I bet everybody here is fake happy, too.

ft. aloysius

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    arturo maria hendrickson
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    Contrariamente a quanto faceva credere, anzi, contrariamente a quanto voleva far credere, Arturo Maria non era la persona estroversa che Hogwarts conosceva; un vero shock, lo so, lo so.
    Quella del Capitano sorridente, gentile e (un po') scemo era solo una parte che Art recitava da così tanto tempo da venirgli quasi naturale; dei panni non suoi ma che aveva imparato a riempire cosi bene da calzargli, oramai, a pennello. Il ruolo di buffone, di ragazzo troppo superficiale per poter affrontare determinati discorsi, quello che faceva il cascamorto con tutte le studentesse ben sapendo di non avere alcuna chance: quello era l'Arturo che tutti al castello conoscevano, la persona con cui avevano convissuto per sette anni. L'identità con cui lui stesso era sceso a patti, accettandola come reale, perché era meglio lasciar credere che fosse vera, quella versione di sé che, bene o male, piaceva a tutti perché non era poi così sicuro che Arturo Maria, l'originale, avrebbe riscosso lo stesso successo tra i suoi compagni. In verità, non lo faceva semplicemente per il gusto di esser accettato, di essere amato, poiché, al contrario, ciò che bramava davvero era il distacco: Arturo voleva solo essere visto quel tanto che bastava per esser notato, per non morire di noia e scambiare due parole cordiali con chiunque capitasse, e poi esser dimenticato. Non voleva esser considerato un punto di riferimento per nessuno, non voleva eccellere, non voleva esser preso come modello, non voleva spiccare oltre i suoi compagni.
    Voleva che la gente ricordasse il suo nome, niente più.
    O, per lo meno, quelle erano state le volontà di un Arturo Maria undicenne che si avventurava per la prima volta nei corridoi del castello; ed erano rimaste le sue volontà a lungo, per troppi anni, al punto da confonderle, infine, con ciò che voleva davvero. Era certo di esser contento così, che il suo aggirarsi per le aule tra un saluto e l'altro ma senza mai rimanere a lungo, gli andasse bene; che il fatto di esser considerato abbastanza simpatico per scambiarci una battuta ma non abbastanza simpatico per condividere cose più profonde, gli andasse molto bene. O, per lo meno, così credeva. Ma lui non era bravo con i segreti, con le responsabilità – solo la parola gli faceva venire l'ansia – quindi perché mai avrebbe voluto sperare che qualcuno si avvicinasse tanto a lui al punto da reputarlo una figura a cui affidare i propri pensieri più intimi, più nascosti? Non lo voleva affatto, anzi, quel suo rendersi ridicolo davanti a tutti, per far credere che in lui non ci fosse un briciolo di dignità - o di intelligenza - e che fosse solo l'ennesimo idiota con un bel faccino ma senza cervello, serviva proprio a quello, ad allontanare chiunque potesse anche solo formulare il malaugurato pensiero di aprirsi con lui.
    L'intimità, in qualsiasi forma, lo spaventava.
    Non voleva persone che dipendessero da lui, non voleva nessuno che puntasse su Arturo Maria Hendrickson o che avesse fiducia in lui perché li avrebbe delusi, tutti, dal primo all'ultimo. Erano poche le cose in cui Turo era bravo (disegnare, trovare soluzioni disperate ma funzionali a momenti altrettanto disperati, elencare tutti i film di Julia Roberts, farsi patemi d'animo anche per per le cose più sciocche, bighellonare, fallire in qualsiasi materia) ma deludere chi gli stava vicino era decisamente una di quelle.
    Lo aveva fatto con sua sorella a dieci anni, quando, nonostante fosse stato incaricato da Ana Teresa di "tenerla d'occhio", si era distratto e Rosie era finita a terra, scivolando dalla bici, e si era sbucciata le ginocchia - nulla di troppo grave, ma la bambina aveva chiaramente detto alla mamma che lui si era distratto, e lo aveva fatto per parare se stessa, accusandolo con aria di rimprovero e si, anche di delusione.
    Lo aveva fatto quando il suo insegnante di scienze, alle elementari, il suo preferito, aveva scoperto la bugia rifilata da Turo riguardo il progetto da consegnare: «sono molto deluso da te, Arturo Maria», erano parole che ancora oggi il Serpeverde non riusciva a dimenticare.
    Lo avrebbe fatto, inevitabilmente, quando i suoi genitori sarebbero venuti a conoscenza di quella verità che lui stesso stava ancora cercando di accettare: gli piacevano i ragazzi.
    Anche?
    Solo?
    Questo non l'aveva ancora capito, Arturo, e per ora aveva già abbastanza cose di cui preoccuparsi per pensare anche a quello; non avrebbe fatto alcuna differenza, tanto, con Ana Teresa. Nel momento in cui la donna fosse venuta a sapere di quel particolare - e in qualche modo, lei lo sapeva sempre -, ne sarebbe rimasta molto, molto delusa.
    Quello era l'Hendrickson, infondo: una delusione. Come figlio, come amico, come compagno di banco o di lezione, come Capitano. Aveva davvero sperato che quell'anno le cose sarebbero state diverse, che venire eletto Capitano - seppur contro ogni logica, contro ogni aspettativa e, ancor più importante, contro ogni sua immaginazione - avrebbe cambiato le cose (e lo stesso Arturo) per il meglio. E invece era lo stesso screw up di sempre, solo che ora portava sulla divisa una spilla con una C in rilievo e ogni suo fallimento, si riversava, inevitabilmente, sulla squadra. Aveva fallito ai tryouts, aveva fallito ai primi due (o dieci, aveva perso il conto) allenamenti, aveva fallito nell'intento di renderli una squadra come aveva (sperato) immaginato per tutta l'estate. Vero, la stagione era appena iniziata ma dell'ottimista che mostrava di essere al mondo c'era ben poco in lui: era, sotto ogni aspetto, un pessimista cronico e sempre lo sarebbe stato.
