the glacial warmth of a fireplace

harper ft. hans | @ different lodge

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    «sai cosa ci vorrebbe adesso? un bel fuoco!» harper non alzò neppure lo sguardo dalla pagina del libro che stava fissando da una mezz'ora buona, senza riuscirne a legger tre parole di seguito con vera attenzione, ma non per questo intenzionata ad arrendersi: sperava che entro cena sarebbe riuscita almeno a leggere due o tre pagine, e guadagnarsi qualche minuto di sollievo, a riparo dai suoi pensieri. «eh già. la temperatura si è proprio abbassata» due frasi, otto parole: per gli standard della hale, aveva già parlato un sacco. Per di più ad alta voce, rispondendo ad una frase non direttamente rivolta a lei - lei e la jackson potevano essere anche le uniche in quel momento nel salotto di different lodge, ma la fotocineta non aveva comunque detto "harper, sai cosa ci vorrebbe adesso? un bel fuoco!". Aveva dato una risposta.. giusta, no? Quindi poteva rimanere a fissare il suo libro senza dover aggiungere altro, vero??
    Non ricordava precisamente il momento in cui era successo, o forse uno scatto netto non c'era mai stato ed il suo era più stato un processo graduale, ma harper hale non era sempre stata così incapace, di relazionarsi con le persone. C'era stato un tempo, anni prima, in cui per lei fare amicizia era stato facile come respirare, un sorriso sempre sulle labbra e una voglia matta di chiacchierar con tutti, a causa della quale sua madre le aveva sempre richiamata, ricordandole che non è da signorine per bene, parlare con chi non ti è stato presentato ufficialmente, ma che harper non aveva mai frenato.
    Poi Mac era andato via.
    Harper aveva incendiato il salotto di casa loro.
    Il giorno successivo la sua famiglia l'aveva mandata via, rinchiudendola in quello che nel giro di poco tempo si era dimostrato il peggior posto al mondo dove vivere, per una come lei.
    E da quel posto harper ne era uscita illesa sì, ma solo come ombra sbiadita della ragazza che era stata un tempo. Ed aveva avuto bisogno di tempo anche solo per imparare di nuovo a sorridere.
    Quindi no, per quanto stesse provando giorno dopo giorno a migliorare, non era ancora brava a relazionarsi con persone che fossero al di fuori di quella ristrettissima cerchia con cui la hale riusciva a sentirsi davvero sè stessa. E per questo motivo, anche se sapeva quanto avesse bisogno di far pratica, tentava comunque di ridurre al minimo le sue interazioni sociali: da ogni conversazione ne usciva terribilmente spossata, per tutte le energie usate per cercar di trovare la risposta giusta, capire cosa le stavano dicendo, valutare se dover aggiungere qualcosa o meno, una tortura! Ad esempio, sentendo ancora lo sguardo della bionda su di lei, quel pomeriggio harper capì di aver sbagliato qualcosa, e dunque spostò l’attenzione dal libro per portarla sulla jackson. «il fuoco!!» ?? doveva.. capire?? era una sorta di messaggio in codice??? harper non era un’osservatrice acuta, ma alle cose basic - come il fatto che callie jackson vivesse in un mondo tutto suo fatto di unicorni e macchine della polizia - ci arrivava facilmente, quindi in quel momento era parecchio confusa perché sospettava che la ragazza volesse dirle qualcosa nel suo linguaggio che, ahimè, la rossa proprio non comprendeva: faceva già fatica a decifrare il modo in cui parlavano i giovani di cent’anni più vecchi di lei, figuriamoci duecento!!! «il… fuoco» c’era esitazione nella sua voce, e si sentiva terribile a non riuscir a rispondere con lo stesso entusiasmo che vedeva illuminare lo sguardo della jackson. Voleva chiaramente qualcosa da lei ma.. cosa?? «si, il fuoco!!!!» capendo che harper non stava capendo, la ragazza iniziò a saltellare sul posto - niente fuori dall’ordinario - e puntarle il camino «tu sai accenderlo, no? DACCI IL FUOCO!1!» ah beh, era molto più semplice del previsto. Prima che avesse il tempo di rispondere però, callie sobbalzò sul posto e, dopo un «ma è tardISSIMOOO/OO» arrivando a toccare una nota talmente acuta da poter esser tranquillamente classificata come ultrasuono, le lanciò un bacino e «sCUSA CIAO SONO IN RITARDO RICORDA IL FUOCOOO» si precipitò fuori dalla porta.
    Il fuoco
    Avrebbe dovuto esser facile, no? Le sarebbe bastato metter un po’ di legna nel camino, dar vita ad una piccola fiamma sul palmo della propria mano e poi farla fluttuare fino a toccar la legna, alimentandola poco a poco per poi lasciarla libera di bruciar da sola. Nella teoria era un gesto semplice, veloce, un compito che, per una pirocineta, non era altro che un’azione naturale come allacciarsi le scarpe. Fino a qualche giorno prima, per harper farlo non sarebbe stato un problema: si era esercitata per anni, tanto da arrivare ad illudersi di non rischiar più di perdere il controllo.
