbe giudicato, il suo compito finiva nell’esatto momento in cui queste venivano pronunciate, cosa ne avrebbe fatto il suo interlocutore non era affar suo.
    Troppo cinico, forse, ma le spalle di Hunter non potevano sopportare anche il peso di poter distruggere una vita ogni qual volta era chiamato a svolgere il suo compito, ogni volta che si riaprivano vecchie ferite risalenti al 2043, ogni singola volta che veniva a patti con quella realtà. In tutta onestà, la sua labile salute mentale avrebbe fatto a meno di qualunque altro dramma non prevedesse il suo coinvolgimento in prima persona.
    Sospirò piano, raccogliendo i pensieri prima di rispondere a quella domanda così semplice all’apparenza. Portò lo sguardo nuovamente fuori il finestrino, oltre il Wicked Park, perso chissà dove nell’orizzonte. Abbassò le palpebre qualche istante, sprofondando nel sedile un po’ di più. “Perché Uran ha tracciato per me questa strada.” Riportò le iridi chiare sulla figura del maggiore, massaggiandosi piano il viso con le mani. “Non la migliore delle scelte, se mi è permesso aggiungere.” Un sorriso amaro apparve sul suo volto, fattosi quasi improvvisamente stanco. “Nel 2043, prima di partire, ci è stata data l’opportunità di scegliere il ruolo che avremmo svolto dopo quel salto temporale, di scegliere che tipo di pedina essere il questo grande piano. Pillola azzurra, fine della storia: ci si sarebbe svegliati privi di alcun tipo di legame con il nostro mondo, in una nuova famiglia e con tutto da riscrivere, da rivivere. Nessuna connessione, un nuovo inizio. Pillola rossa: si sarebbe rimasto con un piede nel paese delle meraviglie, ma senza mai scoprire quanto è profonda la tana del bianconiglio.” Per quanto Hunter stesse offrendo solo la verità, niente di più a Dominic, si sentiva sempre più tradito da sé stesso, dall’egoismo di Uran, da quel voler a tutti i costi mantenere vivo quanto più possibile un legame reciso nel momento in cui l’incantesimo era stato attivato. “Uran e Rude, mia sorella, hanno preferito la seconda opzione, tornare in dietro con alcuni ricordi, più simili a percezioni che a flashback veri e propri. Erano convinti che nessuno li avrebbe amati più dei loro genitori e non volevano rinnegarli. Non volevano neanche essere separati, come è successo con altri. Se non potevano essere adottati da altre famiglie di Custodi, l’Istituto era l’unica opzione disponibile.” Un luogo completamente anaffettivo, privo del calore tipico di una famiglia. Un posto austero, silenzioso, dove ci sono più libri che persone e dove le regole dovevano essere necessariamente seguite. “Hanno costretto me ed Halley a fare affidamento solo su noi stessi, senza nessuno che si prendesse davvero cura di noi, o a cui importasse davvero qualcosa, al di là della missione.” Non c’era rabbia nelle sue parole, solo tanta, tanta tristezza. Per loro non c’erano state feste di compleanno piene di sorrisi e giochi, non c’erano stati caldi abbracci o storie della buonanotte – almeno fin quanto Hunter non aveva imparato a leggere, così da poterle raccontare anche ad Halley -, non c’erano stati consigli spassionati o avvertimenti su quanto fosse freddo e crudele il mondo attorno a loro, soltanto addestramento sul campo. Non c’era nessuno ad attenderli a casa, in attesa che raccontassero cosa avessero fatto di bello in quella giornata, solo il pensiero di quello che avrebbe potuto essere e che non sarebbe mai stato. Il prezzo pagato per la consapevolezza di sé, per aver avuto l’opportunità di sapere fin da subito il suo ruolo nel mondo, era stato incredibilmente altro e, col senno di poi, i contro avevano decisamente prevalso.