    Ma non erano solo quelli, i suoi problemi.
    L'imbarazzo che provava nei confronti di Costas rendeva difficile qualsiasi interazione tra i due, che si ripercuoteva, poi, anche su loro come compagni di squadra: come faceva ad essere super partes se ogni atteggiamento del minore gli faceva venire voglia di sbatterlo al muro (il come è a libera interpretazione) una volta sì e l'altra pure? Aveva creduto di potercela fare ad essere solo un amico, un bravo Capitano e niente più, ma si era sbagliato di grosso anche lì: ora che a Costas lui sembrava non interessare più, era Arturo a sperare segretamente in qualcosa. Ma c'erano un fottio di motivi se il Cappello aveva scelto di non smistarlo tra i Grifondoro e il più importante era la sua mancanza di qualsivoglia forma di coraggio. Non esagerava affatto chi sosteneva che Arturo Maria avesse paura persino della sua stessa ombra; era una frase vera su più livelli, e il Capitano verde-argento non lo aveva mai tenuto nascosto; era uno dei motivi per cui non lasciava avvicinare nessuno, perché temeva ciò che sarebbe inevitabilmente successo; aveva paura di soffrire e aveva paura di essere felice. E quando aveva paura, Turo, si chiudeva in se stesso e inventava scuse poco credibili per allontanarsi il più in fretta possibile da chiunque altro, cosa che aveva fatto quella stessa sera quando, colto alla sprovvista, era stato invitato da Tulip al festino-non-così-segreto che i Serpeverde avevano organizzato in riva al Lago Nero. Era convinto che l'invito fosse stato fatto solo perché, a conti fatti, era comunque il loro capitano, fiasco o meno, ma quando la ragazza aveva esclamato «dai, Turo, non fare così!» alla sua ennesima protesta in spanglish, allora aveva chiuso la bocca.
    Turo, non Capitano, come ormai aveva fatto l'abitudine ad esser chiamato - spesso senza calore, senza interesse, per mera abitudine; Capitano andava benissimo! Era impersonale e distaccato come piaceva a lui. Ma no, aveva detto Turo, come se i due fossero amici; come se gli altri volessero lui per ciò che era e non per ciò che rappresentava. Quanto era assurda come cosa?! Quanto era spaventosa come cosa?
    Inutile dire che ci aveva messo molto meno a sprintare via dalla sala comune, con una scusa banale, che a formulare quel pensiero. Avere a che fare con tutta quella gente vestendo i panni di se stesso era qualcosa che ancora non si sentiva in grado di poter affrontare; e quella non era la sera giusta nemmeno per indossare una maschera che ormai sentiva non appartenergli più. Stava cercando di cambiare, l'Hendrickson, ci stava provando davvero: voleva essere se stesso ma non era ancora pronto ad esserlo davanti a persone che lo conoscevano e che avrebbero rivisto il giorno dopo. E quello dopo ancora. E quello dopo ancora. Era ancora un work in progress!!! E, come era risaputo, lui era estremamente lento a imparare, persino quando si trattava di imparare come essere, finalmente, se stesso.

    Quello, però, era pur sempre un venerdì sera e, come tale, evitare i compagni su di giri per il weekend era pressoché impossibile rimanendo al castello, feste o non feste, così aveva fatto l'unica cosa reputata furba (reputata da lui, quindi forse non così furba) e si era diretto verso Hogsmeade, imbacuccato sotto spessi strati di stoffa, e nascosto dietro una sciarpa che lasciava intravedere solo gli occhi azzurri. Quantomeno il vento gelido della Scozia era servito a schiarirgli un po' le idee, quel tanto che bastava a convincerlo che non poteva passare il resto della sua vita (scolastica, ma anche vita e basta.) a nascondersi o fuggire ogni volta che qualcuno provava a trattarlo diversamente. A trattarlo come un amico.
    Si lasciò scappare una risata amara, a quell'assurdo pensiero: di amici ne aveva... pochi, ma ne aveva. E il fatto che questi amici non sapessero niente dell'Arturo che era fuori dalle mura del castello, non voleva dire che lui gli volesse meno bene. Non era per quello che scappava... ad essere onesti, non lo sapeva neppure lui perché lo facesse. Era ormai così radicata in Turo quell'abitudine di girare i tacchi e svignarsela al primo campanello d'allarme tanto che, alla fine, aveva dimenticato cosa lo spingesse a scappare. Sarebbe riuscito prima o poi a comportarsi da essere umano funzionale e maturo.
    Ma non era quello il giorno.

    «Un'altra, per favore.» La seconda Burrobirra da quando era arrivato al Testa di Porco, mezz'ora prima.
    No, forse la terza della serata ma la Burrobirra non era poi così alcolica, no? Non era mica la roba di spaco che qualcuno (il corpo docenti) aveva introdotto al prom di nascosto e con cui lui si era preso quell'epocale sbronza! Non stava nemmeno esagerando! E poi aveva detto per favore, quindi non si spiegava l'occhiata accusatoria rivolta dal barista. Era anche maggiorenne, quindi se voleva qualcosa da bere, poteva aVeRe qualcosa da bere! E, per sottolineare la sua serietà, Arturo tirò fuori decisamente più falci del necessario, schiaffandole sul bancone. Era incredibilmente facile spillare soldi agli Hendrickson se inventava balle abbastanza realistiche su "una nuova fidanzatina da portare da Madama Piediburro". «Doppia.» Un grande sorriso da schiaffi gli si disegnò sul volto.
    Quando il barista sbatté il boccale davanti a lui, Arturo sobbalzò impaurito ma lo ringraziò lo stesso, perché Arturo Maria era anche quello; magari poteva anche rivelarsi una delusione il 99% delle volte, ma quanto meno era una delusione cortese.