    Ma si era sbagliata.
    Perché il passato aveva inaspettatamente fatto ritorno nella sua vita, ed harper era tornata a sentirsi la stessa ragazzina che, appena arrivata a bodie, non aveva la minima idea di cosa fare per evitar di dar fuoco a tutto ciò che toccava.
    La ragazzina per cui quel potere era sempre stato una condanna e non un dono, un fardello da sopportare per sopravvivere e non un qualcosa che fosse disposta a conoscere bene così da imparare a conviverci.
    Avrebbe potuto continuare a far ciò che stava facendo (aka: nulla)(provate voi ad avere una conversazione con vostra madre morta cent’anni prima attraverso una medium e poi vediamo se riuscite a concentrarvi!!1!) e far finta di non aver ascoltato le parole di callie, magari giustificandoglielo con un “scusami, mi sono completamente dimenticata!” o scappando nella propria stanza e non uscendone più. Ma.. non poteva rimanere rinchiusa per sempre, no? l’aveva già fatto, per praticamente tutto l’anno precedente, e si era ripromessa di tentare di partecipare di più.
    Legger un libro nello spazio comune e non nel proprio letto era un primo passo, rispondere ad una richiesta posta con gentilezza da una sua concasata era un altro. «è solo un fuoco» titubante si alzò dal divanetto, avvicinandosi al camino, e dopo averci inserito qualche ciocco di legno, si accovacciò lì davanti e fece un profondo respiro «è solo un fuoco» ne aveva accesi tanti, negli ultimi tempi, e tutti controllati: persino in uno dei suoi ultimi incubi, fatto di strani mostri, sangue, barrow skylinski confuso? e funghi, tantissimi funghi, ricordava di esser riuscita ad usare il proprio potere in maniera discreta, senza.. dar fuoco a nessuno, per fare un esempio. Eppure.. ci provò una, e due, e tre, ma nulla: non riuscì nemmeno ad evocare una fiamma più piccola di quella di un accendino. Aveva paura, una paura enorme, che da una semplice fiammella sarebbe divampato un vero e proprio incendio, e non voleva certo avere sulla coscienza l'aver mandato in fiamme tutti i vestiti, oggetti ed effetti personali dei suoi compagni special.
    Quando si fermava a rifletterci su, era quasi ironica, la paura che aveva del fuoco, il temere le fiamme quando il suo corpo non avrebbe comunque potuto bruciarsi. Però non era il dolore fisico, ciò che la spaventava, ma tutto ciò che avrebbe potuto causare utilizzando quel potere in maniera sbagliata.
    Ci riprovò ancora, per un'ultima volta, prima di lasciarsi cadere a terra rassegnata, un «ti odio!» urlato a tutti, e nessuno in particolare: ce l'aveva con il suo potere, con se stessa, con quei tizzoni che non sembravano aver alcuna intenzione di prender fuoco, e soprattutto con sua madre che l'aveva lasciata andar via anni prima, e dal nulla decideva di ripresentarsi nella sua vita con più di cent'anni di ritardo.
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    Tecnica dell'opossum morto la chiamava Jayson e, onestamente? Era la miglior tecnica del mondo. L'unica davvero efficace quando volevi esser lasciato in pace; l'unica che davvero funzionasse. Funzionava ancora meglio, poi, quando lo prendevi alla lettera e entravi davvero in una sorta di coma-post-abbuffata-di-Natale, che come il più famoso cugino pisolino-pomeridiano, poteva durare mezz'ora come sei ore: insomma, chiudevi gli occhi ma non sapevi quando li avresti riaperti. Dopo poco? Un giorno dopo? Cento anni? Chissa. Con l'opossum morto funzionava così, per Hans, specialmente quando, appunto, lo prendeva troppo sul serio e da “non disturbatemi sto dormendo per finta” diventava “fate come volete, non vi sento, sto dormendo davvero”. La differenza era una linea davvero, davvero sottile, per lui.
    E così, anche quel pomeriggio, si era ritrovato ad aprire gli occhi, spaesato e confuso, al buio, e senza Pentacolo che di solito gli alitava respiri ritmati sulla faccia, un pessimo buongiorno, in grado di farlo borbottare già di prima mattina, ma una mancanza che sentiva, in quel caso.