    “Heathcliff ha fatto la sua scelta, come Uran, e in un modo o nell’altro sta a noi decidere se ne sia valsa la pena o meno. Per quello che è il mio percorso fino ad ora, avrei preferito non avesse mai scelto di essere fedele al passato, alla sua identità. Avrei preferito crescere nella normalità di una famiglia e…” ed essere amato, così com’era. Rotto, sbiadito, a metà. Desiderava così tanto avere dei genitori che le sue aspettative erano finite a schiantarsi con una realtà decisamente diversa e meno felice. Se avesse avuto una casa, probabilmente non avrebbe passato la sua intera esistenza a immaginare come sarebbe stato averne una, a crearne una nella sua mente per sopperirne l’assenza. Halley era tutto quello che aveva, non l’avrebbe scambiata per nessuna cosa al mondo, ma era davvero così da egoisti chiedere qualcosa in più? Qualcuno in più nella sua vita solo per poter sentirsi più leggero, meno… Hunter. “Forse, la risposta a questa domanda è già nelle tue mani, forse non ha ritenuto necessario scriverlo nella tua lettera. Le mie sono solo mere supposizioni.”
    Non aveva molto altro da offrirgli, non possedeva nessun ricordo di quei giorni se non le parole che Uran e Rude avevano lasciato loro. Credere a quanto scritto in quelle lettere era l’unico atto di fede che Hunter era stato disposto a fare.
    “Di me?” Domandò sorpreso, prima che Dominic continuasse. Di Uran, allora avrebbe voluto aggiungere, ma sarebbe stato poco gentile e poco delicato. La verità è che Hunter non interessava a nessuno, ma era una verità cui era già sceso a patti da tempo: era Halley la Oakes interessante.
    “Beh, se pensi che Uran era un insegnante di Divinazione, mi sarei stupito più se non lo fosse stato.” Una scienza talmente imprecisa e aleatoria che difficilmente si sposava con la spietata logica razionale dell’ex Corvonero. “Non credo di avere molto in comune con lui, in realtà, forse solo l’incapacità di amare ed essere ricambiato. Victor ne è un esempio piuttosto palese, ma non ho intenzione di inseguirlo o di struggermi o di perder tempo dietro a cose inutili. Uran ha passato la sua intera vita a rincorrere Noah, la sua cotta da adolescente. Lo stesso Noah che si è sposato con un’altra e che ha continuato a tradire ripetutamente con lui, dopo avergli chiesto di essere il suo testimone. Con Noah, la nostra versione di Noah, ho sentito un click immediato, ma oltre ad andarci d’accordo non c’è nulla. La mia considerazione per chi ero nel 2043 non è molto… alta, ma comprendo il suo legame con Halley, comprendo il perché di molte scelte, ma non le condivido. Non posso condividerle.”
    Si passò una mano sul volto, abbandonando la testa contro la parete di metallo dietro di lui. “In realtà credo di odiarlo. Le sue motivazioni possono essere giuste ma non per me, non puoi pretendere di vivere in due mondi, senza mai andare avanti, senza prendere una vera decisione per restare nel limbo. Non è tornato indietro nel tempo perché credeva nella missione, ma per proteggere sua sorella, per vegliare su di lei, senza sapere come, senza poter immaginare come sarebbe stato. È stato un gesto egoista e spero che il suo occhio non abbia visto quello che poi sarebbe successo. Ci ha condannato entrambi.”
    Non aveva mai espresso ad alta voce quei pensieri e si stupì di averlo fatto proprio con Dominic. Non voleva vomitargli addosso tutta la sua insofferenza, ma una volta iniziato a parlare, non era poi riuscito a smettere, troppo arrabbiato per poter ponderare anche solo l’idea di perdonarlo e perdonarsi.
    “So che, nonostante tutto, era felice. E vorrei riuscire ad esserlo anche io, così come dovresti esserlo anche tu.”
    I am not a hero.
    I am a scientist.
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    Oakes
     
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