    Non era andato al pub con l'intento di sbronzarsi, comunque, affatto; voleva solo un posto dove nessuno riconoscesse la sua faccia e dove poter disegnare in santa pace. Si stava già pentendo di tutta quella storia del "il vero me blahblahblah" perché se non cambiava idea almeno venti volte nell'arco di un'ora non era lui. E il pentimento - e il rimpianto - se li portava in spalla come vecchi amici. Quindi sì, per quella sera non ne voleva sapere di compagni di squadra, di concasati, di altri studenti.
    Voleva solo passare (altro) tempo con se stesso ma, per una volta, senza pensare - o rimuginare - troppo su tutto il resto.
    Così, seduto al bancone, fischiettava sovrappensiero sulle note di quella canzone che risuonava nel locale in quel momento; non aveva idea del fatto che al pub facessero serate dal vivo, e la cosa gli ricordò che erano mesi che non toccava la sua chitarra. Forse, al rientro dalle vacanze di Natale, poteva portarla con sé e chiedere a Indie qualche lezione per rispolverare un po' le sue (scarse) doti di musicista. Il pensiero lo abbandonò velocemente, però, mentre studiava l'illustrazione incompiuta davanti ai suoi occhi. Arricciò le labbra, drizzando la schiena per osservare il disegno da un punto di vista diverso, voltando poi l'album in direzione del barista, chiedendo alla povera anima affranta: «cosa ne pensi? Sii spietato.» Lui era abbastanza soddisfatto anche se trovava che il naso non somigliasse molto a quello del Bolton che stava tentando di raffigurare. «Forse non dovevo immaginarlo svestito Cosa? Cosa. Dai si sa che, per citare una saggia, i Julian di Arturo erano come tutte le gif di Elordi: a petto nudo.
    Rimise giù l'album e tornò a disegnare, senza rendersi conto che la musica era terminata – così come la sua terza (ma doppia) Burrobirra. Ma pensa.
    Beh, quanto meno insieme alla bevanda alcolica aveva mandato giù anche gran parte delle sue paranoie, almeno per il momento, e quel che rimaneva era un adolescente perso nei propri disegni ma, stranamente, preso bene. Sarebbe stato bello poter sentire quel senso di leggerezza sempre, in ogni momento della giornata, vero? Vivere come se i mille problemi (inutili) che si faceva per qualsiasi cosa non esistessero.
    Eh, già. Ma non sarebbe stato Arturo Maria Hendrickson, in quel caso. Solo un ragazzo che gli somigliava molto, e niente di più.
    «Oye, hombre, ¿tienes-» lui e la sua abitudine di switchare allo spagnolo quando assorto nei suoi pensieri. Corresse il tiro e riformulò la frase. «Avresti per caso delle noccioline?» Iniziava ad avere fame e non ricordava quale fosse stata l'ultima cosa che avesse mangiato, quel giorno, ma probabilmente qualche schifezza calorica e con pochissimi valori nutrizionali; inutile dire che anche la dieta ferrea che aveva seguito in estate era andata a farsi benedire con l'arrivo di Settembre e il rientro a scuola. Davvero un pessimo esempio, Capitano. Ma come si poteva resistere alla cucina degli elfi?! E poi, era risaputo, l'aria scozzese apriva lo stomaco!!
    Aggiunse un «...¿porfa?» e un altro sorrisone sfrontato, ma simpatico, con tanto di denti in bella mostra. Praticamente l'equivalente umano di


    Edited by antarctica - 17/7/2021, 12:36
     
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    Aloysius Crane aveva sempre trovato nella Testa di Porco un porto sicuro, un angolo di paradiso lontano dal mondo, nel quale nascondersi e trovarsi. Ovviamente, era tutto fuorché un idilliaco locale nel quale passare del tempo in totale serenità, a debita distanza dai problemi che affliggevano ogni persona al di là del portone d’ingresso; anzi, con tutta probabilità, non lo avrebbe mai consigliato a nessun forestiero che avesse domandato in giro per High Street di un posto caldo nel quale fermarsi e prendere una Burrobirra. Pareva quasi che ogni cuore duramente infranto cercasse nell’Ogden Stravecchio un pozzo nel quale suicidarsi – accompagnato da chi aveva già alzato il gomito altrove e tentasse di trovare nel pub la goccia a far traboccare definitivamente il vaso della propria ebrezza, calpestato da quelli che invece vi entravano solo per cercare rogna: c’erano state notti durante le quali le persone ed i loro drammi avevano raggiunto picchi d’assurdità così tanto elevati, da sembrare d’essere nella taverna di un qualche racconto fantasy al limite della realtà.
    Pizzicò le corde della chitarra, lasciando che le ultime note di una canzona lontana – nel tempo, nello spazio, ma probabilmente distante anche dalla conoscenza di molti maghi che, lì, non avevano idea di cosa si suonasse nell’America babbana degli anni settanta – vagassero nell’ampia stanza senza magari nemmeno essere ascoltate; e ne sorrise, mentre gli occhi socchiusi andavano ad indagare un pubblico già brillo dalle prime ombre della sera, perché era proprio per quello che amava quel posto.
    A nessuno fregava un cazzo di nessuno. Non una polemica, né un offesa provocata o sentita: era un semplice dato di fatto – che per esempio ad Al non interessasse nulla di un Martin con le guance già tinte di porpora e una bottiglia di gin sotto braccio, il passo incerto che lo portava a molestare ogni fanciulla lì presente; o che Martin ignorasse allegramente Stephen, che invece spaccava la prima bottiglia contro un tavolo minacciando chi credeva avesse barato a qualche stupido gioco da maghi; o che Stephen, preso dalla sua foga verso John, se ne infischiasse di una Lisa che già ballava su tutti i tavoli che riuscisse a scalare, ridendo poco sobriamente di ogni sua caduta su vetri e persone.