    Gli occhi ci misero qualche secondo più del necessario a registrare i contorni, e il cervello ancor di più a capire dove fosse; una volta appurato che quello fosse Different Lodge – e quello su cui si era appisolato, il letto di Bri – riabbassò la faccia sul cuscino e sospirò pesantemente. Ricordava chiaramente di aver chiuso gli occhi per adottare la famosissima tecnica, mentre le chiacchiere di Bri, Tai e Livy procedevano in sottofondo: stavano parlando – ancora? sempre. - di Twitter e commentavano tra loro cose che il Belby proprio non capiva. In quel momento non c'era nemmeno la capra con cui divertirsi – rimanendo in silenzio, ovvio – perciò pur di non farsi trascinare in una conversazione a cui non avrebbe saputo dar contenuti aggiuntivi, si era finto (morto) addormentato. Sapeva benissimo che nessuno ci credeva più (li aveva fregati due o tre volte, all'inizio, poi avevano capito la solfa e avevano cominciato ad importunarlo ugualmente) ma avere gli occhi chiusi gli faceva credere di potersi isolare pur rimanendo in compagnia. Ci stava provando a lavorare sulle sue poverissime social skills, ci stava provando davvero!! Ma gli toglievano davvero troppe energie e, il più delle volte, preferiva esserci fisicamente e basta, senza dover essere costretto a contribuire davvero a parole. Tai ci provava a trascinarlo nelle chiacchiere, ora facendogli vedere un meme, ora dandogli un calcio alla gamba per farlo (vivere) tornare tra loro; idem Bri che continuava a mostrargli risultati di test di cui Hans, nove volte su dieci, non comprendeva il senso. Sua sorella El amava fare i test delle personalità trovati sul Cioè Magiko, e più di una volta lui si era prestato al gioco, lasciando che lei lo bombardasse di domande al fine di scoprire quale fosse il membro dei One Direction con cui avrebbe avuto più feeling (Zayn Malik) o quale serie tv anni 2000 fosse (Dawson's Creek) o quale stagione meglio lo rispecchiasse (inverno, non aveva bisogno di un test per sapere questo) e via dicendo. Ma aveva smesso di trovare divertenti quelle cose già da un pezzo. Le chiacchiere fatte tanto per, il passare il tempo ad oziare nei pomeriggi invernali quando non hai lezioni a cui pensare, o nulla da dover fare... erano concetti che ormai, per Hans, risultavano estranei. Se non aveva nulla da fare, beh, non faceva nulla. Più semplice di così...?
    Eppure, da quando passava il tempo con i bimbi sperduti, anche il non fare nulla era diventato poco piacevole. O meglio: fare nulla da solo. Poteva comunque farlo, ma fingendo di passare tempo con gli amici con riluttanza. Perché era fatto così, lui, e mai l'avrebbe ammesso, ma ascoltare la risata cristallina di Livy, o la voce di Taichi leggere male la stessa parola per sei volte prima che Bri, impietosita, lo correggesse... stava diventando la sua nuova quotidianità. Ci si poteva quasi abituare. E usava la tecnica dell'opossum anche per nascondere quei sorrisi, mai troppo palesi, che di tanto in tanto i compagni gli cacciavano fuori con le loro battute sceme. Però, appunto, quello era uno di quei giorni in cui aveva preso la cosa un po' troppo sul serio e, alla fine, si era addormentato davero. Gli succedeva spesso quando decideva di non prendere nulla – più per paura di esser fulminato, quite literally, da Bri, che altro.
    Al suo risveglio, gli amici non c'erano più e lui era solo. Il silenzio di Different Lodge era quasi piacevole, tipico dei pomeriggi di ozio in cui tutti preferivano godersi un momento davanti al fuoco o una passeggiata all'aria aperta o, chi come lui, preferiva il pisolino rigenerante prima di affrontare la notte. Già, la notte. Hans non era di certo abituato a notti – o sonni – tranquilli, anzi i riposi come quello appena fatto erano eccezionalmente rari per lui, in quanto il più delle volte si trovava a dover avere a che fare con terribili incubi ricorrenti; terribili non per ciò che gli mostravano, ma per ciò che gli lasciavano dentro al risveglio. Incubi con cui lui, pian piano, era sceso a patti, certo, ma ai quali non si era mai abituato. Non era dunque una sorpresa se, incapace di dormire la notte, tendeva a crollare ovunque si poggiasse anche solo per dieci minuti: meglio quei sonnellini sporadici ma liberi da incubi, piuttosto che un sonno di otto ore interrotto dalle immagini di fiamme che divoravano casa sua, del sorriso di sua mamma, di quello di El, dello sguardo pieno di disapprovazione di suo padre. Di facce che aveva perso ma non sapeva di aver mai avuto accanto a sé. E nell'ultimo periodo, erano specialmente quelle a tormentarlo. A volte erano solo due, alle volte erano cinque, o forse sei, la stanza era sempre troppo buia per vedere chiaramente, ma ogni volta il sogno finiva allo stesso modo e lui si svegliava di soprassalto, con la testa che minacciava di scoppiare dal dolore, e l'impellente bisogno di accertarsi che Twat Cömmstaj avesse entrambe le braccia – perché altrimenti come facevano ad arrostire gli Arrosticini? - ma, soprattutto, che il capitano Tassorosso e il battitore Corvonero stessero bene. Lui, accertarsi del loro benessere, quando non ne conosceva neppure i nomi?
    Joni e Mac. Li conosceva i loro nomi.
    Perché li conosceva, i loro nomi?