    Molti erano i posti, molte le situazioni nelle quali la gente si rifugiava per essere se stessa, senza la paura o la voglia di essere vista, ancor prima di essere giudicata: quello del trentaduenne, era la Testa di Porco. Lo era stato quando incauto e già frustrato da un mondo che non voleva né poteva capire vi aveva messo piede la prima volta; aveva continuato ad esserlo ad ogni sua crisi, ad ogni battito nel petto troppo forte da poter essere sostenuto, quando i fumi dell’alcol sembravano opacizzare le candele del pub oltre che offuscare le menti dei suoi avventori; continuava ad esserlo ogni volta che aveva bisogno di non essere osservato, di non sentirsi sotto processo per motivi che nemmeno comprendeva, anche senza dover perdere i sensi sul pavimento lercio.
    Prendeva la sua chitarra, metteva River a dormire, si assicurava che ci fosse qualcuno (solitamente, Rea o Shia) pronto a contattarlo casomai gli servisse suo padre, e si preparava ad una nuova serata all’insegna del menefreghismo reciproco. Ne aveva bisogno, di essere un Qualcuno tra una folla di Nessuno – anche se solo per sé, anche se a nessuno fottesse di chi cercava di dare una melodia alla propria ennesima sbronza.
    E quella sera avrebbe dovuto essere solo una delle tante, l’ennesima ripresa di una oramai consolidata ed ordinaria routine: lo aveva creduto quando era entrato, quando si era barcamenato tra gli avventori già allegri, quando si era messo in fila in attesa del proprio turno per suonare dal vivo, e quando aveva finalmente preso posto a sedere su di uno scomodissimo sgabello. Ma quando aveva iniziato a strimpellare le prime note di un brando dei The Band, e sovrappensiero aveva alzato lo sguardo, aveva spezzato la prima regola mai scritta ma imposta dal quieto vivere del locale.
    Quella di ignorare tutto il resto, e tutti gli altri; di andare per la propria strada senza nemmeno pensare.
    Perché non aveva importanza quanto le luci fossero soffuse e tenui, o quanto fosse difficile distinguere un singolo volto umano nella marasma di persone che si muovevano da un lato all’altro senza né motivi né mete: Aloysius Crane mai avrebbe potuto non riconoscere la faccia di Arturo Hendrickson, qualsiasi fossero le condizioni avverse.
    Di sicuro, anche prima di sapere chi fosse realmente avrebbe faticato a non focalizzare la propria attenzione sul suo profilo. Le informazioni di Amalie avevano aiutato molto, senza dubbio, e sia lui che Maeve si mettevano di proposito a cercare gli occhi dei propri figli tra le folle – anche se non erano davvero loro, ed anche se non erano davvero i loro genitori –, ma ci sarebbe comunque stato quel prurito sotto il palato, quella sensazione di già visto a vibrare da ogni lineamento di un ragazzo troppo simile al bambino cui solo poche ore prima aveva raccontato un’assurda favola del proprio passato per farlo addormentare.
    Riconoscerlo nelle foto, sapere che quel giovane seduto al bancone in un’altra vita si chiamava River Lou Crane, rendeva solo più complicato il ruolo del lumocineta – che poi, un compito, non lo aveva mai avuto: si era solo imposto di osservare da lontano, ma non avvicinarsi mai tanto da essere notato.
    Ma presosi quei pochi applausi e lasciato il palco, come poteva rimanere fedele ai propri iniziali intenti? Poteva non essere suo padre, ma l’altro sarebbe comunque rimasto suo figlio. E benché non fosse un bambino di quasi quattro anni, il Serpeverde rimaneva un adolescente che aveva deciso di entrare da solo nel locale più malfamato di Hogsmeade.
    E se una vocina nella sua testa gli diceva Al, ma li hai visti i ragazzi che frequentano Hogwarts?, l’altra ci teneva a ricordargli che se in futuro suo figlio, Lewis o Carole avessero mai deciso di fare notte brava da quelle parti, lui avrebbe passato la stessa appostato dietro un vicolo o su un tetto per controllare che tutto andasse bene: fortuna per i ragazzi che probabilmente ne sarebbe venuto a conoscenza solo in seguito, se non mai.
    Dicendosi che non poteva restare indifferente, e che non avrebbe fatto nulla di sconsiderato, raggiunse il bancone e si sedette al fianco del ragazzo. Si limitò ad un semplice gesto in direzione del barista della Testa di Porco, segno che avrebbe preso il solito bicchiere di Whiskey Incendiario: il bello di essere un cliente abituale.
    Dio, era così strano!
    Evitava di fissarlo, non voleva fare la figura del pervertito di turno, ma non riusciva a trattenersi dal posare gli occhi sulla versione cresciuta e brilla di quel bambino che ancora cercava di mangiare i bicchieri di vetro per testarne il gusto e la resistenza. Ed era buffo, sentire l’accento spagnolo e quel bilinguismo che scivolava dalle labbra inconsapevole – e anche riflessivo: River avrebbe imparato spontaneamente a parlarlo, o avrebbe dovuto insegnarglielo?
    Ed avrebbe voluto abbracciarlo, voleva dirgli che gli dispiaceva per qualcosa che non aveva ancora fatto e sperava di non fare mai, che lo amava più di quanto potesse anche solo immaginare, che si stava ancora leggendo manuali su come diventare un buon padre nonostante fosse un fallimento sotto tutti i punti di vista umanamente immaginabili.
    «Bryant è una bestia,» si allungò oltre il bancone recuperando una ciotola piena di (quelle che sperava fossero) noccioline, e la posò davanti al ragazzo accompagnato da un «‘fanculo, Al» sinceramente sentito da parte del suddetto. «sente solo quello che gli pare.» come gli insulti o le prese per il culo, per cui il Crane si ritrovò in faccia uno strofinaccio lercio e degno dello SpacoBot.