    Strinse gli occhi e affondò la faccia ancora più nel cuscino, il naso schiacciato nella federa e entrambe le mani a scompigliare i capelli che, se già non vertevano in condizioni umanamente decenti normalmente, appena sveglio erano anche peggio. Non si spiegava quelle aggiunte ai suoi già bellissimi incubi, né perché, di tutta Hogwarts, fossero proprio quei due compagni a preoccuparlo così. La cosa bella dei suoi sogni però, se davvero c'era una cosa bella dei suoi sogni, era che tendeva a dimenticarli abbastanza in fretta, durante il corso della giornata, spesso aiutato dall'ultima pasticca mandata giù, perciò le rare volte in cui aveva incontrato i giocatori, era semplicemente andato oltre, senza guardarli davvero. Rude? No, semplicemente poco attento all'ambiente circostante, come al solito. Era già tanto che si fosse legato ai bimbi sperduti in quel modo; non si poteva pretendere, da lui, che diventasse improvvisamente amico di qualcuno che vedeva solo in sogno. No, correzione: non li vedeva nemmeno. Si svegliava solo con quella strana sensazione di dover controllare che stessero bene, che fossero sani e salvi, che fossero vivi.
    «Ho sete.» Si alzò di scatto, assumendo con un gesto svelto la posizione del cobra (non chiedetegli come conoscesse lo yoga), già dimentico dei pensieri di poco prima. Se la testa di Hans funzionava in maniera particolare da fatto, funzionava ancora peggio quando era sobrio contro la sua volontà. Abbandonò il letto della meteorologa e si diresse verso la cucina del Lodge, stropicciandosi gli occhi ancora assonnati. Pisolino rigenerante, sì, ma non ristoratore; avrebbe dato tutti i galeoni di suo zio pur di esser messo k.o. come si deve e dormire, finalmente, il primo vero sonno fatto bene da.. settimane? Mesi? Non ricordava l'ultima volta che aveva chiuso gli occhi stanco e si era risvegliato riposato. E, sul filo di quei pensieri, arrivò fino alla sala comune che gli Special condividevano, quella sorta di salone con poltrone, divani, tavolini e il camino. Ai piedi del quale, attualmente, se ne stava una figura accovacciata che tentava – forse inutilmente, forse, invece, senza provarci davvero – di accendere un fuoco.
    Con la spalla appoggiata contro la parete, Hans rimase a godersi la scena per qualche secondo, mentre la rossa ripeteva, probabilmente a se stessa, «è solo un fuoco». Strinse le labbra involontariamente, come faceva sempre quando sentiva quelle quattro paroline magiche. Non era mai solo un fuoco. Per quelli come lui – quelli come loro, avrebbe realizzato dopo un po', trovandosi di fronte la pirocineta – non era mai solo un fuoco.
    Sempre in silenzio, spinto da una forza invisibile o forse proprio da ciò che aveva sentito, le si avvicinò e, dal nulla, le allungò l'accendino che aveva sempre in tasca. Sì, Hans Belby, Piromane Extraordinaire, girava con un fottuto accendino in tasca perché il pensiero di accendersi una stupida canna con le proprie abilità lo mandava in tilt.
    «Tieni.» Arrivare alle spalle della gente non era mai una cosa da fare, a meno che non fossi un ninja o un killer, o così gli aveva detto Bri, ma lui quel vizio di apparire di punto in bianco non riusciva a toglierselo. E lo fece anche con Harper, non sapendo che forse, quel suo gesto, l'avrebbe spaventata a morte. O forse no, perché l'aveva sentito arrivare. Insomma, delle conseguenze, a lui, non interessava mai molto. Mosse appena la mano verso la ragazza, un invito silenzioso a prendere l'accendino che le offriva. La conosceva, certo che la conosceva, vivevano insieme; poteva pure conoscere letteralmente cinque nomi in tutta Hogwarts, ma dopo le ultime lezioni aveva finalmente imparato a riconoscere qualche viso in più. E, in alcuni casi legati agli special, persino le loro abilita! Progressissimi!!
    Alla fine, spazientito, perché era pur sempre sobrio e non era abituato a trattare con le persone da fatto, figuriamoci in pieno possesso delle sue facoltà mentali (ma quali? Le aveva davvero?) si inchinò accanto alla Hale e lasciò cadere l'accendino ai suoi piedi, tra loro. Poteva prenderlo o lasciarlo lì e continuare in quello che, ora era chiaro ad Hans, fosse il suo intento: accendere il fuoco utilizzando il suo dono.
    Un altro pirocineta difettoso? Interessante. Chissà se era una prerogativa del saper dare fuoco a qualsiasi cosa, e se quindi valeva per tutti, o se erano loro due quelli sbagliati. Studiò il viso della compagna a lungo, forse più del socialmente accettabile – Nah glielo diceva sempre che fissare la gente era da maleducati! - ma qualcosa nell'espressione triste di Harper gli rendeva impossibile distaccare lo sguardo. Era un'espressione che conosceva bene, perché l'aveva vista riflessa nello specchio troppe volte. Non le chiese se stesse bene – era una domanda stupida, odiava quando la rivolgevano a lui e detestava, a sua volta, doverlo chiedere – poiché era chiaro che la risposta fosse no; non voleva costringere Harper a mentire dicendo sì o, ancor peggio, rispondere onestamente se non era ciò che voleva. C'era qualcosa che la turbava, era chiaro persino ad Hans – che, contrariamente a quanto dimostrava, era piuttosto sveglio – e la cosa sembrava ripercuotersi sul suo dono. Beh, been there, done that, cara Harper. Chi meglio del piromane lì presente poteva capirti?