    Disgustato ma abituato, rilanciò il cencio al ragazzo dall’altra parte del bancone e avvicinò il bicchiere di Ogden alle labbra, ingoiandone un primo sorso. «Non sei un po’ troppo giovane per essere qui?»
    Al che, sempre la vocina nella sua testa: primo, ma che ti frega; secondo, probabilmente viene qui già da anni.
    Se aveva ripreso da suo padre, probabilmente era così.
    «Cioè, voglio dire, di tanti locali più tranquilli e perbene…» il suono di un bicchiere di birra violentemente sbattuto davanti a lui lo costrinse a voltarsi, trovandosi gli occhi scuri di Bryant puntati contro. «Per il tuo amico, pezzo di merda.» ai posteri decidere se l’epiteto fosse per Al, o per Arturo: l’aveva detto, che sentiva solo quello che gli faceva comodo. «Offre la casa?» «Offri tu.» wow, la prima birra offerta a suo figlio e non aveva nemmeno avuto l’opportunità di deciderlo per conto suo.
    Sporgendosi per passare il bicchiere al ragazzo, l’occhio gli cadde sui fogli che aveva davanti.
    Non pensarci.
    Non pensarci.
    Non pensarci.
    Ci pensò.
    Inevitabilmente pensò al piccolo, innocente, adorabile River di ancora tre anni nel suo lettino che disegnava ragazzi nudi. Doveva trovarsi un obliviatore per levarsi quell’immagine dalla mente, aveva ancora molti anni prima di doversi preoccupare del suo bambino che pensava a certe cose.
    «Ehi, hai un vero talento! È il tuo ragazzo?» minchia come era finito in fretta quel whiskey.

    Bryant, send help. «col cazzo» ma pensa, ora leggono pure nella mente.
     
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    Più passavano i minuti, più Arturo iniziava a domandarsi sul serio cosa ci facesse lì.
    Era un quesito quotidiano, il suo, al quale tuttavia non aveva mai trovato una risposta. E dubitava ci sarebbe mai riuscito.
    Sempre fuori posto, sempre in ritardo.
    Sempre sbagliato.
    Non riusciva a vedersi sotto un diverso punto di vista perché, a conti fatti, non c'erano altri punti di vista: solo quello, solo il suo – che poi era un po' quello di tutti, lo sapeva - a dipingerlo come il perdente che era. Anche con la fascia di capitano al braccio la spilla di capitano appuntata al petto, quella consapevolezza di sé non era mutata e Arturo proprio non riusciva a vedersi sotto nessun'altra luce.
    Ci aveva fatto l'abitudine, però.
    Ci aveva fatto il callo: non lo turbava più di tanto realizzare quanto inetto o sbagliato fosse, infondo ognuno aveva il suo posto nel mondo e il suo, a quanto pareva, era quello lì – la sua parte in quell'opera era quella del ragazzino che compieva poche scelte - e tutte quelle che faceva erano dannatamente sbagliate.
    Troppi pensieri, troppe riflessioni, troppe incertezze, che lo portavano per forza di cose a puntare su quelle inopportune. Troppo tempo sprecato dietro infiniti se e infiniti ma, e mai abbastanza occasioni colte al volto.
    Ragionava tanto per fare la scelta giusta e poi sbagliava.
    Ogni. Singola. Volta.
    Non importava quanto cercasse di essere bravo, perfetto agli occhi dei suoi genitori, non ci sarebbe mai riuscito: c'era qualcosa in lui che lo faceva sempre cadere in errore, una forza più grande che lo spingeva, inevitabilmente, verso il baratro.
    Alle volta si fermava a domandarsi che razza di persona orribile fosse stata in passato per meritarsi tutto quello: credeva nella reincarnazione, Arturo, perché aveva bisogno di qualcosa in cui credere e l'idea che terminasse tutto dopo la morte non lo rassicurava abbastanza. Voleva credere - e sperare - che tutti avessero l'occasione di riscattarsi – una vita dopo l'altra. L'idea di portarsi rimorsi e rimpianti nella tomba era troppo spaventosa – e così si convinceva che quella vita serviva ad espiare le colpe (e a sanare gli errori) della precedente; così come nella successiva avrebbe dovuto provvedere agli sbagli compiuti in quella attuale.
    Si sentiva profondamente in colpa per il (non proprio) se stesso che sarebbe arrivato, almeno quanto si sentiva deluso da quello che era stato: ma allo stesso tempo sapeva che il lavoro di merda lo stava facendo lui, che l'Arturo che fu aveva come unica colpa quella di essersi reincarnato in lui.
    Sì, stava facendo proprio un lavoro di merda.
    Incapace di accettarsi per come era, per chi era, aveva fatto affidamento su una maschera che ora iniziava pian piano a sgretolarsi e lui, cocciuto e terrorizzato dall'idea di una vita fatta di onestà, tentava con tutte le sue forze di tenerla insieme, di rincollare pezzi che non combaciavano più.
    Un puzzle che si delineava via via, e che confondeva lo spagnolo più di chiunque altro.
    C'era l'Arturo che aveva dimostrato di essere per anni – e poi c'era l'Arturo che era veramente, e che stava pian piano venendo a galla, sfidando ogni legge non scritta e ogni tentativo del serpeverde di tenerlo celato. Razionalmente sapeva di essere nel torto, che la bugia del piaccio più così, e va bene lo stesso serviva solo a calmare il suo animo irrequieto e non convinceva assolutamente nessuno; ma d'altra parte, Arturo era il campione delle menzogne rifilate a se stesso – e la parte peggiore era che ci credeva.
    Sosteneva di farlo per gli altri, ma sotto sotto era lui che non riusciva ad accettarsi.
    Non del tutto.
    Ci stava provando, diceva, ma evidentemente senza riuscirci.
    Forse perché non voleva riuscirci; o forse perché era destinato a rimanere così, sbagliato e pieno di ripensamenti e dubbi.
    E un po' si sentiva davvero così, un reietto, un nessuno, ed era per quello che aveva scelto di nascondersi al Testa di Porco, tra i tanti locali che avrebbe potuto scegliere. Lì nessuno faceva domande, lì a nessuno fregava nulla; lì, Arturo poteva farsi una birra in solitudine e mandare giù almeno un po' dei suoi problemi, fingendo che andasse tutto bene, che fosse leggermente più vicino al suo scopo di quanto non fosse stato nel momento in cui aveva lasciato il dormitorio.
    Lì, lontano da persone che lo conoscevano, poteva ripetersi che prima o poi avrebbe trovato un se stesso che sarebbe andato bene.
    Che gli sarebbe andato bene.
    Il Testa di Porco era il luogo adatto dove perdersi e ritrovarsi – non necessariamente nella maniera in cui si era arrivati. Non stava cercando di rendere romantico un posto come quella topaia, che puzzava di scotch invecchiato e maghi a cui nessuno aveva reso nota la bellissima invenzione dell'acqua corrente e del sapone, figurarsi; ma uno sguardo intorno l'aveva buttato, prima di chinare la testa sul suo blocco da disegno, e aveva notato come un po' tutti, lì dentro, avessero l'aria di star cercando qualcosa. Un bicchiere di buon whiskey, una compagnia momentanea, una via di fuga, una scusa per lasciare fuori i problemi oppure una scusa per spaccare le proprie nocche contro lo zigomo di qualcun altro proprio per affrontare suddetti problemi.
    Per Arturo e le sue tre birre, tuttavia, nulla di quello aveva veramente importanza: in quel momento la sua unica preoccupazione era lasciare per un attimo alle spalle chi fosse – e le paturnie che ciò comportava – e concentrarsi sulla sua arte, un modo come un altro per svagarsi in quel venerdì sera. Non aveva prestato attenzione alla musica, alle grida, agli altri commensali che si avvicinavano al bancone e gli lanciavano occhiate curiose: sapeva di esser fuori luogo, di svettare in quella folla per via (o colpa?) del suo volto giovane e pulito e gli occhi fin troppo sinceri. Ma era la storia della sua vita, poteva non farci caso se voleva.
    E in quel frangente, voleva.
    Non diede troppo peso alla figura che andò ad occupare lo sgabello accanto al suo, limitandosi a sistemare qualche linea di matita appena sbafata; sentiva lo sguardo del nuovo arrivato su di sé, ma ogni volta che aveva alzato lo sguardo, incuriosito, aveva incontrato solo il profilo di un uomo impegnato a battibeccare con il barista della locanda.
    Strange forte - l'uomo, non i battibecchi. Quelli, Arturo, li trovava persino divertenti.
    Arricciò il naso in un'espressione appena disgustata, quel cencio non doveva essere così pulito, non avrebbe voluto finisse sulla sua faccia. All'uomo, poi, rivolse solo una scrollata di spalle. «Forse.» Quasi certamente, ma a chi importava? Nessuno gli aveva chiesto un documento e, comunque, era maggiorenne. «Mi piace la birra che hanno qui.» Una bugia bella e buona, ma l'uomo cosa poteva saperne? Poteva benissimo star dicendo la verità – avrebbe avuto poco senso (e sarebbe stata una scelta discutibile) ma poteva essere vero. Rivolse un sorriso disteso a quello scambio di battute tra i due sconosciuti, un'aria rilassata che poco gli apparteneva e per la quale doveva ringraziare le birre che a quanto pareva, gli piacevano tanto. Birra che, in quel momento, si materializzava nuovamente di fronte a lui, allungata dall'uomo al suo fianco.
    «Grazie...?» Incerto su chi dei due ringraziare per quel boccale, evitò di guardare l'uno e l'altro, domandandosi se avrebbe finito col doverla pagare lui stesso – ma ritenendolo poi un problema per l'Arturo del futuro. Incoraggiato dall'informalità con cui l'uomo si era rivolto a lui, accennò un sorriso portando il bicchiere alle labbra, un timido cincin tra sconosciuti; eppure, non riuscì a fare a meno di registrare una sensazione particolare all'altezza dello stomaco, e allo stesso tempo un prurito sulla pelle che domandava la sua attenzione – una sensazione che non sapeva spiegare, o riconoscere, e per la quale incolpò le tre birre di troppo.
    Non che ebbe il tempo necessario per registrarla davvero, comunque: il commento dell'uomo lo portò infatti a distogliere lo sguardo, e ad arrossire violentemente. «N-nooo! Lui è un mio amico!» Chiuse il blocco con un gesto secco, una risata nervosa affogata nell'ennesimo sorso di birra. «Cioè, è un compagno di scuola. Non un amico amico. Cioè, un amico e basta!» Non sapeva proprio come essere discreto - o sciolto. Fece un respiro profondo e ci riprovò. «Grazie preso dal panico, aveva fatto il maleducato glissando involontariamente quel complimento, «ma no, non è il mio ragazzo. È un compagno di scuola e si è offerto per fare da modello.» Era quasi la verità: Arturo doveva prendere dimestichezza con le forme del corpo umano, maschile e femminile, per rendere i suoi disegni un po' più anatomicamente accurati, e Julian era indubbiamente il giocatore che si poteva beccare più facilmente a petto nudo. Fine della storia. Lo sguardo di Arturo non aveva mai indugiato troppo a lungo, comunque.
    «E non ho un ragazzo.» Per qualche motivo si sentì in dovere di aggiungere anche quella piccola postilla, a voce più bassa, mentre tornava a sorseggiare la birra.
    Non ce l'aveva (ancora). Ma l'avrebbe voluto.