    Distolse, infine, lo sguardo chiaro dalla Hale e lo portò sui tizzoni spenti abbandonati nel camino. Da quanto tempo era che non provava ad accendere un fuoco senza l'ausilio di cerini, accendini, e simili? Troppo, gli suggerì una vocina dentro di sé, ma la mise a tacere prima di sentire il resto; ciò che avrebbe detto lo conosceva già. Aveva ancora difficoltà ad avvicinarsi a camini accesi, il Belby, figurarsi se pensava a come accenderne uno volontariamente! Si morse un labbro, mettendosi finalmente comodo, seduto accanto ad Harper. Si portò le ginocchia al petto e le strinse con entrambe le braccia, poggiando poi il mento su quest'ultime. «Da qualche parte all'interno del castello, il professor Henderson starà avendo un attacco di cuore.» Non era bravo a fare small talk, questo era risaputo, perciò diede subito per scontato che Harper non comprendesse la sottile ironia nelle sue parole, pronunciate con tono piatto e senza inflessioni: per quel che poteva saperne la rossa, Hans era serissimo e conoscere perfettamente le condizioni di salute del prof. Ma non era così, perciò aggiunse: «se ci vedesse così, ci spronerebbe a provarci!!» Tentò, debolmente, di dare un poco di colore alle ultime parole, imitando il professore, ma gli riuscì debole e forzato. Erano più parole di quante ne avesse dette negli ultimi tre giorni, probabilmente, ma si sentì comunque di continuare. «Io non voglio provarci.» A quel punto, stava parlando più con se stesso che con Harper, ma si ricordò della sua presenza e tornò quindi a guardarla, voltandosi appena in modo che ora fosse la guancia destra ad esser poggiata sulle braccia. «Lo odio anche io.» Onesto, come lo era con pochi. I bimbi sperduti avevano iniziato a capire che non ci andasse particolarmente d'accordo, col fuoco, ma per gli altri forse era solo uno studente troppo pigro che non aveva voglia di impegnarsi davvero. Sbagliato. Ci avrebbe provato, forse, se avesse avuto letteralmente qualsiasi altro dono. Arricciò le labbra, pensieroso, domandandosi se davvero, avendone la possibilità, avrebbe scambiato il suo potere con un altro a caso, accettando qualsiasi cosa il fato gli riservasse, e la risposta, prevedibilmente, fu .
    Poi una domanda, a brucio e completamente estranea alla conversazione, tanto da fargli strabuzzare gli occhi nel registrare la propria voce pronunciare quelle parole. Doveva proprio imparare a pensare prima di parlare. O continuare a non parlare praticamente mai, ecco. «Tuo fratello tutto ok?» Asking for a friend; non era così che si diceva?
    johannes 'hans' belby
    pyromaniackinesis | 16 | #no
     
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    «tieni.» sussultò sul posto, una mano al cuore e probabilmente dieci anni di vita in meno per lo spavento. Era rimasta talmente concentrata sul fuoco, o meglio, sul tentativo di accendere il fuoco, da perdersi del tutto nei propri pensieri e non accorgersi di non esser più da sola. Se solo se ne fosse reso conto prima, sicuramente si sarebbe trattenuta dall'imprecare lì da sola contro il fuoco, con il rischio di apparire per matta: non appena avvertì gli occhi del ragazzo su di sè, harper non potè far a meno di diventare di qualche gradazione più rossa dei capelli che aveva in testa, e maledirsi mentalmente per non essersi rintanata sotto le coperte in stanza. Lei ci stava provando, ma puntualmente i suoi tentativi di essere una persona più socievole andavano in fiamme kinda letteralmente: piuttosto che accendere unicamente i pezzi di tronco nel camino, la hale in quel momento rischiava di far bruciare tutto. Per prevenire il disastro, la ragazza si portò le mani sotto le ginocchia raccolte al petto, nella speranza che stringerle tra le gambe l'avrebbe bloccata da bruciare qualcosa. Come l'accendino di hans, ad esempio: la ragazza si era accorta troppo tardi che glielo stava offrendo, ed era già pronta a scusarsi per non averlo preso subito e spiegargli i motivi per cui in quel preciso istante preferiva non toccar nulla quando.. il ragazzo si sedette accanto a lei, facendo cadere l'oggetto ai suoi piedi e lasciandola stupita. Non che la hale fosse poco abituata ai gesti di gentilezza - in realtà lo era, ma da quando era arrivata a bodie aveva imparato a rivalutare le persone e credere un po' di più nel loro buon cuore (esclusi i bodiotti, quelli bigotti erano kattivissimi e la trattavano come un'appestata solo per il colore dei suoi capelli) - ma trovava davvero?? ma davvero???? molto??? strano???? che qualcuno decidesse di passare del tempo con lei volontariamente. Soprattutto perchè, da quando aveva messo piede in quella scuola, la hale non aveva fatto assolutamente nulla per integrarsi o far amicizia