    E la certezza di quel pensiero lo terrorizzava sempre un po' più del dovuto.
    Lo sguardo si perse momentaneamente nel liquido ambrato, prima che Arturo decidesse che no! Era fuggito dal dormitorio proprio per evitare quel genere di pensieri, e svagarsi! Tirò quindi gli angoli della bocca in un sorriso, e con un cenno del capo tornò a rivolgersi all'uomo. «Grazie per la birra... ehm..» si rese conto di non saper come continuare, non avendo un nome con cui rivolgersi a lui - e mica poteva apostrofarlo amico, no? Il barista lo aveva chiamato Al, ma gli sembrava fin troppo confidenziale. Così lasciò perdere limitandosi ad un «grazie.» e via, rigirandosi l'ultima birra tra le mani. Sì, ultima: non voleva rischiare di rientrare al castello gattonando.
     
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    Gli dispiaceva per Arturo.
    Non era compassione, né tantomeno pietà, quella che bruciava dietro lo sterno del Crane e negli occhi verdi che, quando il più giovane non era attento, carezzavano il suo profilo con discrezione e delicatezza: era senso di colpa, e non aveva avuto bisogno di starci a pensare troppo prima di riuscire a comprendere fosse quello il motivo del proprio cruccio. Aveva imparato a conviverci con gli anni - ad accettarlo con serenità come un qualcosa che non potesse cambiare, ad avere il coraggio di modificarlo quando ce n'era la possibilità; checchè se ne dicesse, qualcosa degli incontri agli alcolisti anonimi gli era rimasto - a riconoscerlo spontaneamente e con immensa facilità.
    Il problema era che, in quella specifica occasione, non era in grado né di accoglierlo, né tantomeno di tentare di correggerlo in alcun modo. Razionalmente, sapeva che non ci fosse nulla che dipendesse da lui - dalle azioni, dalle scelte, dagli sbagli di quel Aloysius seduto al bancone della Testa di Porco.
    Quel rammarico era lo stesso provato con Maeve, quando appostati dietro ad una siepe osservavano (o spiavano, a seconda di chi raccontava la storia) Jekyll ed Hyde; lo stesso che lo aveva attanagliato, seduto sulla poltrona di una stanza del reparto maternità francese, quando Amalie aveva raccontato ai suoi genitori la verità. Qualcosa di ineluttabile, per il quale non c'era un rimedio se non il promettersi di essere un padre migliore.
    Eppure era lì, e non riusciva ad ignorarlo. O a convincersi che non potesse essere in alcun modo colpa sua.
    Un minimo di torto doveva averlo, se l'Hendrickson si trovava in un pub simile in totale solitudine - ce n'erano di migliori in cui stare con l'unica compagnia di se stesso.
    Poteva essere stato un suo errore quello che aveva spinto Turo a trascinarsi dietro una visibile ansia sociale, anche se maldestramente celata dietro una patina di ebbrezza.
    In un futuro non così lontano, sarebbe stata una sua colpa a mandarlo indietro fino a quei giorni, dopo averlo costretto a diventare adulto prima del necessario.
    E, chissà, forse era stato per qualcosa che aveva detto o fatto in quel fatidico 2043 (probabilmente qualcosa di molto grave: forse lo picchiava? O magari Maeve lo picchiava e lui riprendeva? Gli altri figli lo bullizzavano e lui gli diceva che non era niente? Flow aveva fatto finta di essere lui sotto un suggerimento del padre e lo aveva fatto bocciare?) se provava quell'assurdo senso di dispiacere nel sentirlo dire che gli piacesse la birra di quel posto. «Povero ragazzo, che cosa ti hanno fatto...» lecito domandarselo, in un filo di voce preoccupato rivolto al giovane. «voglio dire, non c'è niente di male,» e invece sì, c'era molto di male in quello che aveva osato dire. «ma dovresti... sperimentare altro, ecco.»
    Sollevò il bicchiere, facendolo cozzare contro quello dell'altro nel, forse, unico momento nel quale quella sera lo avrebbe visto tranquillo e disinvolto - e se lo godette, Dio, se se lo godette! Fu effimero, certo, ma in quel preciso istante ebbe tutto ciò di cui non sapeva di avere bisogno (l'unica cosa a mancare in quel quadretto era Flow, ma prima o poi avrebbe beccato anche l'altro suo figlio ad ubriacarsi da qualche parte - buon sangue non mente mai).
    Il sorriso sulle labbra del lumocineta faticò a conformarsi alla situazione quando Arturo iniziò ad andare nel panico, restando per qualche secondo fisso sul fermo immagine del profilo rilassato e felice di suo figlio. Solo dopo un po' comprese che non era il caso di rimanere così, ed iniziò a sventolare la mano tra di loro, come a volergli dire di lasciar stare. «Lascia stare,» appunto. «non volevo metterti in difficoltà!» accennò una risata, per poi soppesare il bicchiere di birra ed avvicinarselo alle labbra.
    «E non ho un ragazzo.» qualcosa nel tono con cui gli giunse quella frase lo costrinse a cercare lo sguardo chiaro del mago. Avrebbe potuto ignorarlo, senza dubbio; eppure, non fu così - baci. «Ma qualcuno c'è, mh.» non era davvero una domanda, non si aspettava rispondesse ad un estraneo.
    Si schiarì la gola, e dopo una sorsata decise di delucidarlo: «Aloysius - ma lo sbagliano tutti,» eh, Viola? «quindi Al va benissimo.» posò il bicchiere sul bancone, scivolando sullo sgabello per girarsi e poter essere più faccia a faccia con il suo interlocutore. «Tu giochi ad Hogwarts, vero? Ho visto qualche partita, ogni tanto.» tutte. Le aveva viste tutte: lo stalking non era un'arte che prevedeva pause. «Hen... Hendrickson, giusto?» falso come una Simona Ventura: sapeva vita, morte e miracoli di Arturo, ma aveva già raggiunto alti livelli di inquietudine quella sera - vedeva fin troppa gente passare lì vicino e scambiarlo per un pedofilo.