con gli altri studenti, tanto da esser piuttosto certa che la maggior parte di loro non avesse la minima idea di chi fosse. La colpa ovviamente non era imputabile a nessuno se non lei stessa, ed era partita davvero con ogni buon proposito per provare a cambiare le cose ma... la visita inaspettata e per niente gradita da parte di sua madre non era stata affatto d'aiuto. Rimasero così in silenzio per un po', harper persa a spostare lo sguardo dall'accendino ai suoi piedi ai tizzoni ancora spenti davanti a sè, e stranamente l'imbarazzo iniziale provato dalla ragazza svanì. Diventava color bordò in viso per tantissime cose ma, a differenza di molti, la compagnia silenziosa di qualcuno non era per lei fonte di disagio, più il contrario: apprezzava molto più il silenzio a una domanda alla quale sarebbe stato difficile rispondere. Cosa avrebbe potuto rispondere, ad un eventuale "perchè non riesci ad accenderlo?": del resto era il suo potere, quello del fuoco, ed era quasi stupido non riuscire a fare una cosa così banale. Librarsi in volo era una cosa difficile, usare la visione termica richiedeva molta concentrazione e arrivare ad auto-detonarsi era forse impossibile: quelle si che erano azioni per le quali bisognava allenarsi, ed esser in grado di utilizzare il proprio potere al meglio. Ma accendere un semplice fuoco? Non avrebbe dovuto esser così difficile.
    Eppure lo era.
    E la successiva frase del Belby le fece emettere uno strano verso indistinto, un mix tra riso e sbuffo disperato. «spero non ci siano telecamere» sussurrò, trovando finalmente il coraggio di aprir bocca. e lo sperava davvero: non voleva far rimaner male il professor henderson, soprattutto visto il grandissimo sforzo che faceva ogni giorno per aiutarli! E quel non voler deludere era lo stesso motivo per il quale non aveva ancora parlato a run dei recenti problemi che stava affrontando, passi indietro che l'avevano riportata praticamente al livello disastroso a cui si trovava la prima volta che aveva messo piede a bodie, e la crane l'aveva aiutata a superare. E per un attimo fu attraversata dall'istinto di alzarsi e andare a cercare riparo tra le strette quattro mura della sua stanza, a quel «se ci vedesse così, ci spronerebbe a provarci!!», già pronta a trovare una qualche scusa per scappar via quando... «io non voglio provarci.» oh
    Era stato... inaspettato, davvero. Harper sapeva che, come lei, hans aveva quel potere, eppure non aveva mai pensato potesse avere ... problemi ad usarlo, proprio come lei: aveva sempre dato per scontato che tutti sapessero usare le loro doti al meglio, e che lei fosse l'unica ad esser difettosa. Dunque quel «lo odio anche io.» non se lo sarebbe mai aspettato, nè tantomeno che qualcuno che non fosse mac si aprisse con lei con tale.. onestà? E di conseguenza si ritrovò senza avere la minima idea su come rispondere: già detto che preferiva di gran lunga il silenzio? Dopo qualche minuto in più passato a fissare il camino spento, cercando di trovare le parole giuste da usare, alla fine optò per la cosa più semplice «ogni tanto sogno di avere dei guanti simili a.. mh, quella principessa del cartone» l'aveva visto una volta sola, durante una di quelle maratone che erano state ribattezzate le serate "keep up with the 2000's", e la situazione del personaggio in questione le aveva ricordato vagamente la sua «quello con il.. ghiaccio.» pausa «e le due sorelle.» altra pausa «ed il pupazzo di neve» non era una descrizione affatto esaustiva, ma sperava che il ragazzo ci arrivasse comunque?? del resto i giovani di quel millennio erano cresciuti con i film, quindi li conoscevano tutti??? «insomma, mi piacerebbe avere qualcosa per bloccarlo e non doverne avere paura» era... strano, confidare quei sentimenti ad alta voce con qualcuno che non facesse parte della sua famiglia o non fosse la signorina rivera.
    «Tuo fratello tutto ok?» che strano, non sapeva neppure fossero amici!! però c'era da dire che mac, com'era giusto che fosse, aveva fatto amicizia con così tante persone lì a scuola, e non c'era giorno in cui harper non fosse fiera di lui e dei passi da gigante che aveva fatto dal loro arrivo lì a londra «sì! sta bene, credo si stia allenando??» se fosse stata una giornata come le altre, la ragazza sarebbe stata senza dubbio sugli spalti a fargli compagnia da lontano. Ma, dal giorno in cui aveline l'aveva approcciata nel cortile scolastico, harper aveva iniziato a isolarsi un po' persino da lui: suo fratello la conosceva troppo bene per non rendersi conto che qualcosa non andasse, se avessero passato troppo tempo insieme, quindi la ragazza aveva preferito diminuire il tempo in sua compagnia per procrastinare ancora un po' quel discorso.