    E non poteva passare per un veggente; non sapeva nemmeno cosa fosse, il terzo occhio.
     
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    has been crushing me;
    I've been worried all my life,
    a nervous wreck most of the time.
    Era difficile per lui ignorare lo sguardo dell'uomo e fingere di non sentirsi sotto esame, ma era una sensazione a cui Arturo era, purtroppo, abituato perciò lasciò correre e rimase a fissare la birra come se fosse la cosa più interessante del piante; e se le sue gote assunsero un lieve rossore al pensiero di essere giudicato da uno sconosciuto, sperò di poterlo giustificare con l'atmosfera quasi tropicale del Testa di porco, in netto contrasto col vento gelido che sferzava su Hogsmeade quella sera.
    Alzò lo sguardo solo quando sentì il commento appena sussurrato dell'altro, e gli scappò una risata nervosa. Faceva pena persino agli sconosciuti, ma che razza di vita era quella?
    «ma dovresti... sperimentare altro, ecco.» Lo sguardo azzurro indugiò sul volto del maggiore per qualche secondo, poi Arturo fece spallucce e scosse la testa. «Sono un tipo abitudinario. Non mi piacciono le novità.» Il ché era in parte verissimo: più che non piacergli, le cose nuove o diverse lo terrorizzavano: stava già affrontando un sacco di Cambiamenti Importanti in quel preciso momento della sua vita, voleva che almeno qualcosa rimanesse familiare -- sì, tipo la birra annacquata del Testa di porco, perché no. Non era di certo la sua amata Guinness, ma poteva accontentarsi.
    Quella conversazione, comunque, non stava andando affatto alla grande, e la colpa era quasi esclusivamente la sua per essere così disagiato da non riuscire a mettere più di due parole in fila senza finire col balbettare cose a caso o lasciare che i vocaboli incespicassero sulla lingua e scivolassero fuori in maniera imbarazzante e sbagliata: parlava due lingue e sapeva mettersi in ridicolo con entrambe, era davvero qualcosa. E infatti: «non volevo metterti in difficoltà!» lui accennò una risata, ma Turo si limitò a stirare le labbra in un sorriso forzato perché oh no, il problema non era affatto Al! Il problema era Arturo stesso: lui era sempre prontissimo a mettersi in difficoltà da solo, un vero campione!! Medaglia olimpica!!
    «No.. figurati... eh.» sperava che in quel modo potessero lasciar perdere l'argomento ma no. Non ancora. «Ma qualcuno c'è, mh.» Il serpeverde rimase a lungo in silenzio, riflettendo che no, tecnicamente, non c'era nessuno; non ancora, comunque. Ma avrebbe voluto. Doveva dirlo all'uomo? Doveva rispondere?!? Oddio, si aspettava lo facesse?!!?! Si stava comportando da maleducato, ignorando la (non) domanda?? Non riuscì a trattenersi e puntò lo sguardo, onesto e impacciato, in quello dell'altro: «cosa ti aspetti che ti dica send help» ecco cosa avrebbe voluto rispondere. Non era davvero (ma davvero davvero) bravo a portare avanti chiacchierate leggere e senza impegno, seduto al bancone di un pub, sorseggiando birra. Era chiaro come il sole che quello non fosse il suo posto.
    E Arturo sospettava che Al lo avesse capito. (Ma dai? Solo un idiota non l'avrebbe fatto.)
    «Beh... allora grazie ancora, Al.» Un nome che prima di quella sera non aveva mai sentito, appartenente ad un uomo che, ancora una volta, prima di quella sera non aveva mai visto; eppure, scivolò sulla sua lingua con familiarità, portando con sé un retrogusto amaro che sapeva di sensi di colpa e rimpianti. Strange forte, come direbbe il saggio.
    Si sforzò di eliminare quella sensazione dalla sua testa, e tirò le labbra in un sorriso un po' più (convinto e) convincente, mentre l'uomo scivolava sullo sgabello per osservarlo meglio. Il minore lo imitò solo in parte, ruotando il busto e poggiando un gomito sul bancone di legno. «Io- Io, sì. Gioco. Ad Hogwarts.» non serviva specificare, ma va beh, andiamo avanti. «Oh.. oh.» dunque l'aveva visto fallire giocare. Ottimo. Grandioso. «E... sei un tifoso di Quidditch? Co- come mai eri al castello?» Voleva chiedere se fosse amico o parente di qualche professore, ma gli sembrava una cosa troppo personale da chiedere?? Aiuto, come si facevano due chiacchiere veloci dimostrandosi interessato ma non eccessivamente ficcanaso? Dov'erano i confini tra “okay questo posso chiederlo è una cosa scialla” e il “questo no è troppo personale, no bueno”? Arturo non li vedeva, non li conosceva. Voleva ricambiare la curiosità dell'altro (che, infondo, iniziava a condividere) ma non sapeva come! Aveva paura di chiedere qualcosa di troppo personale e fare una brutta figura.
    «Oh.» A proposito di brutte figure, non si era ancora presentato. «Sì, Hendrickson. Arturo Hendrickson.» Si schiaffò una mano sulla faccia, per il modo stupido in cui l'aveva detto: un James Bond dei poveri, ecco cos'era. Licenza di mettersi in ridicolo. «Piacere, Al. Come-» si interruppe ricordandosi la prima regola del Testa di Porco: non si chiede come mai ci si trova al testa di porco. Quindi provò ad aggiustare il tirò.
    E fallì. «-butta?» che cringissimo. Si stampò un altro facepalm, stavolta mentale, e si nascose dietro il boccale di birra. «Non sono sempre così...» a volte è anche peggio.
     
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