    Mac era finalmente felice, e harper voleva evitare che gli spiriti del loro passato tornassero a tormentare anche lui, il più a lungo possibile.
    «tu invece?» l'hai formulata male, non si capisce «sei qui» è anche casa sua, harp «credevo fossero tutti fuori» altrimenti non si sarebbe messa ad urlare contro il fuoco, ecco «di solito rimango sempre sola» perchè giustamente tutti preferivano uscire di lì per andare all'aperto a fare a gara di palle di neve, ad esempio, in un pomeriggio soleggiato come quello.
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    Che strano il tempo. Credi sia passato un secondo e invece sono passati sette (mesi) minuti e tu non hai ancora una risposta (a cosa? a tutto nel dubbio, alla vita in generale, ma nello specifico a questa role.) e non sai come scusarti per essere (al mondo, punto.) te stesso.
    Perché, infondo, non vuoi scusarti; né per i silenzi, né per la franchezza spesso brusca che ti contraddistingue, né per il tuo modo di non saper affrontare un conversazione normale che sia una. Dopotutto, non lo hai chiesto tu di... avere gente intorno la maggior parte del tempo, ecco. O di essere così. La tua esistenza sembra più semplice quando non devi preoccuparti di un respiro trattenuto un po' troppo a lungo, delle borse violacee sotto gli occhi, del silenzio criptico che accompagna uno sguardo chiaro e vuoto. Non hai scelto tu... nulla; niente di tutto quello è opera tua. Fingi lo sia, fingi che ti calzi a pennello, ma solo perché urlare e squarciare quella parete richiederebbe più energie di quante ne possa contenere il tuo fisico magrolino, e le spalle curve, piegate dalla sensazione di inadeguatezza – e di finalità.
    E quindi, alla fine, decidi di non farlo: di non rispondere, di non dare cenni di vita perché l'unica cosa in cui sei maledettamente bravo è fingerti morto, senza nemmeno doverti sforzare troppo. Ti viene quasi naturale. È quel sussulto involontario l'unico cenno a dimostrare che no, non sei una statua messa lì per riempire gli spazi vuoti di Different Lodge, purtroppo; e le parole di Harper a scivolare contro un disinteresse coltivato negli anni, con tanta cura al punto da arrivare a germogliare folto e rigoglioso, fino a diventare l'unica cosa degna di nota di tutta la tua persona. E lo sai, lo sai benissimo che se solo volessi, se solo ti impegnassi, riusciresti ad essere una persona normale anche tu. Problematica, disagiata, ma non più né meno di tanti altri che conosci.
    Ma non vuoi.
    Perché dovresti?
    Lanci uno sguardo calmo e piatto in direzione di Harper, la fissi senza vederla, domandandoti se sia veramente lì o se quella capra bastarda ti sta giocando un altro dei suoi scherzi.
    O forse non è Pentacolo, ma quella realtà distorta che ogni tanto ti si presenta, che ti fa riflettere, che ti fa salire la nausea. Perché lo sai che il problema se tu – su così tanti piani che è impossibile trovare l'inizio, la base. E l'accetti; accetti di vederti, e di sentirti come se fossi estraneo a tutto quanto, perché per certi versi lo sei. Quel discorso sul cartone animato? Lo senti e non lo senti, non ti interessa e non ti tange, ma puoi quasi toccarlo: senti sulla pelle il desiderio di Harper, a pizzicarti come se fosse il tuo; quel bisogno di avere qualcosa che fermi e che tenga a bada un dono che non vuole. Non vuoi. Non volete. E poiché sei tu, sbagliato fino alla fine, imperfetto, onesto, parli prima di poterti fermare: «esistono i guanti ignifughi.» Quelli che, ora lo sai dopo mesi di tirocinio, vengono utilizzati per allevare i draghi.
    Vuoi aiutarla, a modo tuo, ma ci riesci? Ti sembra di sì, sei stato d'aiuto, le hai fornito un'opzione valida e pratica, ma l'espressione sul volto della ragazza non ti è chiara; non sai (non vuoi?) decifrarla. Ti è grata? C'è rimasta male? Non lo sai.
    (Non vuoi saperlo.)
    Harper è lì, eppure ti basta socchiudere le palpebre brevemente per sentirti completamente solo; le riapri e lo sei, solo. Riesci persino a vederti. Oggi, ieri. Domani.
    Ricordi le urla di un padre ubriaco, che ti soffia in faccia parole che puzzano di whiskey, mentre sottolinea l'ovvio: «il problema ce l'hai nella testa, tu» come dargli torto? Nove volte su dieci sei fatto come una pigna; quando sei sobrio desideri non esserlo. Parli con una capra, hai lasciato che fin troppe persone nell'ultimo anno si insinuassero nella tua vita (nel tuo cuore) e ivi rimanessero – devi avere per forza un problema bello grosso. E allora gli rispondi che «lo so, grazie tante e vaffanculo» la tua risposta a tutto è un dito medio, quando si tratta di lui. E glielo mostri, sprezzante e fiero, mentre ti allontani da quella casa che non è la tua, non lo è mai stata, non lo sarà mai. Casa tua è bruciata anni fa; tu l'hai rasa al suolo. Come potresti non avere dei problemi nella testa? Cacci un sorriso amaro, ma non sei più da solo e accanto a te c'è Harper, che ti guarda. Ti guarda? Non ne sei così sicuro, infondo: però una cosa la sai, e cioè che non sei fatto.
    Forse ti preferiscono quando lo sei.
    Di certo, tu lo preferisci.
    Se non hai le tue migliori amiche su cui ripiegare le colpe, rimane solo la verità: e la verità è una cosa che cerchi, sempre, costantemente, ma non sai accettare. Questo senso di depersonalizzazione (dove l'hai imparata questa parola? devi averla letta da qualche parte, sei pur sempre una persona intelligente anche se nessuno se ne rende conto – tu per primo) ti è familiare, spesso confuso con il mondo ovattato in cui ti catapultano le droghe, ma non lo accetti. Ci convivi, certo, come potresti non farlo, ma non lo accetti.
    «Non lo accetto.» Lo lasci cadere nella conversazione come se fosse normale, come se avesse senso, ma non ce l'ha; solo se confuso con una risposta bizzarra a quel «mi piacerebbe avere qualcosa per bloccarlo» potrebbe guadagnare significato. Non accetti il tuo potere, il che è vero. Verissimo. E ora che ci stai pensando di nuovo, ti senti in dovere di aggiungere «mi piacerebbe non averlo affatto» e le due verità si confondono: una che ha forma solo nella tua testa, una condizione psicologica che non puoi controllare; una che invece è visibile a tutti, una costrizione fisica che potresti controllare ma che non vuoi, punto e basta.
    Per te si equivalgono, ma per Harper?
    Non ti viene dietro, non riesce a leggere la tua mente come potrebbero fare altri.
    Non hai senso.
    Allora sollevi entrambe le sopracciglia, in direzione del vuoto di fronte a voi, perché non hai mai sostenuto di volerlo avere, un senso. Che siano gli altri a decidere per te, davvero hai perso interesse nella cosa già da troppo tempo.
    A meno che non stia mentendo a te stesso. Odi le menzogne e giustifichi la tua mancanza di tatto spacciandola per onestà, ma quando devi parlare a te stesso, cosa sei? Un bugiardo. Un falso. Una maschera che hai paura di togliere, poiché l'unica persona che è stata in grado di abbassarla, non l'hai più rivista. Vorresti farlo, un giorno: strapparla via definitivamente e mostrarti per ciò che sei – sai di meritarne le conseguenze. Ma non lo fai, e non concedi verità che non siano palesi - e quando lo fai, non vengono capite. Ridi (lo fai per davvero?) e scherzi (a modo tuo) e vivi (circa) ma poi ti osservi e cosa vedi? Una persona che si nasconde. Hai provato a non farlo, a funzionare come un essere umano ma aveva ragione l'ubriacone, il problema ce l'hai nella testa.
    E allora sei scappato; o non hai inseguito?
    Beh, in entrambi i casi il risultato rimane lo stesso: hai stretto il pugno attorno all'aria, nessuna presa solida, e sei caduto.
    Come Alice giù per la tana del Bianconiglio, esatto, ma tu non hai mai smesso di precipitare. Stai ancora cadendo, sempre più in basso.
    E parli da solo, cazzo, sei proprio arrivato alla frutta.
    Solo, già. Anche Harper ha detto di ritrovarsi spesso sola.
    «Vuoi rimanere da sola? Me ne vado.» Ancora quella schiettezza troppo diretta, troppo decisa. Harper ti guarda e tu guardi lei – cosa pensi? Che forse faresti meglio a tornare a dormire, che quando dormi non puoi fare guai, non puoi ferire nessuno.
    Tranne quando hai gli incubi, è la voce di tua mamma che te lo ricorda. Sorride mentre lo dice, ma per una volta non è bella come la conoscevi: ti sta incolpando con gli occhi vitrei e il sorriso dolce, e tu pensi che quello è un incubo. Perché non è un'allucinazione – forse - e non è uno stramaledetto ricordo.
    Scuoti la testa e scacci il pensiero, gli occhi serrati fino a vedere i colori esplodere dietro le palpebre; quando le rialzi, Harper è ancora lì.
    Ti sei avvicinato tu a lei, senza chiederle nulla, senza che lei chiedesse nulla; e ora ti penti di averlo fatto - di aver rovinato la sua solitudine. Odi quando succede a te. Cosa cercavi, mh? Un po' di misera compagnia? Egoista. Tu non lo sei - non lo sai essere, e glielo dici: «non sono comunque di compagnia, mi spiace.» Però sai essere davvero sincero quando vuoi. Ma fino ad un certo punto.
    johannes 'hans' belby
    pyromaniackinesis | 16 | #no


    scusa??? eH.
    non ha senso. giustifichiamo tutto dicendo che sta avendo un episodio è hans
     
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3 replies since 24/11/2020, 19:39   257 views
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